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Capitolo II.

Altari castrensi.

Il sacerdote scelto all’ufficio di cappellano militare doveva immediatamente provvedersi dell’altare da campo, che per lui teneva luogo della spada e della rivoltella consegnata agli altri ufficiali nell’atto della loro elevazione al grado.

La piccola cassetta, lunga all’incirca tre spanne, in cui era stipata la suppellettile strettamente necessaria per distendere un altarino completo e celebrarvi il santo sacrificio della messa, formava la nostra vera arme, il bagaglio essenziale della missione del sacerdote fra le truppe.

All’umanità agonizzante sotto i flagelli di guerra, non poteva offrirsi un beneficio più efficace di quello che le diede la santa Chiesa, con la concessione dell’altare da campo. Non è forse il Calvario la grande scuola della rassegnazione? Non è forse il Sacramento eucaristico il nutrimento della più nobile e più pura consolazione?

Vi sono delle angosce tanto amare, e dei disastri così gravi, che non hanno rimedio umano. All’altezza sovrana della croce che raccoglie ogni dolore nelle /7/ sue grandi braccia, sono infinitamente inferiori le istituzioni umanitarie, i comitati di beneficenza e tutte le opere suscitate a sollievo dei nostri combattenti dalla varia filantropia civile. Ho spesso osservato che l’anima del combattente non poteva neppur venir saziata dalla propaganda, fosse pure intensa e intelligente, con la quale i capi dell’esercito e appositi comitati cercavano di mantenerne e aumentarne la resistenza. Alla morte e a tutti gli atroci tormenti che torturavano la carne viva del nostro soldato, non potevano costringere gli argomenti umani.

Un solo balsamo lenì efficacemente la maggior parte delle piaghe: il sangue filante dal cuore del Re dei dolori, intronizzato nel supplizio della croce.

Quando si vorrà scrivere la psicologia vera del combattente mettendo da parte i pregiudizi, senza timorose reticenze; quando si vorrà dipingere l’anima forte e semplice del nostro popolo soldato, tale e quale l’abbiamo vista e toccata quasi con le nostre mani, attraverso alle sue carni aperte, si dovrà mettere in rilievo che nessuna forza fu dotata di maggiore espansione consolatrice e corroborante, del Cristo Crocifisso. Questa è una convinzione che abbiamo acquistata, non dai libri scritti apposta per fare l’apologia della religione, ma dai fatti ordinari e straordinari constatati nei lunghi anni di guerra.

La croce diffuse la sua luce più viva sui campi di battaglia. Il Martire Divino parlava alle turbe dolenti dall’altare su cui il sacerdote soldato rinnovava il sacrifizio cristiano: tutta la religione del campo s’imperniò in questo piccolo Calvario portatile, che per /8/ l’amore delle anime di cui è infiammata la santa Chiesa, aveva abbandonato la stabilità del marmo riquadrato dei nostri templi per assumere la mobilità della tenda castrense. Ogni campo di guerra, in cui ardessero piaghe da molcere, morituri da confortare, anime da santificare, poteva ricevere il candido altarino: corsie di ospedali e trincee scavate, verdi prati e guazzi, ampia distesa di ghiacciai e vette algenti, caverne e baracche, il chiuso e l’aperto, il sole e la neve, diventarono sacri e solenni come le cattedrali che intrecciano multiple corone di archi sovra artistici altari di marmi e d’oro.

Anzi, pareva che sulle truppe inquadrate o accalcate all’intorno si diffondesse una luminosità chiara e calda, da quella minuscola e povera mensa mal coperta di pannolini raccorciati, e illuminata da due moccoli consunti dal lingueggiar delle fiammelle al vento. V’era una poesia mistica, ingenua e possente in queste cerimonie di campo, poesia che attraeva e che commosse anche gl’increduli, e ne avviò qualcuno al culto spirituale del vero Dio.

— «Quando verrà, Padre, a celebrare una messa alla nostra compagnia?»

— «Domenica, figliuoli; domenica sarò con voi.»

Tale è la risposta consolante che il cappellano d’un reggimento poteva talvolta dare alla domanda che spesso gli rivolgevano i soldati. Troppo sovente egli doveva rispondere che bisognava che attendessero ancora qualche settimana, perchè parecchie altre compagnie, (ve ne erano nove e persino dodici in qualche reggimento), attendevano ancora il turno della messa festiva.

/9/ In poche mansioni il sacerdote sentì più profondamente la piccolezza della propria persona e l’esiguità della sua opera, come nel ministero del campo. Sperduto in colossali unità militari formate da parecchie migliaia di uomini, i quali venivano poi aggruppati e divisi in appostamenti di linea, in accantonamenti di riposo, numerosi e fra loro discosti assai, il cappellano avrebbe voluto farsi in pezzi per moltiplicare la sua presenza presso i diversi reparti affidati alle sue cure. Alla domenica, anche quando gli era concesso di celebrare due volte, sentiva una spina nel cuore, al pensiero dei tanti che rimanevano privi del beneficio della Santa Messa e della parola evangelica. Mi accadde sovente di venir accolto da amorevoli rimproveri di ufficiali e soldati, che mi rinfacciavano l’abbandono in cui li avevo lasciati in una trascorsa solennità. Nè potevo difendermi coraggiosamente, poichè il mio cuore era abbeverato di rammarico. Non mi restava che promettere solennemente una riparazione: «Ebbene, la messa che non avete avuta, ve la celebrerò domani stesso»

In una mensa di ufficiali, dopo una specie di processo tessutomi per una tale mancanza, una mia dichiarazione di tal genere non solo provocò l’assoluzione, ma fu accolta da potenti urrà. Il giorno susseguente, che era feriale, per tutto quel battaglione fu cambiato in una festa, santificata dalla messa.

E appunto per non privare troppo a lungo del santo sacrifizio i diversi reparti, spesso celebravo ai militari anche nei giorni feriali, che, per tal cerimonia, diventavano veri giorni festivi, poichè la santa messa era la sola cerimonia che distinguesse la solennità, specialmente quando si stava in prima o in seconda linea. La /10/ guerra non conobbe alcun giorno di tregua: (1) la pia proposta fatta e rinnovata dal Padre comune dei fedeli, d’arrestare ogni ostilità nelle feste più sacre, fallì per la malizia degli uomini: il ritmo tremendo della mitraglia e del cannone volle ininterrottamente crivellare il miserabile nostro corpo. Tutti i giorni furono ugualmente mortali per i trinceristi: solo la celebrazione dei santi misteri creò quelle oasi spirituali di pace, di ricordi e di speranze che potevano appellarsi feste del campo.

15 agosto 1917. — Alta Val Camonica.

Sul cielo mattinale si diffonde un azzurro luminoso e trasparente; dal sovrastante ghiacciaio soffiano fresche e leggere raffiche, che spandono tutti gli aromi e le essenze della montagna; gli storni cinguettano fra i larici che si fan sempre più rari sul fianco della strada saliente fra le rocce.

Il mio cuore armonizza con tutta questa festa di luce, di fiori e di canti: è la festa dell’Assunzione della Vergine.

Lasciando la grande strada della Sella Tonale m’arrampico lestamente pel camminamento che porta ad una piccola sezione di mitraglieri, appollaiati presso l’al- /11/ tissima cresta. Mi segue l’attendente con la cassetta dell’altare.

Da parecchio tempo quei bravi soldati si sono fatti promettere il favore di questa messa. Quasi tutti i miei più che quattromila uomini vantano, e mi pare che abbiano realmente, per una strana ma obiettiva anomalia, una qualche preferenza del mio affetto, qualche segno particolare del mio amore.

Salendo, la strada è diventata sentiero; e il sentiero è ripido e tortuoso; nei punti esposti alla vista nemica si copre e si fa buio come una buca scavata da una talpa; ma è sempre dolce camminare verso persone che ci attendono e che ci amano.

Finalmente posso stringere la mano di quei valorosi. M’accompagnano tosto alla parte estrema del ridottino, dove il piccolo presidio è stato radunato per la santa messa. Quella caverna è detta «il paradiso», perchè è la punta più alta della nostra difesa: non certo per altro motivo: anzi, di notte, talvolta diventa un vero inferno di mitraglie e di bombe che scattano per le feritoie, contro gl’improvvisi assaltatori. Ma di giorno vi si respira una gran calma. Sovra un asse, appoggiato trasversalmente fra le due pareti rocciose dello stretto ricovero, colloco la pietra sacra e distendo le bianche tovaglie dell’altare. I soldati sono stivati alle due fronti dell’altare, sotto la bassa volta blindata; i più alti debbono tenersi costantemente ricurvi. Le candele si spengono ripetutamente alle raffiche di brezza che penetrano per le feritoie; i piedi guazzano nel fango.

Assai raramente il grande atto è stato celebrato in una catacombe più indegna. Eppure, quando sollevo /12/ nelle mie mani l’ostia candida sopra quelle ombre, curvate d’una sull’altra nel fango della buca oscura, non mi pare proprio un’ironia il nome di paradiso dato a quel luogo, santificato dalla presenza di Dio e dal fervore della preghiera. Dopo la celebrazione, parlo ai miei uomini del giglio che trasforma gli elementi sorbiti dalla terra nel candore dei petali elevati sullo stelo, e dico della Vergine che portò al cielo il fiore verginale della sua carne, e ricordo le maravigliose trasformazioni che la grazia del Signore opera nei cuori che a Lui si appressano...

«Vengono, alla messa i suoi soldati?» si chiedeva spesso ai cappellani militari.

Quanto a me, la mia risposta non aveva bisogno di lunga riflessione: «Vengono sempre, quando non sono impediti; e quasi tutti.»

Vi fu nell’esercito qualche superiore che osò giocare d’astuzia e di brutale tirannia per limitare la libertà religiosa, per debito d’onestà concessa, benché in misura limitata, alla nostra truppa. Non pareva vero a qualche vecchio settario, che i soldati d’Italia corressero in massa alle cerimonie religiose e alla santa comunione, e che il rito assumesse quasi una forma ufficiale; onde taluni, quando sembrava loro di non aver nulla da temere dai superiori gerarchici o dall’ardimento di qualche cappellano, vibravano i loro colpi sinistri.

Siamo lieti di poter soggiungere che tali volgari abusi contro la libertà di coscienza erano rari: molti supe- /13/ riori concedevano con soddisfazione che la truppa assistesse alle funzioni sacre nelle ore e nel tempo propizio, secondo le prescrizioni emanate dal Comando Supremo; e quegli stessi comandanti che non erano indotti a tali concessioni da motivi soprannaturali o di coscienza, venivano presto convinti dall’efficacia di bene generale che le pratiche cristiane apportavano fra le truppe. Vi furono cappellani che dovettero moderare lo zelo grossolano e sfruttatore di qualche grande ufficiale, che avrebbe voluto favorire indiscretamente con intenzioni non degne della purissima spiritualità, il culto delle cerimonie religiose. Conobbi un maggiore israelita, il quale voleva che la truppa dipendente fosse sempre costretta ad assistere alla messa, inquadrata e armata come per una cerimonia ufficiale.

Le anime non hanno bisogno che della libertà: esse rifuggono di obbedire alle soverchie imposizioni, specialmente quando queste partono da una autorità che non è ne amata, ne sinceramente rispettata.

Quanto sono preferibili le dolci attrattive della carità cristiana! Quando i soldati avevano ammirato lo zelo del cappellano nel pericolo supremo della trincea; quando si era portato il bianco altare sin nelle eroiche doline carsiche, sotto il maglio crivellatore delle granate; quando il cappellano era tutto a tutti, come la personificazione dell’amore del Cristo, non aveva bisogno ne di squilli di trombe, ne di adunate forzose per chiamare la folla dei fanti attorno al suo altare.

Un reparto, giunto di fresco al mio reggimento, aveva risposto meschinamente all’invito per la messa festiva; il rispetto umano e tutti gli altri pregiudizi volgari ne avevano tenuti lontani un gran numero. Dopo /14/ qualche turno di trincea quei bravi ragazzi diventavano i più solleciti. «Abbiamo imparato in trincea ad andare a messa,» diceva uno di loro, con bella soddisfazione.

Tra i reparti d’assalto in cui ho esercitato il mio ministero, ve n’è uno il cui nome rimarrà nella storia dolorosa delle nostre più ardue rivendicazioni territoriali.

Era un’accolta scelta di arditi, vecchi e giovani, di veterani e di reclute fiammeggianti. I faziosi di violenti partiti, che vegliavano per loschi ideali, avrebbero voluto volgere questo ardire di giovinezza sfrenata a strumento delle loro mire ambiziose. Ci volle tutta l’arte dei chiaroveggenti per sventare ogni trama e conservare il comando dell’unità ad un uomo leale e cristiano. Ma contro di costui si spuntarono tutte le frecce avvelenate degli scornati mestatori. Gli scrissero a colpa l’aver detto una sera ai suoi soldati:

«Mia madre m’insegnò a far la preghiera prima di coricarmi: chi vuole, si unisca a me». È certo che tutti gli arditi aderirono, e quella camerata già risuonante di banali bestemmie, parve diventare pura e bella come una chiesa.

Nella domenica successiva io andai a celebrare la santa messa fra quei cari figliuoli; ma, essendo stato prevenuto della terribile accusa di quella violazione di coscienze, (di cui tuttavia gli arditi non sapevano nulla) /15/ dissi pubblicamente della piena libertà che godevano di intervenire o no alla funzione religiosa.

L’altare era stato preparato proprio in riva al mare dinanzi ad un meraviglioso lembo del nostro Adriatico tutto smagliante sotto il più bel sole. La compagnia, bella di più di trecento uomini, formava il solito quadrato. Prima d’incominciare la celebrazione, dò il riposo, e ripeto che, se qualcuno non vuole rimanere, può ritirarsi in piena libertà, immediatamente.

Ma nessuno si muove.

— «Dunque, volete proprio assistere tutti alla santa messa?» domando io.

Con una voce sola e squillante i bravi arditi rispondono col più schietto «sì» della nostra favella.

Un audace e caro tenentino, che viveva tra i suoi dipendenti con la confidenza e coll’amore d’un fratello, disse ad alta voce: «Quelli che vogliono essere buoni cristiani, alzino la mano.»

In un baleno si sollevò nell’aria una selva di palme che rimasero decisamente ferme, sinché si constatò che neppure uno mancava all’appello della fede. Tutti quei giovani visi erano accesi: vi si leggeva la commossa soddisfazione per l’inaspettato e bell’atto compiuto con sì ammirevole spontaneità e concordia.

Il cappellano cominciò le preghiere del sacro rito cogli occhi pieni di lacrime. Quella fu la sua più bella messa di campo; poichè si può asserire — senza punto esagerare il valore della spontanea affermazione — che quelle anime impetuose, hanno compiuto un’azione grandiosa ed eroica, come il giuramento degli antichi cavalieri, i quali si prostravano davanti agli altari per consacrarsi a Dio per la vita e per la morte.

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Non si potrà mai conoscere quale immensa onda di soavi commozioni spandesse nell’anima buona dei soldati una funzione sacra. Quanti occhi luccicavano di pianto, nell’atto in cui alzavano la nostra mano benedicente! Visioni di madri lontane, di spose e di figlioletti in preghiera; memorie riviventi di giovinezze immacolate, di feste lontane; voci care, concenti di bronzi noti e amati: profumi di orti domestici davano un voluttuoso assalto alla mente e ai sensi e facevano trasalire e piangere.

Nell’ultimo anno di guerra si cercò di trapiantare alla fronte gli spassi e i divertimenti della vita di pace, per far sentir meno al soldato il peso della guerra; ma nè il teatro di campo, nè i giochi sportivi, nè alcun altro profano sollievo potè gareggiare con la diffusione di tranquillità e con la lieta affermazione di buoni propositi che diffondeva un piccolo altare.

I militari stessi dimostrarono quanto gradivano una bella cerimonia religiosa, con la diligenza volonterosa che mettevano nel preparare gli ornamenti dell’altare. L’arte spontanea trasformava quel piccolo altarino in qualche cosa d’ammirabile, di grandioso. Nelle solenni occorrenze io lasciavo ai soldati tutta la libertà d’iniziativa e di lavoro, sicuro della riuscita, meglio che se vi avessi atteso io stesso. Fra la truppa vi erano dei veri artisti: e sopratutto vi erano dei cuori innamorati della bellezza del culto.

Il luogo e la stagione davano la materia prima alle oneste mani che sapevano trasformarla in vaghi orna- /17/ menti. I fiori più belli della primavera coronarono gli altari pasquali, i pampini e le fronde abbondanti e i perpetui rododendri lo ombreggiarono bellamente nel solstizio. Nelle conche aeree e sulle altissime creste del Monte Tonale, ove il mio altare non poteva giungere che spoglio d’ogni superfluo, privo persino della ordinaria cassetta e tutto raccolto dentro un tascapane a cencio, i miei giovanotti spesso potevano preparare la sacra mensa sopra meravigliose distese di neve compressa. Il plasmabile elemento che per otto mesi dell’anno cade abbondantemente su quelle montagne venne foggiato dalle mani dei militari in guisa d’un vero monumento di marmo pario, che pareva piovuto dal cielo per essere il più puro e il più degno trono eucaristico. Giammai tempio fu più bello di quello che era formato dagli archi azzurri della volta celeste, e dai colossali colonnati di rupi salienti, e dai tappeti delle candide groppe dei monti. L’Ostia immacolata splendeva nei raggi del sole nascente, e le teste abbronzite dei difensori d’Italia si piegavano ad adorare il mistero di sacrificio racchiuso nei veli eucaristici.

Non ho mai celebrato al campo senza dire qualche buona parola ai cari soldati.

L’apostolato del cappellano doveva esplicarsi di continuo con la parola evangelica: il fuoco di zelo che ardeva nell’anima sacerdotale doveva irradiarsi lentamente con discorsi, conferenze, conversazioni, colloqui privati.

/18/ A lui si accorreva per consiglio, per aiuto, per ricevere anche una sola di quelle parole che, fra tanti strepiti di ostici superiori e di rozzi commilitoni, sola aveva la dolcezza della voce materna.

Dinanzi all’altare spiegato, ancor vaporante del profumo dell’ostia liliale, la parola del sacerdote dava tutto il suono del più dolce insegnamento, del più carezzevole amore. Il grigio verde che rivestiva l’ufficiale era scomparso sotto i sacri paramenti, i quali non mostravano che il sacerdote di Dio. Tutti sapevano che quella non era parola d’uomo; ma vangelo, puro vangelo, non corrotto da mire umane, non manipolato da propaganda guerrafondaia: sospettare che un sacerdote potesse corrompere la parola di Dio, e tradire il proprio ministero, equivaleva a sospettare il più grave delitto di cui sia capace un degenerato, lo spegnimento stesso dell’ultima fiaccola della coscienza. Quante verità scottanti abbiamo potuto dire ai nostri soldati! quante vergogne svelare, pur non spremendo mai dai cuori un grido di ribellione, nè un urlo di disperazione, perchè non ci stancavamo di ripetere l’evangelica narrazione dei dolori rassegnati di Gesù!

Molte coscienze, prostrate dalla servile abitudine d’ordini ciechi, di parlate inconcludenti, d’imposizioni brutali, a quel suono si ridestavano, si sentivano umane e cristiane, e riprendevano la strada del loro Calvario, con gli occhi illuminati da una pace, da una speranza, da una rinata dignità interiore, che già sembravano avessero irreparabilmente perduta nel ferreo meccanismo della guerra.

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La religione del soldato, che trasformò qualsiasi ambiente in luogo di orazione, diede pure belle manifestazioni nelle chiese, nei templi dedicati al culto.

Il remoto angolo d’una chiesuola campestre, sita presso le trincee, sotto le volte traforate, ornate d’azzurro dal cannone nemico, accoglieva talvolta qualche nostra furtiva funzioncina.

Nei paeselli di bivacco, nei campi di concentramento, nelle cittadine delle retrovie, si compivano solenni funzioni. La maestosa basilica di Aquileia, officiata con tanta cura da quel modello di sacerdote e di soldato che è Mons. Celso Costantini, i santuari di Udine, di Vicenza, di Verona e di Brescia videro i fanti giungere a schiere per preparare e rifocillare lo spirito angustiato dalle vicende della trincea, ed assistere con ordine e pietà alle solenni messe festive del soldato. Quando le nostre truppe s’aprirono finalmente la via della vittoria finale, e occuparono Trieste delirante, abbiamo voluto che l’affratellamento della gentile popolazione col più bel sangue di tutta la penisola, fosse benedetto ogni domenica davanti agli altari.

Chi avendo avuto la sorte d’assistervi, potrà dimenticare la messa di Natale, voluta dal comando della III Armata, nella basilica di San Giusto? S. A. Reale il Duca d’Aosta, con tutta la sua nobile e bella famiglia stava nel presbitero: dietro a lui venivano i generali, le autorità, le rappresentanze di tutte le truppe e un popolo immenso. Mentre il sacerdote accoglieva sulle pietre romane dell’altare il Dio della pace e della /20/ vittoria, le anime erano dolcemente spinte a Lui e dalla pastorale nenia natalizia che l’antica tradizione triestina faceva eseguire da un gran coro di violini; e sopratutto dalla calda e lucida parola del Padre Giovanni Semeria (1867 - 1931) era sostenitore dell’incontro ra la fede cattolica e la scienza; per questo fu spesso accusato di modernismo. Fu cappellano militare durante la I guerra Mondiale, e con il → Minozzi fondò e diresse l’Opera nazionale per il Mezzogiorno d’ItaliaP. Semeria.

Qualche giorno dopo, un manifesto affisso largamente per tutta la città invitava la gioventù triestina alla messa del soldato, celebrata, ogni festa, nella chiesa centrale di Sant’Antonio Nuovo. Un delirio di giovinezza invase e stipò il vasto tempio: le truppe a mala pena poterono penetrarvi. Il rustico culto dei nostri altarini da campo era scomparso: musiche, incensi, eloquenza, arte e mal repressi applausi intrecciavano corone attorno all’altare marmoreo dell’esercito vincitore.

Ma i preziosi ricordi delle pompose cerimonie non vinceranno mai, nell’anima nostra, la profumata nostalgia dei rozzi altari di fiori e di neve coronati dai fanti laceri e infangati della trincea.

/Nota a p. 10/

(1) Si accenna all'opera svolta dal Sommo Pontefice Benedetto XV per ottenere la cessazione delle ostilità per la festa del S. Natale: opera che fu frustrata dalla cattiva volontà umana, come tanti altri benefici tentativi di pace del grande Pontefice. Torna al testo ↑