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Capo XIII.
Viaggio ed apostolato.

1. Partenza da Ifagh. — 2. A Beklò-Fellega. — 3. Rimorsi e confessione di Maquonèn. — 4. Mie risposte e pentimento. — 5. La menzogna, arma di tutti i nemici della religione. — 6. Curioso accidente al portatore Tokkò. — 7. Al villaggio di Abba Desta. — 8. Accoglienze ed interrogazioni. — 9. Cena, conversazione e pericoli. — 10. Emetico a Tokkò. — 11. Industrie per convertire i due nipoti. — 12. Il pranzo; compostezza dei due giovani. — 13. Si risolvono di partire con me. — 14. È accordato il permesso. — 15. L’ultima notte presso Abba Desta. — 16. Incoraggiamenti e consigli. — 17. Partenza. — 18. Arrivo ed accoglienze al villaggio. — 19. Suggerimenti a convertire altri. — 20. La cena. — 21. Una notte in veglia. — 22. Passaggio dell’Abbài. — 23. Due diaconi di Mota. — 24. A Mota. — 25. Cena e consiglio sul viaggio. — 26. Risoluzione dei due ultimi giovani. — 27. Il divorzio rovina dell’Abissinia. — 28. Lettera al P. Cesare. — 29. Partenza per Cranio. — 30. Tre giorni di viaggio. — 31. Un lebbroso importuno. — 32. La lebbra in Abissinia; impunità dei lebbrosi. — 33. I lebbrosi ad un taskàr. — 34. Arrivo dei messi del P. Cesare. — 35. Al santuario di Lieùs. — 36. Partenza per Naura; una bella cascata d’acqua. — 37. A Zemiè.

Appena passata la festa dell’Assunta, ritornarono da Gondar il servo Giuseppe ed il portatore Tokkò, e ci disponemmo alla partenza. Le piogge erano diminuite, ma non ancora cessate; sicchè le strade certamente si sarebbero trovate malagevoli, e quindi assaiincomode. Tuttavia il 23 Agosto si partì da Ifagh col giovane Maquonèn, camminando a piedi e per vie fangose, tanto che nell’attraversare la pianura dei Foggarà, l’acqua e la melma ci arrivavano a mezza gamba. Questo vasto piano, tutto incolto ed abbandonato nella stagione delle piogge, nell’estate serviva di pascolo al numeroso bestiame dei Zellàn: onde, quando noi vi passammo, era interamente deserto. Verso /155/ mezzogiorno tragittammo il Reheb sopra un ponte costruito dai Portoghesi, ma quasi totalmente in rovina, e poscia si continuò il viaggio, fermandoci a dormire in alcuni villaggi, di cui non ricordo più i nomi.

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2. Il terzo giorno si arrivò a Beklò-Fellega, grosso paese appartenente ad Ozoro Menèn, madre di Râs Aly ed allora Regina di Gondar; il quale posto sopra amene colline al Sud d’Ifagh, per la mitezza del suo clima e per la salubrità dell’aria, era scelto dalla Regina per villeggiatura nei mesi dell’inverno. Subito che le fu annunziato il nostro arrivo, senza sapere chi fossimo, ci fe’ assegnare una capanna, e ci mandò una pecora, pane e birra. Non avendo intenzione di passare da suo figlio, mandai a ringraziarla di tanta generosità, senza neppur nominare il mio finto cognome, e nemmeno la vidi; e quantunque, dopo tre giorni di cammino per istrade fangose ed impraticabili, avessimo tutti bisogno di riposo, pure ordinai di partire la mattina seguente prima che si facesse giorno; poichè altrimenti sarei stato costretto di farle visita, con pericolo di essere riconosciuto. Si partì di fatto per un paese distante circa tre leghe, dove trovammo bestiame e mandre numerose; ed i cui padroni, oltre l’ospitalità, avendoci gentilmente offerto carne e latte, ci fermammo un giorno per riposare, ed anche per causa della pioggia che cadeva dirottamente.

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3. Il giovane Maquonèn, sin da quando si partì da Ifagh, erasi mostrato assai triste e pensieroso; e lungo il viaggio più volte aveva cercato di parlarmi da solo a solo: ma, essendovi sempre altri in compagnia, non gli era riuscito. Compresi che qualche assalto del demonio lo tormentasse; e me ne confermai quando mi disse che sarebbe ritornato volentieri a casa, se glielo avessi permesso. —66Non posso, gli risposi, poichè, essendo tu porta parola del Nagadarâs, necessariamente dovrai accompagnarmi sino al Goggiàm. Piuttosto questa tua malinconia mi fa sospettare che qualche segreta angustia turbi l’animo tuo: svelati meco apertamente come pel passato, e vedrai che non sarà nulla.66— Allora mi raccontò quasi piangendo come in Ifagh si trovasse un indigeno, il quale, essendo stato condotto tempo addietro dall’inglese Kraf nelle Indie, ed educato nel protestantesimo, ritornato poscia in patria, si era messo a far propaganda a favore di quella setta, dalla quale riceveva il soldo come ministro protestante. Or questi il giorno dell’Assunta avvicinando il giovane ed invitandolo a diporto, con parole amichevoli e dolci lusinghe lo aveva indotto a trasgredire i proponimenti fatti: e per istaccarlo totalmente da me, gli aveva detto che io era un impostore, un gabbamondo, ed un incirconciso, che lo ingannava per tradirlo. Il povero giovane da un lato /156/ non avrebbe voluto prestar fede a quelle calunnie, e cacciava via ogni sospetto: ma raggirato sempre più, e sedotto da quel figlio del diavolo, sino a spingerlo di accertarsi con i proprj occhi della verità di quanto diceva rispetto alla circoncisione (1), era in preda a rimorsi e dubbj che non gli davano pace.

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4. Allora, abbracciandomelo, lodai la sua schietta confessione, e gli dissi: — Colui che mostrava tanta amicizia e tanta premura per salvarti da un impostore, sappi che è un vero impostore egli stesso, volendo far credere agli altri ciò che egli non crede, e togliendo ai cuori altrui la pace che godono. Esso appartiene a quella setta, che bestemmia la Madonna, nega il vostro Kurvàn, ed odia pure la vostra religione. Che sia un uomo perverso ed un vero figlio del diavolo potrai convincertene da questo, che contro tua voglia t’indusse a peccare, e violare i buoni proponimenti che avevi fatto: che sia poi un vero impostore, te lo mostra il suo parlare rispetto alla circoncisione; poichè devi sapere ch’essendo quest’atto religioso dalla sua setta proibito, egli non solamente non vi crede, e non lo reputa necessario per i cristiani, ma è obbligato a predicare il contrario. — E per renderlo certo di questo fatto, gli feci leggere nella lettera di S. Paolo, tradotta in lingua amarica, che il protestante gli aveva regalato, quel passo in cui si proibisce la circoncisione. — L’osceno peccato, soggiunsi poi, che per istigazione di quel malvagio hai commesso, è grande; ma un peccato maggiore sarebbe certamente se, dopo aver conosciuta la vera fede, l’abbandonassi. Ritorna dunque a Dio, che sempre è pronto a perdonarti, e guardati per l’avvenire da questi impostori, che sono gli emissarj dell’inferno e del diavolo. — Allora piangendo cadde in ginocchio, e con sincero pentimento mi domandò perdono, promettendo di ripigliare il primiero fervore. — Ma un’altra pena ho da manifestarle, soggiunse, ella ha detto che il Battesimo è la nascita dell’uomo avanti a Dio, ed esso dà forza per vincere il diavolo e le sue insidie; e di fatto Melàk e suo fratello, che sono stati da lei battezzati, quantunque pagani, pure sono più forti e più fervorosi di me. È vero che io fui battezzato dai nostri preti; ma vedendomi così debole, dubito che non sia stato battezzato bene. Or perchè ella non dà pure a me il Battesimo, come a Melàk? —

— Caro mio, forse hai ragione: ma se non l’ho fatto sinora, è stato /157/ perché spero rigenerarti a Gesù Cristo quando arriveremo in un luogo, in cui possa trovare maggior comodità e tutte le cose necessarie. —

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5. È stato sempre questo il mestiere dei nemici della religione, calunniare e mentire. Voltaire diceva: Calunniate e mentite sempre; ma prima di lui, eretici, scismatici e protestanti avevano già messo in pratica il malvagio consiglio. Ed anche in Abissinia i seguaci dell’errore, per abbindolare il popolo e tenerselo soggetto, si erano serviti di quest’arma vile ed insidiosa, cominciando dal primo scisma sino al Concilio Vaticano. Ultimamente, trattandosi in Concilio il dogma dell’infallibilità, eretici e protestanti spargevano anche là che il Papa si volesse fare Dio; ed il popolo, che nulla capiva, mettevasi sempre più in sospetto contro la Chiesa di Roma. Ed il nostro protestante, non potendo altro, seguiva ad esercitare, benchè con poco frutto, il suo mestiere, spargendo le solite Bibbie, ed insegnando a quelle ignoranti e rozze popolazioni i più grossolani errori. Ributtante poi deve dirsi quel modo di agire che tenne col buon giovane Maquonèn per istaccarlo da Gesù Cristo e da me. Condurlo al postribolo, incoraggiarlo allo sfogo delle passioni, metterlo in sospetto di me con la falsa dottrina della circoncisione, e giungere al punto d’insegnargli il modo di accertarsi che io veramente non fossi circonciso; è per certo un apostolato degno dei seguaci di Lutero e di Arrigo VIII!

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6. Ritornata la calma nell’animo del giovine Maquonèn, la mattina seguente eravamo pronti a partire: ma uno strano accidente incorso al portatore Tokkò ci costrinse a fermarci quasi sino a mezzogiorno. Prima di metterci in viaggio si volle fare un po’ di colazione con latte coagulato, ch’era avanzato la sera, e con altro fresco, che ci venne regalato la mattina stessa. Ciascuno ne bevette quanto ne desiderava, e ne sentiva il bisogno: ed avanzandone una buona quantità, si pensava restituirlo. Tokkò, quantunque ne fosse già sazio, pure sentiva pena di lasciare quel buon latte, e seguitava a bere; nè cessò finché non se l’ebbe tutto tracannato. Ma il poveretto, ripieno sino alla gola, cercando di alzarsi, per quanti sforzi facesse, non vi riusciva, e rotolavasi per terra come un otre pieno. Allora me gli avvicinai, e premendogli dolcemente il ventre, gonfio come un tamburo, cominciò a buttar latte dalla bocca: poscia fattolo alzare da due uomini, con lo sforzo di quel movimento ne rigettò tanta quantità, che ne restarono bagnati anche i due, che lo sostenevano. Continuando a promuovere questo beneficio, ne mise fuori almeno sei litri; e così potè rasserenarsi, e dopo alcune ore di riposo rimettersi in cammino. Accadono spesso simili fatti ai poveri abissini, quando trovano chi metta loro dinanzi /158/ latte, birra e carne cruda in abbondanza: e perché, datasi l’occasione, non sanno contenersi nei giusti limiti, sovente ne muojono d’indigestione.

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7. Lungo la strada il povero Tokkò, col suo carico sulle spalle, andava rigettando altre sorsate di latte; il che se da un lato ci faceva pena, dall’altro senza volerlo ci moveva a riso. Finalmente la sera si giunse al villaggio, pel quale io era passato un anno e mezzo prima, venendo da Mota, ed in cui dimorava quel buon monaco Abba Desta, che mi aveva dato sì cortese ospitalità. Non volendo andare da lui per timore di essere riconosciuto, presi alloggio nella parte opposta del paese: ma Abba Desta, appena intese ch’era arrivato un Bianco, mandò tosto i due suoi nipoti ad invitarmi. I giovani non mi riconobbero, e poscia neppure lo zio; poichè, vestito da mercante arabo, e con la barba di altra forma, aveva mutato figura. Tuttavia cercai ogni maniera per disimpegnarmi dell’invito: ma essi tanto dissero e fecero, che fui costretto ad arrendermi: anche per non destare sospetti nei miei compagni.

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8. Quel buon vecchio era ritornato poco prima dalla chiesa, dove al solito aveva passato tutta la giornata in preghiera, ed appena giungemmo alla sua porta ci accolse con mille affettuose gentilezze; e poichè in casa si diceva che fosse ancora digiuno, lo pregai a mettere da parte le cerimonie, e prendere piuttosto qualche ristoro. — Ah, rispose con tutta gravità, io, tranne le domeniche e le altre grandi solennità, in cui mangio qualche cosa la mattina, gli altri giorni sto digiuno sino alla sera. — Gli portarono intanto un corno di farina di lino sciolta nel miele, e saporitamente la bevette. Mi domandò poscia d’onde venissi.

— Da Ifagh, risposi, ma principalmente ne vengo dal gran Monastero di S. Antonio. —

— Dal Monastero di S. Antonio! replicò meravigliato e commosso, dal Monastero del nostro Santo Padre! dal Monastero dei Santi! Ma voi dunque siete un monaco di quel Monastero? —

— No, risposi, io appartengo alla gente che sta di là dei mari: andai al Monastero per baciare il sepolcro del gran Patriarca, mi vi fermai alcuni giorni, e poi presi la strada di queste parti. —

— E non avete per avventura conosciuto un certo signor Antonio, il quale, un anno e mezzo fa, venne in Goggiàm a trovare Râs Aly? Egli al ritorno tenne questa strada, e fermossi due giorni in casa mia con altri tre monaci, due dei quali erano suoi fratelli, e l’altro del Tigrè. Mi fu detto in segreto ch’egli fosse un Vescovo, chiamato da Râs Aly; ma poi, per contrasti avuti con Abba Salâma, credette meglio ritornarsene al suo paese. —

/159/ Quel signor Antonio essendo io stesso, non mi conveniva tirare più a lungo un tal discorso, e perciò risposi seccamente di averne sentito parlare, e poi, per mutare argomento, presi tosto ad interrogarlo della vita monacale, della sua santità, e di cose simili.

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9. Giunta l’ora di cena mi presentarono due pietanze di carne condita con molto pepe rosso: l’avrei assaggiata, quantunque non mi fosse stato mai possibile accostumarmi a quel forte condimento: ma avendo veduto l’altra volta che quei piatti li facevano servire anche ad altri usi più indecenti, nauseato, non ne volli gustare; ed essendovi anche del latte coagulato, v’inzuppai un po’ di pane, e mangiai molto bene. Portarono Ill. Danza religiosa di Defteri. || pure buona birra ed idromele eccellente, che avevano fatto per la festività dell’Assunta, e ne bevetti un poco. Dopo cenarono i miei servi e quei di casa; Tokkò intanto ad onta della lezione della mattina, e delle mie raccomandazioni di sobrietà, diede un assalto completo alla tavola, ed allora si alzò quando non vide più altro da divorare. Finita la cena, mi ritirai sul mio algà (1), ed i due giovani vennero tosto per ungermi i piedi con butirro: il qual servizio rifiutai, dicendo, che l’avrei fatto poscia da me stesso. Mentre cercava di recitare qualche preghiera, essi, ch’erano rimasti attorno al fuoco, se la passavano in conversazione; e tanto il /160/ monaco quanto i due giovani rivolgevano al figlio di Maquonèn certi discorsi, che non mi piacevano punto. Con grande consolazione dell’animo però il sentiva rispondere assai saggiamente, e faceva loro tali riflessioni, che forse mai quella famiglia aveva intese dalla bocca di un Abissino. Finalmente alzatisi dal fuoco, il monaco se ne andò sul suo algà, e Maquonèn, avvicinatomisi all’orecchio, mi disse che desiderava dormire accanto a me. Glielo permisi, e buon per lui; perchè altrimenti in quella casa di santità, non so che pericolo avrebbe corso quella notte: poichè pur troppo le mie previsioni su i due nipoti, fatte nell’antecedente viaggio, si erano avverate! Con quella stupida condiscendenza dello zio a tutti i loro capricci; con quella libertà che loro si lasciava di fare cose non convenienti nè alla loro età, nè al rispetto che ciascuno deve a sè stesso ed agli altri, essi erano cresciuti arroganti, licenziosi e sfacciatamente scostumati.

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10. Lungo la notte si sentiva il povero Tokkò mandare gemiti, e contorcersi come un serpe. — Ci siamo, dissi allora, una nuova indigestione peggiore della prima! — E fatto alzare il giovane Maquonèn, andò a domandargli che male si sentisse. — Un gran dolore alla testa ed al ventre, rispose. — Nessuno ne aveva pietà, poichè la sera era stato avvertito da me di non abusare nel cibo; ed egli come se fosse stato in buona salute, aveva divorato più del mattino. Essendo tutti immersi nel sonno, non conveniva disturbarli; ma continuando a mandare gemiti, prima di giorno gli diedi una buona dose di emetico, e dopo mezz’ora rigettò tutta la cena della sera: così potè prendere un po’ di riposo, e verso le otto era quasi guarito. Io pensava allora di partire, e Maquonèn era del mio avviso: ma il buon monaco si oppose, volendoci con sè almeno un altro giorno. I servi, che vedevansi trattati bene, principalmente a birra, mi pregarono di rimanere, e mi fu forza cedere.

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11. Sentiva gran pena al cuore nel vedere quei due giovani così divagati e perduti; perciò, chiamato Maquonèn, gli dissi: — Giacché il Signore ha voluto che restassimo qui un altro giorno, cerchiamo di far del bene a questi due giovinetti. Tu vedesti ciò che Melàk seppe fare con te e con altri suoi compagni per ridurvi a Dio, procura adunque di imitarlo ora che se ne presenta l’occasione. Andrai da loro, e chiamatili in disparte, racconterai la tua conversione, dirai come tu eri più cattivo di essi; ma poi dando ascolto ai miei consigli, risolvesti di mutar vita, e d’allontanarti dal vizio con grande vantaggio dell’anima tua e della tua salute. Narrerai ciò che da me hai appreso, e se vedrai che i loro cuori si commoveranno, /161/ li condurrai da me, ed io farò il resto. Se tu conquisterai quelle anime, il Signore compenserà la tua fatica con istraordinarj favori. — Il buon giovane animato di zelo, corse tosto da loro, e dal calore con cui parlava, compresi che adempiva bene la sua missione. Dopo circa un’ora e mezzo di conversazione, vedo venire uno dei nipoti, e gettandomisi ai piedi, me li stringeva, e sospirava, ed alzava ed abbassava gli occhi mortificati e mesti, senza dir parola. Allora rialzatolo, me lo abbracciai; ed egli: — Mi salvi, disse, signor Bartorelli, io voglio essere come il figlio del Mesleniè: sin qui nessuno mi ha detto quello che ora ho inteso, onde credeva di essere un uomo, laddove in verità non sono che un demonio. — Il fratello dibattendosi ancora con Maquonèn, li chiamai, e come se nulla sapessi: — Che questione avete? domandai. —

— Questi giovani, prese a dire Maquonèn, sono più buoni di me, perchè appena inteso parlare delle cose sante da lei dette, hanno conosciuto la verità, e son disposti e risoluti di mutar vita; laddove io dopo tante istruzioni e consigli son debolissimo, ed alla prima occasione tradii i miei proponimenti. — Allora, prendendoli tutti e tre per le mani, manifestai loro la mia gioja nel vederli così docili alla voce del Signore; li esortai a far tesoro della grazia, che loro dava, col metterli a conoscenza del male, che per ignoranza avevano fatto, e del bene che potevano fare per l’avvenire, diedi loro tanti altri opportuni consigli, e li benedissi.

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12. Si avvicinava intanto l’ora del pranzo, e la monachella, chiamati i due nipoti, diede loro gli ordini per apparecchiare la tavola e disporre le altre cose. Io li guardava con compiacenza andare qua e là così composti e mortificati, che sembravano due angioletti; ed a quella vista andava riflettendo essere pur vero che, quando l’uomo sia dominato dal sentimento religioso, par che muti anche la sua fisonomia. Il loro volto di fatto aveva preso un’aria modesta e malinconica, gli occhi non più vagavano qua e là licenziosi e spiranti malizia, il portamento non era più svogliato e leggiero, ma concentrato e grave, tutto insomma era mutato in essi; ed il cambiamento esterno mostrava la trasformazione del cuore. Il pranzo fu abbondante; ma io non mangiai che pane e latte; poichè non mi sentiva il coraggio di toccare quei piatti! Poscia mangiarono i servi e la famiglia. Tokkò avea incominciato a mandar giù ingordamente secondo il suo solito, e dovetti avvertirlo più volte di non fare spropositi, e non esporsi a nuove indigestioni. I due giovani gustarono poche cose, e richiestili perché non mangiassero: — Per seguire il suo esempio, risposero. —

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13. Finito il pranzo, uscimmo insieme a far quattro passi, ed allora mi /162/ manifestarono il desiderio di voler partire con me, per essere maggiormente istruiti, ed allontanarsi dalle occasioni di peccato, che ogni momento trovavano in casa dello zio. — Se noi resteremo qui, dicevano, continueremo la stessa vita di prima; i compagni, lo zio, noi stessi, partito lei, faremo quello che sinora abbiamo fatto: ci accetti dunque e ci conduca con lei, come il figlio di Maquonèn, e noi saremo salvi. —

— Nessuna difficoltà vi sarebbe da parte mia, risposi, di ricevervi e tenervi come miei figli: ma che cosa dirà vostro zio? ve ne darà il permesso? Parlatene adunque prima con lui, e qualora egli acconsentirà, vi condurrò meco, v’istruirò, e quando poi farò ritorno, ritornerete anche voi presso vostro zio, e farete del bene a lui e ad altri. Intanto pregate Iddio, affinchè vi dia quei lumi, di cui avete bisogno, e faccia andare ogni cosa per lo meglio delle anime vostre. —

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14. Corsero tosto a trovarlo in chiesa, e gli esternarono il loro desiderio. Il vecchio da prima non sapeva che risolvere, poichè privarsi di quei due giovanetti che tanto amava, sembravagli troppo duro: ma poi vinto dalle premurose insistenze di entrambi, acconsentì di dare il permesso ad un solo, col patto di ritirarsi in casa al mio ritorno. Tuttavia i giovani non perdettero la speranza di vincere la sua resistenza anche per l’altro; e di fatto la sera, ritornato dalla chiesa, me ne parlò egli stesso, dicendomi: — I miei due nipoti vorrebbero venire con lei, sarebbe ella disposto a riceverne uno? —

— Non uno, risposi, ma tutti e due, qualora voi lo permetterete. Essi potranno ritornare quando vorranno; io intanto li terrò come miei figli, farò loro del bene, e spero che ne resterete contento anche voi. —

Parve allora che volesse acconsentire di lasciarli venire tutti e due; quindi chiamai Maquonèn e gli dissi di avvertirli che lo zio certamente avrebbe dato il permesso: ma che essi vi riflettessero bene prima di dare il passo; poichè se non fossero fermamente risoluti di seguire tutti i miei consigli, e rimettersi totalmente nelle mie mani, potrebbero senz’altro restarsene a casa. Dopo cena Maquonèn venne a dirmi che tutti e due esultarono di gioja nel sentire che lo zio avrebbe dato il permesso, e ch’erano fermamente risoluti di seguirmi, disposti anche a far da servi come gli altri, per apprendere gl’insegnamenti della verità, correggere la loro condotta, e salvare l’anima loro.

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15. Dopo aver cenato e bevuto allegramente un corno di birra, si parlò del viaggio. Avendo domandato se nella stessa giornata potevamo giungere a Mota, il monaco rispose di no. — Dimani sera, soggiunse, /163/ vi fermerete in un villaggio di qua dell’Abbài, e passerete la notte in casa di un nostro amico, che i miei nipoti già conoscono. Il giorno seguente partirete per Mota, ed anche là sarete ospitati da un altro mio amico; il quale sarà nel caso di darvi tutte le agevolezze possibili per arrivare sicuramente al Goggiàm. — Dopo la conversazione i due giovani accompagnarono lo zio al letto, gli prestarono i soliti servizj, e ci disponemmo a riposare anche noi. Maquonèn mi aveva detto che alcuni compagni dei giovani, avendo saputo che il giorno appresso sarebbero partiti, probabilmente non avrebbero mancato di venirli a disturbare in quella notte: perciò, fatte stendere le loro pelli accanto al mio letto, volli che dormissero vicini a me. Recitato il Rosario e le altre mie preghiere, e raccomandato a Maquonèn di vigilare anche lui, mi posi a dormire. Nel meglio del sonno Maquonèn venne a destarmi, ed a voce bassa mi disse che persona estranea era entrata nella capanna. Allora alzatomi senza fare rumore, mi posi a sedere in mezzo ai due giovani. Intanto la persona a poco a poco si avvicinava per isvegliarli, Dio sa con quali intenzioni! Io subito fui lesto a prenderle la mano, e tirandola a me, le applicai uno schiaffo così solenne e sonoro che si senti per tutta la capanna. La poveretta, mezzo stordita, se ne andò senza farne ricevuta, e senza sapere donde fosse venuto quel regalo.

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16. Fattosi giorno, i due giovani conoscevano già la scena accaduta nella notte; poichè uno di essi essendosi svegliato, aveva inteso tutto e tutto raccontato al compagno. Laonde, usciti all’aperto col buon Maquonèn, presi a dire: — Vedete, figli miei, il diavolo sta notte ne voleva fare una delle sue, ma mercè la grazia di Dio, e l’assistenza dell’Angelo vostro Custode, è stato vinto, e se n’è fuggito con le corna rotte. Così dovrete far sempre voi quando vi si accosterà per tentarvi e spingervi al male. Esso si serve di tutti i mezzi per vincere la vostra debolezza; i compagni, i pensieri, gli occhi, la lingua, le mani, tutti i vostri sensi possono essere strumenti del diavolo per indurvi a peccare, se non istarete vigilanti a guardarvene e custodirli. Consacrate adunque la vostra persona a Dio, ed affidatevi a me, che sarete sempre vittoriosi. Prima intanto di fare un’azione, domandate il mio consiglio, ed io vi dirò se sarà buona o cattiva: che se mi nasconderete qualche cosa, ed avrete paura che io la sappia, è segno che sarà cosa malvagia, e facendola peccherete. Non intendo dire con ciò che dobbiate abbracciare lo stato di monaco; a questo penserete appresso, poichè forse Iddio potrà destinarvi al matrimonio: ma finché starete con me, dovrete lasciarvi guidare dai miei consigli. — Allora secondo l’uso /164/ del paese, mi baciarono i piedi, e giurarono di rimettersi interamente nelle mie mani, ed eseguire ogni mio cenno.

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17. Si fece poscia colazione, e ci disponemmo a partire. Vennero molte persone a salutarci e ad accomiatarsi dai giovani, e fra le altre, mi dissero, che vi era quella, che aveva ricevuto lo schiaffo; ma i giovani accanto a me erano allegri e tranquilli. Il monaco, abbracciandomi, mi disse: — Giacché questi miei nipoti hanno confidenza in lei, io glieli consegno come figli, e son certo ch’ella farà loro da padre: quando poi ritorneranno, la mia casa sarà sempre aperta per loro, e mi troveranno quale sinora sono stato. — Poi rivolto ad essi: — Siate obbedienti, disse, a questo vostro nuovo padre, e non gli date mai dispiacere, mantenetevi fedeli alla sua parola, ed il Signore vi ajuterà. — Se li baciò in fine con grande espansione di cuore, lo stesso fece la monachella, e ci dividemmo.

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18. Verso le tre pomeridiane giungemmo a vista del villaggio, di cui non ricordo il nome: ed i due giovani con confidenza mi si raccomandarono, perchè vegliassi su di loro, essendovi là molti compagni assai pericolosi. Dopo un’altra ora di cammino vi arrivammo, e preceduto da essi, mi avviai dritto alla casa del loro amico. Quell’abitazione all’esterno mostrava una famiglia abbastanza ragguardevole e ricca; ed appena ci videro, corsero a salutarci, e facendoci mille complimenti, e’ introdussero in casa. Subito portarono un vaso di birra, che i miei compagni bevettero con gran gusto, principalmente Tokkò, il quale vi replicò più volte: poscia ne fu data a bere, con gran dispiacere di Tokkò, anche ad alcuni vicini, ch’erano venuti a congratularsi dell’arrivo dei due giovani. Intanto si era scopata un’altra capanna per noi, nella quale entrammo per ricevere le persone che venivano a visitarci.

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19. Finite le visite degli amici e dei vicini, uscimmo fuori per fare due passi ed osservare quei luoghi. Io aveva notato quanto adatto ed efficace fosse stato su quei popoli rozzi ed ignoranti, e principalmente sulla gioventù, l’apostolato di Melàk e di Maquonèn, e come essi avessero ottenuto facilmente quello, che io, forse invano o dopo lungo tempo mi sarei sforzato di conseguire. Un forestiero è sempre una persona sospetta in quelle parti, finché almeno non arrivi a convincere quei popoli delle sue buone ed amichevoli intenzioni. Quindi la mia parola non poteva in principio ispirare quella confidenza, ch’è necessaria per essere accolta da quelle popolazioni con fiducia e senza timore. Quella invece dei miei neofiti poteva più della mia sull’animo degl’ indigeni; poichè rispetto a loro non cadeva sospetto di sorta. Riputandoli come loro connazionali, /165/ non temevano inganno; e senz’ombra di diffidenza prestavano ascolto ai loro amichevoli consigli e salutari avvertimenti. A me poi bastava ch’essi gettassero il seme; per coltivarlo avrei trovato io i mezzi e la maniera. Quindi rivolto a quei giovani, e principalmente a Maquonèn (giacché i due nuovi neofiti non erano ancora abbastanza istruiti): — Procurate, diceva loro, di fare del bene anche qui, strappando qualcheduno dalle catene del demonio; poichè quello che è accaduto a voi, potrà accadere anche a tanti altri, se troveranno un amico, che apra loro gli occhi per vedere lo stato miserabile in cui si trovano. Dite adunque qualche buona parola; mostrate che l’uomo è un essere più grande e più Ill. Partenza e commiato da Abba Desta. || nobile della bestia, e che non fu creato per seguire gl’istinti animaleschi della corrotta natura, ma gl’insegnamenti di Dio e le aspirazioni nobili del cuore: e se anche un solo voi ricondurrete al Signore, sarà un vostro figlio per tutta l’eternità. —

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20. Intanto fummo richiamati perché era giunta l’ora della cena. Secondo l’uso del paese prima mangiai io, poi i miei compagni, ed in ultimo la famiglia, che contava un dodici persone, oltre gli schiavi e figli di schiavi. Io, al solito, fui contento di pane e latte coagulato: ma i servi ed i giovani mangiarono ogni cosa con grande appetito. A tavola sedono tutti per terra, eccetto i giovanetti, che stanno in piedi. Le tavole abissine son formate /166/ di canne intessute insieme, di maggiore o minore lunghezza, secondo il numero delle persone, che vi devono mangiare, ed alle due estremità son sostenute da due cilindri similmente di canne, alti circa due palmi. Non si usano tovaglie, nè forchette, nè cucchiai; poichè le mani servono a tutto. Si tiene qualche coltellaccio per tagliare i grossi pezzi di carne, e poi il resto lo fanno speditamente i denti. I piatti di terra cotta senza vernice, dopo aver fatto il servizio della tavola, presso alcune famiglie, come quella di Abba Desta, sono impiegati poi nella notte ad altro servizio, che non voglio dire! Per bere, usano bicchieri di corno, talvolta ben lavorati; e tutto questo è il servizio della mensa abissina. In fine la padrona di casa portò un gran vaso di birra, che fu distribuita a tutti, ed ai forestieri più volte.

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21. Finita la cena, e chiaccherato un poco, ci alzammo per andare a dormire: ma vedendo che in quella capanna dovevano passare la notte anche altri, e che i giovani per questo non erano senza timore, prescelsi dormire anch’io per terra; e fatta portare della paglia, ed allargatala, vi stendemmo sopra le nostre pelli una accanto all’altra. Recitate le mie preghiere, mi posi su quel nobile letto, fingendo di voler tosto dormire, per costringere gli estranei ad uscirsene, o andare ai loro posti. Finalmente smorzato il fuoco, si fece un po’ di silenzio: ma altri intanto entravano e si coricavano qua e là, ed alcuni vicino a noi. I due giovanetti rannicchiati ai miei piedi, se ne stavano tranquilli, e quasi non fiatavano, e Maquonèn, coricato accanto a me, anzichè dormire, vigilava egli pure attentamente. In quella notte insomma nè io, nè Maquonèn chiudemmo un occhio, per causa di quella gente viziosa e petulante, cui non mancò la volontà di disturbare principalmente i due giovanetti loro conoscenti, ma non mancarono neppure tiratine di orecchi, e schiaffi sonori da parte mia, come la notte antecedente. Finalmente spuntò l’aurora, e tosto alzatici, ci apparecchiammo a partire.

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22. Due giovani di quel villaggio, che avevano avuto qualche discorso con Maquonèn, e che la notte avevano dormito nella nostra capanna, mi chiesero il permesso di accompagnarci sino a Mota. Visto che, per la speranza di convertirli, ne avevano piacere anche i miei giovani, accondiscesi; e fatta colazione, partimmo accompagnati da molti altri del villaggio, che vollero darci questo contrassegno di benevolenza. A due ore di sole eravamo già al fiume Abbài (1), e ci accostammo ad un ponte fabbricato dai /167/ Portoghesi, ma quasi in rovina e con l’arco di mezzo rotto. Per poterlo tragittare vi erano stati collocati, così alla meglio, due grandi travi: ma essendo lunga la distanza, ed i travi mal messi, quel passaggio metteva paura a chi non fosse avvezzo. Il custode del ponte aveva portato con sè dal villaggio due valenti nuotatori, per soccorrerci in caso di pericolo; ma, grazie a Dio, non vi fu bisogno. Io però non mi fidai di passarlo solo; ma fattomi legare al cinto con una corda, lo attraversai in mezzo ai due nuotatori, che, uno avanti e l’altro dietro, tenevano i capi della fune: gli altri passarono lestamente e senza paura.

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23. Si proseguì ancora per un pezzo il viaggio, e sentendoci stanchi, ci mettemmo a riposare sotto un albero. Poi ripigliato il cammino, per istrada non cessava di occuparmi dei miei neofiti con quelle istruzioni, che credeva esser loro più necessarie; e debbo confessare che non isperava trovare tanta docilità, tanto fervore, e tanta avidità di sentire ed apprendere la parola di Dio. A mano a mano che aprivano gli occhi alla verità, i loro cuori si trasformavano, e le loro azioni pigliavano quel contegno, quella modestia, e quella riservatezza, che ammiriamo nei nostri buoni e ferventi cristiani. Verso le due giungemmo ad un piccolo villaggio, posto a piè della salita, che conduce a Mota; ed avendo detto i giovani che non saremmo arrivati alla città che ad ora assai tarda, risolvetti di passare la notte in quel villaggio. Lungo la strada si erano uniti con noi due giovani fratelli di Mota, i quali ritornavano dal Tigrè, dove si erano recati per ricevere l’Ordinazione del diaconato dal Vescovo eretico Salâma. Maquonèn per via li aveva interrogati su molte cose, e da essi aveva sentito raccontare parte delle vicende di Abûna Messias, il quale in Abissinia, per aver date molte Ordinazioni, era stato scomunicato e perseguitato da Salâma. Quei due giovani narravano pure come da Salâma fossero stati ordinati per istrada, andando a passeggio; e tanti altri fatti sulla condotta del famoso Prelato, che i miei lettori in parte già conoscono. Sembrava che avessero intenzione di restare quella notte con noi, e Maquonèn il desiderava, con la speranza di guadagnarli a Dio: ma poi si seppe che, avendo trovato alcuni amici, si unirono con essi, ed andarono a dormire altrove. Offertaci intanto da quella gente una capanna, Maquonèn, Giuseppe e Tokkò uscirono per cercare qualche cosa, onde cenare, e per questo diedi loro due sali, due cordoni e degli aghi: ma non trovarono che un po’ di pane ed un piatto di scirò (1). La cena adunque fu assai parca, con gran dispiacere di Tokkò, il quale non finiva di borbottare che sarebbe stato /168/ meglio continuare il viaggio sino a Mota, dove nulla ci sarebbe mancato. Finalmente mangiato quel poco, e fatta una conferenza, ci mettemmo a dormire, e la notte passò tranquilla per tutti.

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24. Svegliatici di buon’ora, prima del levar del sole eravamo in cammino; e fatta allegramente quella lunga salita, alle otto già ne toccavamo la cima. A mezzogiorno giungemmo a Mota, e ci avviammo dritto alla casa indicataci da Abba Desta. Non trovammo il padrone, ch’era un Deftera: ma la famiglia ci ricevette con grandi dimostrazioni di affetto, e ci assegnò una capanna a parte nello stesso recinto delle loro case, della qual cosa fui molto contento; poichè, da quanto potei vedere, fra quella gente non vi doveva essere gran moralità. Mota era una città ragguardevole, contava parecchie migliaja di abitanti, e vi si trovavano in grande numero preti e monaci, essendo essa una delle cinque grandi chiese del Goggiàm, la cui servizio erano impiegati circa trecento persone. Era inoltre frequentata da mercanti e forestieri, che facevano il commerciò tra Baso ed Ifagh; e quindi, come suole accadere in questi luoghi di traffico e di passaggio, si trovava gente di ogni sorta, mussulmani, schiavi, vagabondi, donnacce, tutta gente corrotta e pericolosa. Da parte mia avrei voluto partir subito, ma bisognava fermarmi qualche giorno, sia per prendere le opportune informazioni rispetto al viaggio che doveva proseguire, sia per fare le necessarie provviste. Maquonèn intanto presentatosi ai doganieri, mostrò la lettera che lo destinava porta parola del Nagadarâs; onde dopo mille complimenti, offrirono ad esso ed a noi tutti l’ospitalità, che non accettammo.

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25. Verso sera ritornato a casa dal mercato il padrone col resto della famiglia, fecero tutti affettuose carezze ai due nipoti di Abba Desta, di cui erano amici da molto tempo, e cominciarono ad apparecchiare la cena. Bisogna confessare che l’ospitalità in Abissinia, anche con persone che non si conoscano, è osservata scrupolosamente, ricevendo e trattando tutti con generosità e con veri sentimenti di affetto; e l’Europa avrebbe molto da imparare sotto questo rispetto. Quella gente, che noi chiamiamo barbara ed incivile, apre il suo cuore al forestiero, e non sa che cosa fare per mostrargli il piacere, che prova nel riceverlo a casa sua. La cena pertanto fu abbondante e variata, ma io non mangiai che pane e latte ed un pezzetto di carne arrostita; gli altri cibi, essendo là conditi con una grande quantità di peperoni rossi, assai forti e piccanti, nè allora, nè poi potei giammai adattarmi a mangiarne. Indi cenarono i miei giovani ed i servi; si bevette della birra, e si lasciò il posto alla famiglia, composta /169/ di altre quindici persone. Dopo la cena s’incominciò la conversazione; i giovani s’intrattenevano con i giovani, ma sempre sotto i miei occhi, ed i grandi con me e con i servi. Mossi al padrone il discorso sul viaggio che dovevamo proseguire pel Goggiàm, e lo interrogai se credesse meglio, per giungere a Baso, attraversare la montagna Ciokkè per la via di Nazaret, o pure tenerci più all’Est, seguendo la via di Cranio. Mi rispose che la prima era pericolosa, perchè infestata e battuta da ribelli e soldati: — Necessariamente adunque, soggiunse, conviene prendere quella di Cranio. Io le darò una guida, e così con poche provviste (perchè lungo la strada se ne trovano a comprare) ella giungerà felicemente a Baso. —

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26. I due giovani, che ci avevano ultimamente seguito, e ch’erano appunto quelli che nell’ultima notte passata al villaggio avevano ricevuto schiaffi e tiratine di orecchi, da Mota dovevano ritornare indietro; poichè così eravamo rimasti partendo. Intanto, vedendo io le loro buone disposizioni, volentieri li avrei trattenuti meco insieme con Maquonèn e con i due nipoti di Abba Desta; poichè da questi giovani, educati ed istruiti da me, sperava un grande ajuto nell’esercizio del mio ministero fra i Galla. Perciò dissi loro che, dovendo noi continuare il viaggio per Baso, essi restavano liberi di ritornare presso i loro genitori, dai quali non avevano ricevuto il permesso di seguirmi che sino a Mota. Esternai loro il piacere che avrei avuto di tenerli con me, e condurli con gli altri al luogo di mia residenza, se non vi fosse stato il divieto dei loro parenti: ma, non essendo liberi, conveniva separarci. — Noi siamo liberi, risposero allora, ed il nostro desiderio è quello di seguir lei, come fosse nostro padre, per istruirci e salvarci. Siamo liberi, perchè i nostri genitori, avendo fatto divorzio, non si son più curati di noi; anzi nostro padre ha preso un’altra moglie, come similmente nostra madre si è sposata ad un altro marito: quindi non siamo soggetti a nessuno, e vogliamo restare con lei. —

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27. In Abissinia quando i genitori fanno divorzio, i figli son liberi di restare col padre o con la madre: ma quando l’uno e l’altra passano a seconde nozze (il che accade sempre), ed i figli possano da loro stessi procacciarsi il pane, allora rimangono totalmente emancipati. Ed è questa una delle piaghe della povera Abissinia. Poiché i figli nel primo caso, sia che vadano con la madre, sia che seguano il padre, è difficile che trovino nei nuovi parenti quell’amore e quella cura, che proviene dal sangue; e lo stare in compagnia di altri figli è sempre un motivo di litigi e di dispiaceri. Giunti poi ad una certa età, abbandonano la casa e vanno a cercar fortuna; sicchè può dirsi che là non vi sia famiglia, ed è questa /170/ anche la causa, onde i due terzi dei giovani vivono girovaghi ed oziosi. Spento inoltre l’amor di famiglia, non vi può essere amore alla proprietà ereditaria: poichè, non dovendo provvedere all’avvenire dei figli, chi possiede qualche cosa, pensa a mangiarvi sopra, niente curandosi di migliorare ed accrescere. L’immoralità poi, di cui il divorzio è causa, non occorre dimostrare: ho conosciuto persone che avevano prese cinque o sei mogli, ripudiandole tutte!

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28. Stabilito pertanto che tutti e cinque i giovani mi avrebbero seguito, scrissi una lettera al P. Cesare da Castelfranco, per annunziargli il mio prossimo arrivo nella provincia di Baso. L’avvertii che io viaggiava sconosciuto col finto nome di Giorgio Bartorelli, e che intendeva recarmi in Gudrù: quindi pensasse a cercarmi una casa vicino all’Abbài, per fermarmivi sino a tanto che non si fossero abbassate le acque. Consegnai la lettera a Giuseppe, e dandogli alcune particolari istruzioni per mantenere il segreto, partì. Il P. Cesare in Goggiàm, avendo stretto amicizia con Râs Aly, se la passava bene, ed era da tutti rispettato, anche perchè si credeva che fosse il confessore del Râs. Ricevuta pertanto la mia lettera, si portò a Zemiè, capoluogo di una piccola provincia di quei paesi bassi, e posta sulle rive dell’Abbài dirimpetto al Gudrù, dove si teneva mercato e vi si portavano in grande numero i commercianti del Gudrù, quando le acque del fiume erano facili a guadarsi. Ivi governava Fitoràri Workie-Iasu, tributario di Râs Aly, ma indipendente nella successione per dritto ereditario: il P. Cesare adunque gli annunciò che un suo amico connazionale, chiamato Bartorelli, sarebbe presto arrivato in Zemiè, per portarsi poscia in Gudrù, dove era diretto per affari di commercio. E poichè fra loro due passava buona amicizia, Workie-Iasu accolse con piacere una tal notizia, e rispose che la sua casa era aperta a riceverlo.

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29. Erano scorsi sei giorni che ci trovavamo in Mota, e già le visite di quei Defteri, preti, e monaci si moltiplicavano, non ostante che io avessi cercato di sfuggire qualunque comunicazione con essi; per timore di essere scoperto, e quindi annunziato a Râs Aly, che dimorava non molto lungi da Mota. Questa città era riputata come una specie di Università, perché in essa non solo si aveva maggior conoscenza delle dottrine religiose, ma se ne dava a chiunque vi si recasse l’insegnamento; onde quei Defteri dogmatizzavano a dritto ed a rovescio, che era un piacere a sentirli. Io, per ischivare questioni, mi astenni pure dal visitare le loro chiese, e pochissime volte uscii a passeggio. Finalmente fatte le mie provviste, la mattina del settimo giorno partii, prendendo la via di Cranio. Per giungere /171/ più presto a Baso, si avrebbe dovuto camminare in linea retta verso il Sud, attraversando il Ciokkè: ma fummo costretti volgere all’Est, e fare come un semicircolo attorno alla.montagna. Dopo quattro ore di cammino giungemmo a Cranio, situato su di una collina, e ci dirigemmo alla casa di un altro Deftera, cui eravamo stati raccomandati. Cranio, che vuol dire Calvario, è uno dei soliti santuarj abissini, quindi un luogo immune, abitato da molti preti e da altri addetti al servizio della chiesa. Il paese è piccolo, ma ameno e tranquillo, ed i miei giovani vi si fermarono volentieri, anche perchè in quella casa non vi era moltitudine di persone.

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30. Al mattino lasciammo Cranio, e tenendo sempre la direzione Sud-Est, Ill. Una bella cascata d’acqua. || con a dritta la montagna, si continuò a camminare per un piano leggermente ondulato e chiuso da colline, abitato da contadini e pastori. Si viaggiò tre giorni, fermandoci la sera in alcuni villaggi, di cui non ricordo più i nomi. Il terzo giorno volgemmo direttamente al Sud, e verso sera al Sud-Ovest; e trovato un altro villaggio, ci fermammo per passarvi la notte. Esso era distante una piccola giornata da Devra-Work, ed un’altra piccola giornata a dritta da Nazaret, santuarj, di cui parlai nel primo volume, quando fui scortato per presentarmi a Râs Aly. Essendo questi accampato li vicino a sinistra, ad un giorno circa di distanza, conveniva evitare qualunque incontro, sia di soldati, sia di altre persone, /172/ che avrebbero potuto riconoscermi, ed ecco il motivo per cui aveva tenuto quella strada.

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31. Appena arrivati al villaggio, mi si presentò un lebbroso; e come se ne avesse un qualche dritto, mi chiese con arroganza uno di quei cordoni, che i cristiani sogliono portare al collo, come ho detto, per loro distintivo; e soggiunse: — Se voi non me lo date, preparatevi sta notte a dormire con me. — Io già sapeva quanto questa razza fosse impertinente in Abissinia, e come, per una superstiziosa ed esagerata commiserazione, godesse tale immunità, che qualunque dispetto vi facessero, non potevate nè riprenderli, nè castigarli. Ordinai quindi al giovane che portava alcuni di quei cordoni, di contentarlo. Quando l’ebbe ricevuto, spinse più avanti le sue pretese, e con la stessa minaccia mi domandò un tallero. — Oh questo poi è troppo, dissi, vattene via, poichè qua non trovi gente che abbia paura delle tue minacce. — Allora con la medesima petulanza mi si avvicinò, cercando con quelle mani piagate e puzzolenti di farmi delle carezze. In quel momento, ricordandomi del mio santo Patriarca, che aveva abbracciato un lebbroso, mi balenò in mente il pensiero di farmi violenza e soffrirlo: ma poichè io era lontano le mille miglia dalle virtù del mio santo Padre, non bastandomi l’animo, lo respinsi. Esso intanto ritornava per fare lo stesso giuoco; allora si alzarono i miei compagni, e presero le mie difese: ma quel petulante non volendo smettere, fu necessario che s’interponessero alcuni paesani, ed a stento lo fecero contentare di un sale, equivalente ad un decimo di tallero.

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32. Tutta l’Abissinia è piena di questi sventurati, forse più che la Palestina ai tempi di Gesù Cristo. Due specie di lebbra principalmente affliggono quei paesi, l’elefantiasi, che attacca tutta la pelle, ma è meno frequente; e l’altra che s’impadronisce dell’estremità delle mani e dei piedi, e talmente le va corrodendo, che, dopo uno spazio più o meno lungo di tempo, priva i poveri lebbrosi delle dita, ed anche di tutte le mani e dei piedi. Il Goggiàm può dirsi che sia principalmente la sede di questa schifosa malattia. Parlerò appresso più a lungo di essa, quando narrerò i tentativi da me fatti per curarla: ora non voglio tralasciare di dire che questi poveri disgraziati, meritevoli in verità di compassione, in Abissinia non solo sono onorati e rispettati, ma si dà loro piena libertà di fare ciò che vogliano, senza che alcuno possa risentirsene ed impedirli. Perciò entrano in qualunque casa, domandano ciò che loro aggrada, ingiuriano ed offendono chiunque non secondi i loro capricci, e commettono tanti altri atti di violenza contro le persone e le proprietà, senza che neppure le Autorità /173/ ardiscano ammonirli e castigarli. E questa illimitata e comoda libertà è giunta a tal punto, che molti, anche non affetti realmente di questa malattia, si annoverano fra la classe dei lebbrosi, per goderne i vantaggi, e vivere a loro piacere e capriccio.

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33. In quel villaggio mi trovai presente casualmente ad un taskar (1), cui erano state invitate oltre duecento persone. Questi pranzi si danno più o meno sontuosi, secondo la condizione e la ricchezza delle famiglie, a cui il defunto appartiene. In quello che io vidi, vi era carne, pane, birra, ed altre pietanze proprie dell’Abissinia abbondantemente; poichè l’estinto non doveva essere di povera famiglia. I lebbrosi hanno il dritto d’intervenirvi, anche senz’essere invitati, e molti ve n’erano in quella occasione. Ora avvenne che, non essendo rimasti contenti della ripartizione, e di quello che loro era stato assegnato, si diedero a toccare con le loro immonde e purulente mani la maggior parte delle vivande; cosicchè nessuno degli invitati volendo accostarsele alla bocca, restarono padroni di tutto quel cibo. Un fatto simile vidi poscia al mercato di Egibiè, dove presentatisi alcuni lebbrosi ai venditori di miele e di butirro per la solita questua, e non essendo stato loro concesso quanto domandavano, misero le mani in molti di quei vasi; e così resero invendibile, almeno in quel mercato, tutta quella roba con grave danno dei poveri venditori.

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34. La stessa sera del nostro arrivo a quel villaggio giunsero due giovani mandati dal P. Cesare, per prendermi e condurmi da lui. Essi erano i due cari Berrù e Morka, che avevamo battezzati a Guradìt, ritornando io dal tentato viaggio allo Scioa, come ho narrato nel primo volume. Avendo inteso che io era giunto a Mota, quei due allievi non si tennero più, e corsero ad incontrarmi; ma non avendomi trovato là, ritornarono sui nostri passi, e ci raggiunsero. Se fossi contento di rivederli, e di averli meco nel viaggio non occorre dire; poichè oltre ad avere vicini a me due persone confidenti, ad essi, già istruiti ed educati nella Missione, avrei potuto finalmente affidare i cinque giovani che conduceva, e la cui cura e vigilanza mi dava non poco fastidio. Come ho detto, io sperava molto nella riuscita di questi giovani neofiti pel mio futuro apostolato fra i Galla; e le loro buone disposizioni me ne davano una sicura caparra; poichè se in pochi giorni, con principi e ragioni prese principalmente dalla legge naturale, li aveva indotti ad astenersi da certi loro cattivi usi, e ad avere un aborrimento di quegli atti, ch’essi commettevano con indifferenza e forse senza malizia; mi prometteva con sicurezza un /174/ totale cambiamento dei loro cuori e dei loro costumi, quando sarei stato libero di ammetterli alla partecipazione dei Sacramenti, e d’illuminare le loro menti con le verità santissime del Vangelo e con gl’insegnamenti della Chiesa. Intanto bisognava continuare la loro educazione ancora per altro tempo con principj naturali, e Morka e Berrù, che già conoscevano le loro debolezze ed il nostro metodo di apostolato, erano più che adatti all’uopo. Li consegnai pertanto a loro, e disposi ogni cosa per la partenza.

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35. Riposatici un giorno, ci mettemmo in cammino, restandoci altri tre giorni di strada per giungere a Egibiè gran mercato della provincia di Baso. Si avrebbe potuto fare questo viaggio in minor tempo: ma l’incontro di soldati, che battevano quella via, ci costringeva lasciare la strada a sinistra, detta di Liban, ch’era più diretta e più asciutta, e tenerci più al centro del Goggiàm, camminando per piani quasi tutti deserti e paludosi, in cui l’acqua talvolta ci arrivava a ginocchio. La sera del secondo giorno si giunse a Lieùs, uno dei cinque gran santuarj del Goggiàm, dedicato a S. Michele e lontano un giorno da Baso-Jebunna, dove aveva residenza il P. Cesare. Berrù con una mia lettera partì la stessa sera per avvertire il detto Padre che noi già saremmo arrivati il giorno seguente, e che io mi sarei fermato a Naura per abboccarmi prima con lui, e sapere il luogo dove avrei dovuto recarmi.

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36. Partiti da Lieùs, verso le dieci antimeridiane giungemmo ad un grosso torrente, il quale, lasciato il piano, precipitavasi da un’altezza di circa quaranta metri, formando una meravigliosa cascata. Per attraversarlo, bisognava scendere per una viottola serpeggiante in quel precipizio, ed entrare poscia in una galleria incavata, quasi a metà della cascata, dall’acqua stessa nella grossezza della roccia; cosicchè l’acqua vi formava come una cortina, lasciando libero il passo fra essa e la roccia. Veramente là dentro si camminava all’asciutto, ma in mezzo però ad una nebbia di vapori, prodotti dalla violenza della caduta di quella gran massa d’acqua. In Europa, tanto la cascata quanto la galleria, sarebbero rarità degne di visitarsi, principalmente da Luglio ad Ottobre, mesi delle grandi piogge; ma in quei paesi chi è che si muova per andarle a vedere? e vedendole, nessuno ne apprezza e ne gusta il bello. Verso sera si giunse a Naura, paese nativo di Workie-Iasu, e poco dopo arrivò il P. Cesare con provviste da mangiare, di cui si aveva tanto bisogno; poichè, dopo tanti giorni di viaggio, fatto sempre a piedi nudi, e con viatico da poveri, eravamo veramente affamati.

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37. Si passò insieme la notte, e la mattina seguente scendemmo a /175/ Zemiè, e ci dirigemmo alla casa di Workie-Iasu. Egli ricevette prima il P. Cesare con tutti i segni di onore, e poscia fui introdotto io, come un semplice forestiere. Mi accolse assai gentilmente, e dopo avere scambiato qualche parola, prese a trattar meco con tal confidenza, come se fossimo stati amici da lungo tempo. Mi domandò donde venissi, quali strade avessi tenute, e cento altre cose, a me punto gradevoli; poichè quella strada io l’aveva corsa più come fuggiasco o contrabbandiere, che come viaggiatore ed esploratore. Finalmente, dopo avermi fatte tante generose offerte, ci fe’ condurre alla casa assegnataci, che trovai sufficientemente comoda per tutta la mia famiglia, ed anche con una piccola capanna separata, adattatissima per alzare un altare, e dirvi Messa. Intanto, volendo io rimanere sempre sconosciuto, il P. Cesare, per non isvegliare sospetti, ripartì subito, e condusse seco Berrò e Morka, per mandarmi presto alcuni attrezzi di casa; poichè, dovendo fermarci a Zemiè, almeno sino alla metà di Novembre, in cui le carovane, abbassandosi le acque, cominciavano a passare il fiume, si aveva bisogno di molte cose per quella non piccola famiglia. Il buon Workie sin dal primo giorno ci provvide di ciò che poteva esserci più strettamente necessario, mandandoci anche un bue, alcune pecore, latte, butirro e legumi, insomma i commestibili del paese, che soglionsi dare a forestieri di passaggio. E poscia per tutto il tempo che colà mi fermai, quasi ogni giorno mandò sempre qualche cosa: sicchè posso dire di essere stato mantenuto con tutta la famiglia dalla sua generosa liberalità.

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[Nota a pag. 156]

(1) Tanto la legge ecclesiastica quanto la civile non ammettono e non insegnano in Abissinia la circoncisione: ma la vicinanza, e le continue comunicazioni di quei popoli con gli Orientali, fecero, si che si mantenessero sempre in quelle parti alcuni atti mosaici; tra’cui questo della circoncisione, che il popolo non solo continua a praticare, ma n’è tenacemente osservante. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 159]

(1) Letto. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 166]

(1) L’Abbài è lo stesso Nilo, che in Abissinia e fra i Galla vien chiamato così: e questo nome ha il suo significato; poichè Abba vuol dire padre ed ie, mio, quindi padre mio. E ciò è venuto dagli antichi pagani, i quali prestando un culto a questo fiume, lo chiamavano con tal nome di ossequio e di rispetto. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 167]

(1) E una pietanza fatta con farina di fave o di altri legumi, condita con molto peperone rosso. [Torna al testo ]

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[Nota a pag. 173]

(1) Pranzo mortuario. [Torna al testo ]