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Capo XIV.
Il medico Bartorelli a Zemiè.

1. I miei giovani proseliti. — 2. La festa del Maskàl. — 3. I fuochi del Maskàl. — 4. La cena del Maskàl. — 5. Posizione e popolazione di Zemiè. — 6. Politica e religione di Workie-Iasu. — 7. Medici e medicine fra i Galla. — 8. Un Galla pieno di rospi. — 9. Emetico a riprese e guarigione. — 10. Offerte di Workie-Iasu. — 11. Due schiave galla. — 12. Nostra conversazione. — 13. Assistenza alla funzione del Battesimo. — 14. Il servo Giuseppe a Kartùm; suo tradimento. — 15. Immoralità e vendette. — 16. Nuove immoralità e nuove vendette. — 17. Cura di una donna ammaliata dal budda. — 18. Un Ordinando mandato dal Biancheri. — 19. Arrivo del signor Bell.

Zemiè era per me come la sospirata meta di circa sei anni di peregrinazione; poichè per giungere da quel paese ai Galla non mi restava che a dare un passo. E finalmente vi arrivai il 23 Settembre del 1852, due giorni prima del Maskàl abissino, ossia della festa dell’Esaltazione della Croce, che, come i lettori ricorderanno, gli Abissini celebrano con gran solennità, più civile che religiosa, perchè con essa s’intende festeggiare la chiusura dell’inverno e l’apertura dell’estate.

Ai cinque giovani che mi seguivano io aveva sempre detto che mi sarei fermato a Baso; onde, vedendomi inoltrare più al Sud, e poscia sentendo che fosse mia intenzione passare in Gudrù, temeva che, non sentendosi di lasciare l’Abissinia, mi avrebbero chiesto di ritornare ai loro paesi: invece li trovai non solo disposti a restare con me, ma risoluti di seguirmi fra i Galla, e dovunque avessi voluto andare. A ciò /177/ aveva contribuito anche il mio Morka, il quale in quei tre giorni, ch’erano stati insieme, li aveva con la sua ingenua ed efficace eloquenza sì grandemente invaghiti della nostra vita, e delle dolcezze che Gesù Cristo e la cattolica religione apportano alle anime, che non sospiravano altro se non di essere maggiormente istruiti, ed ammessi alla partecipazione dei santi Sacramenti.

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2. L’Esaltazione della Croce è la più gran solennità dell’Abissinia eretica. In essa il popolo è tutto in movimento; inviti, pranzi, fuochi, canti, ogni sorta insomma di allegria allieta il grande ed il piccolo, la casa del povero e quella del ricco. In quei giorni il Re siede a sontuosa mensa con i Grandi della Corte e con gli altri ufficiali superiori; i capi d’esercito distribuiscono ai soldati carne, pane e birra abbondantemente; le Autorità delle provincie e dei paesi invitano a pranzo i loro subalterni e le persone ragguardevoli dei luoghi; in una parola feste e baldoria per tutti. Grandi fuochi inoltre si sogliono accendere da per tutto, dove la sera che precede la festa, e dove allo spuntar del giorno. In molti paesi cristiani poi questi fuochi si fanno dinanzi le chiese, ma in altri per le vie e presso le case di ciascuna famiglia; il quale uso venne poi anche imitato da alcuni popoli galla. Ai fuochi finalmente si aggiungono canti in lingua sacra e nei particolari dialetti delle diverse popolazioni, ed altri segni di allegria. Questa festa inoltre ha una particolare importanza presso quei popoli, primo perchè dopo di essa è solito che incomincino i movimenti dei soldati, quando quelle tribù si trovano fra di loro in guerra; ed io per questo motivo aveva anticipato la partenza da Ifagh: secondo perchè l’anno abissino cominciandosi a contare dal mese di Settembre, è dopo questa festa che là corre a tutti l’obbligo di pagare i tributi, dovuti al Re ed alle altre Autorità.

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3. La sera del 24 Settembre adunque fui invitato da Workie-Iasu per assistere con lui all’accensione dei fuochi; e giunti dirimpetto alla chiesa, trovammo i tappeti stesi per terra, e sedemmo, Workie-Iasu in mezzo, io ed i suoi ufficiali attorno. Pochi metri lungi da noi stava piantata una lunga pertica con un gran mazzo di fiori in cima, ed alla quale se ne venivano continuamente aggiungendo altre, ugualmente ornate di fiori, che i contadini portavano da varie parti. Avendone radunate un mucchio di oltre un centinajo, uscirono di chiesa i preti ed i diaconi vestiti in sacro con croce, libro e turibolo, e cominciarono alcune letture in lingua gheez, che a me sembrarono tratti di storia di S. Elena, di Costantino e di Eraclio. Avendo chiesto che cosa dicessero, nessuno seppe darmi /178/ risposta; poichè nessuno comprendeva quella lingua. Dopo queste nojose letture, che durarono circa un’ora, un prete fece tre giri attorno a quel mucchio di pertiche, incensandole replicatamente: poi, cominciando dai Grandi, fecero tutti i loro tre giri cantando certe strofe in lingua volgare, e poscia vi appiccarono fuoco. Intanto sino a tarda ora seguitava a venire gente dalle borgate vicine, cantando canzoni popolari, e portando in mano grandi fiaccole, che gettavano nel falò benedetto. Quando poi fu tutto consumato, il popolo si ritirò alle proprie case.

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4. Ed anche noi ci ritirammo in casa di Workie-Iasu, dove si trovò apparecchiata la gran cena del Maskàl. Alla prima tavola sedemmo io, Workie-Iasu, un suo fratello ed un suo cugino, ed alle altre i Grandi della Corte e gli ufficiali superiori: poscia cenarono i soldati particolari del Fitoràri, indi i servi, e finalmente gli schiavi e la gente di casa. A noi per bere fu portato idromele, agli altri birra: tutto però era abbondante, principalmente la carne, apprestata cotta e cruda, e condita con gl’inevitabili peperoni rossi. Si faceva un baccano indescrivibile, si stracciava carne, principalmente cruda, come tanti lupi affamati, ed i corni di birra si succedevano l’uno all’altro senza interruzione: sicchè appena a mezzanotte potei liberarmi da quella baldoria, e ritornare alla mia capanna. Nel giorno del Maskàl non vi sono inviti, perchè ciascuno solennizza la festa con la propria famiglia; gl’inviti poi si fanno nei giorni seguenti.

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5. Zemiè essendo posto all’estremità Sud dell’Abissinia, forma la frontiera meridionale del Goggiàm, bagnata e difesa dall’Abbài, ed è l’ultimo paese cristiano di quella vasta regione. Di là del fiume, in faccia a Zemiè si stendono tutti i paesi galla; all’Est lo Scioa, al Sud-Est il Liban-Kuttài e al Sud il Gudrù, che può chiamarsi la porta di tutti i paesi galla del Sud e del Sud-Ovest. Fra questi regni scorrono il Gemma, il Mughèr, ed il Gudèr, i quali vanno a scaricarsi nell’Abbài.

Zemiè quindi, essendo paese di frontiera, aveva una popolazione mista di cristiani, di mussulmani e di galla, i quali ultimi vi si erano stabiliti per causa del commercio che facevano con lo stesso Zemiè ed anche con Baso. La famiglia di Workie-Iasu pertanto era composta di cristiani e di galla: il che in verità mi era di gran giovamento pel nuovo apostolato che stava per imprendere; poichè parlandosi in quella casa le due lingue, etiopica e galla, potevamo io ed i miei giovani impararle comodamente, e nel tempo stesso conoscere e giudicare gli usi e costumi di quei popoli, che il Signore ci mandava ad evangelizzare.

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6. Questo principe era di stirpe abissina per linea maschile, ma galla /179/ per parte di madre; poichè la sua famiglia usava imparentarsi con donne galla. Un tal connubio, antico nella sua casa, faceva si ch’egli vantasse dritti tanto dall’una quanto dall’altra parte del fiume, avendo in ambedue eredità, donazioni e possedimenti. Il che inoltre gli giovava molto nelle sollevazioni e guerre, che spesso disturbavano quelle provincie; poichè, minacciato o assalito dal Governo del Goggiàm, passava fra i Galla; dove raccolti uomini ed armi, dava con essi tanti fastidj ai suoi nemici ed alle stesse popolazioni del Zemiè, ch’erano costrette richiamarlo e far la pace. Quanto a religione mostravasi talora cristiano e talora pagano, secondo il bisogno. Con gli Abissini esternamente era un perfetto cristiano; e Ill. La festa del Maskàl. || dico esternamente, perchè la vera virtù, la virtù che adorna e santifica il cuore e le nostre facoltà ed azioni, non si conosce nell’Abissinia eretica. Con i Galla poi era un perfetto pagano, con tutti i pregiudizj e le superstizioni di quei popoli, e senza possedere quelle buone qualità, che pure si trovano fra di essi, avendolo l’eresia interamente viziato. Grossolano e lurido nel parlare, la sua conversazione faceva schifo a qualunque persona anche poco educata. Non aveva vera moglie al mio arrivo, e mi ci volle del buono per persuaderlo a sposarsi cristianamente; il che poi fece dopo alquanto tempo. In questa casa adunque era costretto fermarmi e passare circa due mesi, con quanta pena dell’animo mio il lascio considerare; e /180/ non solo per me, ma più per i miei giovani, i quali, quantunque avvezzi a vedere e sentire simili miserie, tuttavia quegli esempj non potevano non nuocere alla loro incominciata educazione e conversione. Vi era però Morka che vigilava su di loro, e ne coltivava e rinfrancava i cuori, e per questo il mio timore veniva acquetato alquanto. D’altro lato, rimanendo in quella casa, io sperava trarne molti vantaggi; oltre alla comodità di apprendere la lingua galla, e conoscere da vicino gli usi e costumi di quei popoli, aveva agio di contrarre amicizie con persone galla ragguardevoli, che venivano a trovare Workie-Iasu, e la cui protezione mi avrebbe non poco giovato nella mia nuova Missione: sperava inoltre che lo stesso Workie si sarebbe indotto a darci una delle sue case, che teneva di là del fiume, per impiantarvi, almeno provvisoriamente, la Missione. Insomma quella dimora aveva il pro ed il contro per noi; ed in fin dei conti o per amore o per forza faceva d’uopo restarvi; poichè per partire alla volta del Gudrù bisognava aspettare l’abbassamento delle acque.

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7. Come mi sembra di aver detto altrove, in quei paesi non si hanno cattedre di medicina, e neppure si prende laura di dottore; tuttavia non mancano nè medici nè medicine per curare gli ammalati; il difficile poi è che curino bene, e che gli ammalati guariscano. Presso i Galla per medico s’intende sempre un mago, e questo per lo più suol essere un Deftera, che sa leggicchiare qualche libro, e niente importa poi che non ne capisca un’acca. Ciò avviene perchè i Galla, non sapendo leggere, son persuasi che nei libri si trovi tutto, si veda tutto, e si conosca tutto; ed ecco il motivo per cui hanno in grande stima i maghi abissini. Questi poi, ignoranti più di coloro, che in essi ripongono tanta fiducia, attribuiscono sempre le malattie a cause superstiziose, e perciò a mezzi superstiziosi ricorrono per curarle; ed anche usando qualche rimedio empirico, già sperimentato e riconosciuto efficace, lo applicano sempre con segni e modi sì stravaganti e ridicoli, che muovono più a sdegno che a compassione. Ed in ciò non vi è solamente ignoranza, ma malizia e furberia; perchè così facendo, credono di dare maggiore importanza all’opera loro, cattivarsi maggiore rispetto e trarne non minore lucro.

Quelle popolazioni poi nel vedere un Europeo, credono ch’egli sia un mago onnipotente, e che abbia il potere di curare e guarire qualunque malattia. Questa persuasione, che in genere hanno per qualunque forestiere, si accresce maggiormente in loro quando il veggono leggere e scrivere, e cavar fuori dal suo bagaglio attrezzi, gingilli e strumenti da loro non mai visti: per essi queste cose sono tanti talismani prodigiosissimi, con /181/ cui possa egli guarire ed anche richiamare la gente da morte a vita. Io adunque a Zemiè era tenuto in questo concetto, non solo dalla massa del popolo, ma dallo stesso Workie-Iasu e dagli ufficiali di sua casa. Il signor Bartorelli insomma era un gran medico, o meglio un gran mago.

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8. Un giorno Workie-Iasu mi presentò un ricco Galla del Gudrù, chiamato Abba Saha (padre delle vacche), il quale credendosi ammalato, era venuto a passare la stagione delle piogge a Zemiè, con la speranza di trovare un medico valente, e qualche rimedio per la sua infermità. Workie, dopo avermi esposto il bisogno di quel povero ammalato, mi raccomandò di occuparmene con premura ed affetto, non solamente perchè suo amico, ma anche per la speranza che, essendo assai ricco e molto potente in paese, avrebbe potuto essermi utile quando fossi passato in Gudrù. Non potendo negarmi, accettai quel nuovo cliente, e condottolo alla mia capanna, lo consegnai a Morka, affinchè lo esaminasse, e sapesse dirmi che malattia e quali bisogni avesse. Morka, essendo Galla, conosceva bene tutti i pregiudizj di quei popoli, e perciò gli era più facile fare una diagnosi perfetta di quella malattia! E vi riuscì a meraviglia: poichè, venuto da me, mi raccontò come Abba Saha si fosse messo in testa che una delle sue mogli, per gelosia, lo avesse avvelenato, dandogli a mangiare ovi di rospi; dai quali poi essendo nati dentro il ventre una grande quantità di quegli animali, se ne erano resi padroni, e lo minacciavano di morte. Egli diceva inoltre di sentirli muovere, camminare e gracidare; e quando gli veniva di ruttare o fare qualche altro bisogno naturale: — Eccoli, gridava, ecco le voci che mandano! — Morka mi consigliò di non contraddirlo, ma piuttosto, secondando questa sua sciocca persuasione, dargli una qualche medicina innocua, ma che valesse nel tempo stesso a produrre un forte effetto sensibile, per farlo ricredere di quel pregiudizio.

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9. Per ottenere lo scopo non ci era meglio che ricorrere all’emetico; e datogliene una forte dose, lo avvertii che una tal medicina per guarirlo lo avrebbe tormentato circa un’ora; poichè dovendo prima uccidere tutti i rospi, di cui era pieno il suo ventre: e poi cacciarli fuori dai loro nascondigli, faceva d’uopo ch’egli soffrisse tutti gli sforzi di questa interna e salutare lotta: ma stesse pur tranquillo che tutti quegli animalacci sarebbero stati costretti di uscire a pezzi informi, parte dalla bocca, e parte per secesso. Il farmaco di fatto fece mirabilia; ed il povero uomo mentre lo sentiva operare dentro le viscere: — Già mi accorgo, diceva, che i brutti animali vanno combattendo con la morte: ma se qualcheduno ne /182/ uscirà fuori vivo, lo concerò io! — Ed era curioso il vederlo nei momenti dell’evacuazione con un coltellaccio in mano, pronto ad avventarsi contro quei supposti rospi, se per caso fossero usciti vivi dal suo interno. Riuscita bene, e con sua grande soddisfazione la prima prova, dopo due giorni di riposo, replicai una seconda dose, e fece lo stesso effetto. Finalmente dopo altri tre giorni gliene diedi una terza, e sentendosi già lo stomaco vuoto come una lanterna: — Son guarito, mi disse, non fa più bisogno d’altro, i brutti animalacci sono usciti tutti fuori: ma se quella budda di mia moglie ci proverà un’altra volta a farmi simili carezze, saprò io come trattarla! —

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10. Un giorno Workie uscendo a passeggio con tutto il suo seguito, volle che lo accompagnassi, e si andò per la strada, che portava all’Abbài. Salito un piccolo colle, ci fermammo sull’orlo di un precipizio, da cui si vedeva un lungo tratto del fiume, ed alla riva opposta una grande estensione del Gudrù. Parlando del luogo che mi sarebbe stato più conveniente di scegliere in quel paese, Workie, additandomi un punto dei paesi bassi, chiamati in lingua abissina Kuolla, mi disse: — Io laggiù tengo una casa, e volentieri ve l’offro: ma essendo voi mercante, certamente desiderate di stabilirvi in un punto, dove possiate esercitare più comodamente il vostro commercio. Ebbene, faremo di tutto presso Abba Saha di agevolarvi con la sua autorità, e principalmente d’indurre suo nipote Gama-Moràs a cedervi una sua casa; poichè essendo essa vicina al mercato, è il luogo di convegno di tutti i commercianti, che frequentano le nostre contrade. —

— Questo partito sarebbe migliore, risposi io, non volendo dare a conoscere i miei disegni; intanto avremo tempo a rifletterci, e nel caso, profitterò delle vostre generose offerte. —

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11. Mentre si stava discorrendo, vedemmo venire verso di noi alcuni soldati di Workie, i quali ritornavano dal mercato, e conducevano due giovanette galle, ricevute in tributo da alcuni mercanti di schiavi. Giunti alla presenza di Workie, gliele presentarono; e vidi che la sua fisionomia prese un’aria di allegrezza, come di chi riceva un gradito regalo. Tutto contento, se le fece venire vicine, e senz’ombra di rossore e di riguardo prese ad osservarle minutamente dalla testa ai piedi. Poscia dato un bacio alla più grandetta, e mandata via l’altra, ordinò di chiamar il Kiès, ossia quel prete eretico, che colà faceva da Parroco; il quale dopo alquanto tempo giunto alla sua presenza, il nostro Workie con voce sommessa e con affettata pietà: — Tu sai, gli disse, che io son cristiano, e che mai ho ammesse in casa mia donne galla senza prima averle fatte /183/ battezzare; diman mattina adunque si dia il Battesimo a questa e si renda cristiana. —

— Son pronto ai suoi voleri, rispose il Kiès, ma ella sa che il Battesimo si amministra nella Messa, e che bisogna dare la Comunione alla battezzata e la distribuzione a coloro che assistono: or come potrò in sì breve tempo apprestare le ostie per tutti? Io lodo il suo zelo, e comprendo i suoi scrupoli; ma mi dia almeno un giorno di tempo per apparecchiare ogni cosa, e diman l’altro sarà contentato (1). — Workie sentendo queste osservazioni, che punto non si aspettava, smesso l’atteggiamento di pietà, si alzò adirato, e col bastone che teneva in mano fe’ mostra di dare una buona lezione al Reverendo, che aveva osato fare opposizione ai voleri di sua altezza Fitoràri. Dimodoché il povero Kiès, vista la mala parata, abbassò gli occhi, e dicendo ihùn, ihùn, (sia, sia) se ne partì. Workie ordinò poscia ad un servo di consegnare la giovinetta alla vecchia custode delle sue donne, e mandò via i soldati.

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12. Indi rivolto a me: — Che ne dite, signor Bartorelli, di queste scene? —

— Caro mio Workie, risposi, stasera ho veduto cose non mai viste in vita mia. Lasciando da parte tutto ciò che avete detto e fatto, principalmente col Kiès (perchè io non uso criticare le Autorità di un paese); mi fa però meraviglia la facilità con cui voi eretici date il Battesimo, e rendete cristiani i pagani. In quanto al Kiès poi so dirvi, che se fosse stato nel mio paese, ed avesse opposta per unica difficoltà a battezzare quella giovinetta la mancanza delle ostie, i contadini stessi lo avrebbero preso a sassate. —

— Voi siete troppo severo, soggiunse Workie, ma fra noi si costuma così; intanto fa d’uopo sapere che questi Kiès fanno più conto delle ostie che del Battesimo: se colui, che avete sentito, voleva ritardare la funzione, il faceva per avere le ostie più buone, ed anche per carpire qualche altra mercede. Inoltre se io mi fo scrupolo di tenere una donna pagana, posso assicurarvi che il mio Kiès, quantunque ammogliato e con figli, di questi scrupoli non ne ha punto. Che male ci è poi a battezzarla? —

— Anzi, molto bene, risposi io, ma bisognerebbe ammetterla a questo /184/ Sacramento con le dovute condizioni, cioè, prima istruirla, illuminarla, renderla degna, e poi, assicurati ch’essa lo desideri, battezzarla e farla veramente cristiana. —

— Presso di noi non si ricerca tutto questo, concluse Workie, ed a me basta che sia battezzata ed unta. —

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13. Benché conoscessi le maniere ridicole con cui quei poveri eretici amministrino i Sacramenti, pure mi venne voglia di assistere a quella funzione, e molto più voleva vedere che cosa significasse quella parola unta, che Workie aveva aggiunto al nome battezzata. Dissi perciò a Morka di tenermi avvisato dell’ora, in cui si sarebbe dato questo Battesimo. Il mattino seguente di fatto il mio Morka, recitate le preghiere coi nostri giovani e familiari, mi condusse alla chiesa; io presi posto in luogo a parte, ed egli, comechè indigeno, si frammischiò con gli altri. Prima pertanto della Messa, il sacerdote, uscito dal Sancta Sanctorum col suo clero, si diresse verso la porta, ed ivi giunto, fece un segno di croce sull’acqua che stava preparata, dicendo le solite parole di benedizione, e poi ritornato all’altare, cominciò a leggere la liturgia del Battesimo. Finita, questa lettura, si avviò di nuovo alla porta della chiesa, dov’era la battezzanda accompagnata dalla custode. Allora gli assistenti la circondarono in modo che io non potessi vederla (del che non ne fui dolente, poichè mi accorsi che la spogliarono interamente), le fecero alcuni segni di croce con l’Olio Santo, che tenevano conservato in un piccolo corno di pecora, e dopo le versarono sopra un secchio di acqua dicendo al solito: Besma Ab, Ua Old, Ua Manfès Kedùs. Indi rasciugata dai diaconi, il Kiès mosse per ritornare al Sancta Sanctorum, quando la vecchia custode fermatolo, gli manifestò il desiderio di Workie che venisse unta una seconda volta in parti che non lice nominare. Ebbene quei pecoroni in veste sacra non ebbero il coraggio di contraddire agli stupidi capricci dello scrupoloso Fitoràri, e preso perciò un pezzetto di legno, le fecero la sconcia unzione. Morka, in veder ciò, non si tenne più, e pieno di sdegno gridò ad alta voce: Questa non è opera di Dio, ma del diavolo; e gettando su di loro uno sguardo di disprezzo, se ne partì. Essi intanto continuarono la funzione con la celebrazione della Messa, in fine della quale si fece la distribuzione. La scappata di Morka non tardò a giungere all’orecchio di Workie, il quale, andato in collera contro il buon giovane, quantunque prima gli volesse molto bene, ordinò che non si presentasse più alla sua presenza: e mi ci volle di tutto per rabbonirlo e fargli fare la pace.

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14. Erano passate circa tre settimane che mi trovava a Zemiè, e le /185/ strade cominciando ad asciugarsi, pensai di mandare il servo Giuseppe a Kartùm, per riprendere alcuni oggetti ed una somma di denaro, che ivi aveva lasciato come riserva, nel caso che mi fosse incorso un qualche disastro lungo il viaggio. Sperando inoltre assai nell’amicizia e protezione di Workie-Iasu, voleva fargli un regalo, e non possedendo una qualche cosa degna di lui, pensava farmi mandare dai Missionari di Kartùm due pistole, di cui egli più volte mi aveva esternato il desiderio, offrendosi anche di pagarne il prezzo. Fidandomi pertanto dell’affezione e bontà sino allora dimostratami dal servo, lo condussi prima di partire dinanzi Ill. Prete abissino ed arredi sacri. || a Workie, affinchè anche questi fosse a conoscenza di tutto, e mettesse in mezzo la sua autorità per riuscir bene ogni cosa. Workie, avendovi pure il suo interesse, gli fece tutte le raccomandazioni possibili, e per maggiormente incoraggiarlo, gli promise che al ritorno lo avrebbe ricompensato col dargli un impiego nel paese. Con grandi promesse di fedeltà e di prestezza se ne partì: ma il miserabile, dopo avere ricevuto dai Missionari oggetti e denaro, prese altra strada, e più non si vide. Seppi poi che regalò le due pistole a Degiace Kassà, il quale già si avanzava vittorioso nelle sue conquiste, ed a me più tardi non mandò che una piccola somma, appropriandosi circa 150 talleri.

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/186/ 15. Ho detto più volte che la poligamia ed il divorzio sono i due principali distruttori della famiglia in Abissinia, ed il seguente fatto accaduto in casa di Workie-Iasu n’è una prova. Workie aveva due figli, uno chiamato Sciararù di circa diciotto anni, e l’altro Zàllaca di anni quindici. Il primo era nato da una moglie galla, che dopo alcuni anni aveva abbandonato; ed il secondo da un’altra moglie appartenente ad una delle prime famiglie del Liban-Kuttài. Con questa seconda moglie Workie era vissuto in pace circa sette anni, segno che le portava un grande affetto, e veramente l’amava assai: ma un giorno, avendola trovata infedele, montò sulle furie, e la fece battere sì spietatamente, che, ammalatasi, ne morì. Per questa morte Workie si tirò addosso il dritto del sangue, che secondo la legge avrebbe dovuto appartenere al figlio dell’uccisa, cioè a Zàllaca: ma essendo questi anche figlio dell’uccisore, un tal dritto passò ai più prossimi parenti della sventurata moglie. Workie poi, ricordandosi sempre del grande amore che portava a quella donna, dopo lo sfogo dell’ira, si pentì della crudeltà usatale, e non potendovi più rimediare, concentrava tutti i suoi affetti sul figlio Zàllaca, il quale tanto nel volto quanto nel tratto aveva perfettamente le fattezze ed i modi della madre.

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16. Un giorno tutto all’improvviso sento chiamarmi. — Corra, signor Bartorelli, che Workie sta per ammazzare suo figlio Zàllaca. — In un attimo giungo alla stanza di Workie, e trovatolo che, come Saulle a Davidde, stava per tirare la lancia sul figlio, mi getto in mezzo e li divido. Acquetato un poco quel primo furore del padre, gliene domando il motivo, e sento che Zàllaca era stato scoperto di tenere illecita amicizia con una moglie di Workie. Compresi subito la gravità del fatto, e come il padre si avesse ragione di mostrare tanto sdegno contro il proprio figlio: quindi consigliai a questo di allontanarsi immediatamente, perché vi era tutto il pericolo che anche alla mia presenza sarebbe stato commesso un delitto. Il padre intanto ne restò talmente offeso, che non solamente non volle più vederlo, ma concepì tant’odio contro il figlio, che non valsero ragioni e preghiere per ottenergli perdono e farlo riammettere in casa. Onde io mosso a pietà del povero Zàllaca, e sperando di ridurlo alla fede, molto più che di quella mancanza si mostrava veramente pentito, lo ammisi nella mia famiglia, e poscia lo condussi meco in Gudrù. Un anno dopo mi riuscì di placare il padre e di ottenergli perdono: e Zàllaca già sei meritava, poichè non era più quello di prima. Divenuto vero figlio di Gesù Cristo, aveva pianto il suo peccato, ne aveva fatto penitenza, e la bontà di sua vita fu compensata con la pace paterna.

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/187/ 17. Una sera fui condotto a visitare un’ammalata, che si diceva prossima a morire, perché il budda l’aveva ammaliata, o come là si esprimono, mangiata. La trovai distesa per terra, immobile, senza parola, e come fosse asfissiata, ed il cui polso ora batteva con moto febbrile, ed ora debolissimamente. Già i miei lettori comprendono che il budda, questo genio malefico del Goggiàm, non ci entrasse per nulla, e che la sua malattia fosse piuttosto cosa tutta naturale. A me sembrò a prima vista che fosse agitata da violento e continuo assalto nervoso; ma la poveretta credendo invece di essere stata ammaliata dal budda, e l’immaginazione accrescendo il male e la paura, si teneva per morta. Lì per li ordinai alcuni bagnuoli di acqua fredda nelle parti più sensibili del corpo, e le diedi ad aspirare alcune goccie di etere, che trovai nella mia piccola farmacia. Sembrò riscuotersi un poco, ma tosto ricadde nello stesso letargo. Gl’indigeni mi dicevano che con una medicina da loro conosciuta ed usata, si riusciva a far subito parlare questi ammalati; ma che, per quante ricerche si fossero fatte, non era stato possibile trovarne. Di che medicina parlassero non so dire, certo avrà dovuto essere una qualche erba fortemente eccitante, di cui abbondano quei paesi caldi. Intanto non sapendo che mi fare (poichè la mia scienza medica era assai limitata), consigliai di spogliarla, e poi versarle addosso una grande quantità di acqua fredda. Ritornato la mattina seguente, la trovai in migliore stato, ed avendo riacquistato la parola, mi disse che il male lo avvertiva più allo stomaco, che a qualunque altra parte del corpo; onde fatto spremere un po’ di olio di ricino, il cui frutto là è abbondantissimo, e datogliene una buona dose, n’ebbe buon effetto, e mise fuori un qualche verme. Compresi allora la causa del male, e replicata per altri due giorni la medesima purga, rigettò una quantità si straordinaria di vermi, che tutti ne restarono meravigliati. Certamente se avesse ritenuto in corpo tutti quegli animali, ne sarebbe morta, e tutti avrebbero creduto che la poveretta fosse stata vittima del budda! Parlerò più a lungo di questa superstizione, quando descriverò la mia dimora in Ennèrea ed in Kaffa.

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18. Si avvicinava intanto la fine di Ottobre, e le acque dell’Abbài essendosi alquanto abbassate, cominciavano già a passarle non solo i corrieri nuotatori, ma anche i piccoli mercanti del paese. Workie-Iasu pensò di spedire a Gama-Moràs un corriere per annunziargli il mio prossimo arrivo in Gudrù, e per avvisarlo di apparecchiarmi l’alloggio ed il necessario. In quei giorni pertanto mentre mi disponeva alla partenza, giunse a Zemiè un giovane per nome Abba Fèssah, mandato dal signor Biancheri, Lazzarista ligure, ed allora semplice Missionario in Abissinia. Trovandosi /188/ questo Religioso in Goggiàm presso Râs Aly, ed avendo conosciuto segretamente dalla Missione di Gondar il mio ingresso in Abissinia, sotto il pseudo nome di Bartorelli, e poscia la mia precaria dimora in Zemiè, aveva mandato il sopraddetto Abba Fèssah pel seguente scopo. Questo giovane aveva dimorato molto tempo in casa di Abba Salâma come suo paggio, e giunto poi a maggiore età, da Salâma era stato ordinato sacerdote, senza però avergli conferito prima gli Ordini inferiori. Convertitosi poscia al cattolicismo, si era unito con i Missionari Lazzaristi; ma non potendo esercitare il ministero per la irregolarità della sua Ordinazione, Biancheri lo mandava da me per riparare il mal fatto e metterlo in regola. Il caso era un po’ intricato, ed ordinare uno lì per lì su due piedi senza conoscerlo e provarlo, mi sembrava un’imprudenza non piccola. Inoltre non mi era così facile in Zemiè fare quest’atto episcopale senza pericolo di essere scoperto; ed io voleva ancora rimanere sconosciuto, per paura di essere scoperto e chiamato da Râs Aly. Risolvetti adunque di sospendere per allora ogni cosa, dicendogli che me ne sarei occupato in Gudrù, dove tra poco contava di recarmi.

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19. Alcuni giorni dopo giunse in Zemiè un ragguardevole personaggio addetto alla Corte di Râs Aly, cioè il signor Giovanni Bell, quel Maltese di cui parlai a lungo nel primo volume di queste Memorie. Egli, avendo inteso l’arrivo di un Europeo a Zemiè, e sospettando che fossi io, prese il pretesto di fare una visita a Workie-Iasu, e venne a trovarmi. Come persona della più stretta confidenza di Râs Aly, fu accolto e trattato con grandi onori: tutte le persone ragguardevoli del paese furono invitate al suo ricevimento, e poi al pranzo, che per questa occasione si diede, ed al quale, sebbene di mala voglia, dovetti intervenire anch’io. Bell mi ravvisò subito; ma saputo che viaggiava con finto nome, non disse parola, nè mostrò di conoscermi; appena poi potè staccarsi da Workie e dagli altri ufficiali, venne tosto alla mia capanna. Ci abbracciammo affettuosamente come vecchi amici, e ci trattenemmo più di un’ora in conversazione. Il signor Bell non era venuto in Zemiè solamente per vedermi, ma per chiedermi un favore, cioè, di dargli, insieme con qualche cognizione sul metodo di curare la sifilide in quei paesi caldi, anche il rimedio corrispondente. Questa schifosa malattia è frequente in Abissinia, sebbene non quanto in Europa; e Bell, dandosi a curarla, sperava guadagnare qualche cosa, e vivere più agiatamente. Gli diedi quelle istruzioni che potei, e gli regalai una buona quantità di mercurio, che aveva portato dall’Europa; sicchè tutto contento se ne ritornò al campo, dove lo aspettavano guerre e sconfitte.

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[Nota a pag. 183]

(1) Le ostie, come ho detto altrove, che si usano in quei paesi, sono certe pagnottelle, grandi quasi quanto quelle che presso di noi si vendono cinque centesimi, fatte con farina scelta e bianchissima. Si danno sempre fresche, e quindi ogni volta richiedono tempo e lavoro. La fatica maggiore è il fare la farina, che, non avendo mulini, non tengono conservata: ma giornalmente se la provvedono col nojosissimo lavoro della macinatura del grano fatta a mano con due pietre. Il nostro Kiès adunque non si aveva tanto torto; ma lo scrupoloso Workie non se la sentiva di aspettare due giorni. [Torna al testo ]