/87/

Capitolo IX.

Un segretariato popolare.

Il dolce sentimento di paterna carità che il sacerdozio ci accese nell’anima, ci fece santamente solleciti nel sovvenire a tutte le varie necessità del nostro soldato. Egli guardava a noi come ad una sorgente di ogni bene, sapendo quale spirito ci animava. E mentre nei comitati laici di assistenza civile o negli uffici di propaganda, creati durante l’ultimo anno di guerra, aveva diffidenza, quasi che speculassero indegnamente sulle sue necessità e sul suo sangue, nutriva invece grande fiducia nei nostri piccoli soccorsi, nella nostra carità sincera.

Il cappellano intelligente, non solo non trascurava l’esercizio di questa bella virtù, ma ne faceva strumento di spirituale penetrazione. È assai difficile arrivare direttamente e di botto alle anime e rendere loro accettabile e puro il pane spirituale; un tal ministero diretto, che è irto di difficoltà per le anime stesse votate alla perfezione religiosa, torna quasi impossibile sul cuore grossolano del popolo; onde Gesù, modello di perfetto apostolo, all’insegnamento soprannaturale congiunse una infinita larghezza di opere benefiche. Ai suoi mi- /88/ nistri Egli lasciò in retaggio la carità, sorgente inesauribile di bene, potenza meravigliosa che ha attirato al nostro cuore e ci ha rimesso nelle mani le care anime dei nostri combattenti.

Il cappellano militare era il pubblico segretario, sempre pronto a servire ciascuno dei mille e mille militari di cui si componeva la sua unità.

V’era chi non sapeva scrivere una lettera? Gli analfabeti si trovavano a dozzine nei reggimenti meridionali. Onde era necessario istituire scuole per impartire le prime lezioni di lettura e di scrittura: scuole che si mettevano in azione non solo nei campi di riposo, ma nella stessa trincea, dove il cappellano sceglieva i maestri fra i compagni di plotone e procurava i sillabari con tutto l’occorrente.

La scuola era, in ogni caso, il più proficuo dei passatempi; molti dei naturali discepoli, persuasi dalla necessità o attratti da piccoli premi, seppero far tanta violenza alla scorza ormai coriacea del loro cervello da apprendere in breve la lettura e la scrittura.

A colui che non poteva essere piegato da questo elementare esercizio, veniva egualmente in aiuto la nostra mano, stendendogli la corrispondenza da lui dettata.

Molti non scrivevano a casa per la mancanza della carta, o della penna, o dell’inchiostro; ed ecco che una delle nostre non ultime cure consisteva nel provvedere /89/ gratuitamente al soldato l’occorrente per scrivere una lettera alla famiglia. Anzi, verso la fine del 1916, si venne formando presso l’Intendenza generale dell’esercito un magazzino generale di tutti i materiali occorrenti al sollievo morale del soldato. Ne era a capo l’infaticabile sacerdote, Giovanni Domenico Roberto Minozzi (1884 - 1959) fu cappellano militare nella guerra di Libia e nelle I Guerra Mondiale. Con → padre Giovanni Semeria fondò l'Opera nazionale per il Mezzogiorno d'Italia per l'assistenza agli orfani e ai più poveri, ed altre opere benefiche. professor Giovanni Minozzi, capitano dell’ordine di Malta, che dal Comando supremo dell’esercito era stato incaricato di organizzare e dirigere la provvidenziale istituzione delle Case del soldato al fronte.

Nelle retrovie, nelle città e nei borghi che accoglievano le truppe a riposo, si allestirono queste Case del soldato, che tenevano pure delle succursali fin nei ridottini delle trincee, o nelle caverne di prima linea, offrendo ai militari un asilo sicuro e tranquillo con carta, penna e calamaio, per accomodarsi a scrivere una letterina, o a passare qualche ora nella lettura dei giornali o di libri piacevoli, o nell’audizione del grammofono o dei diversi strumenti che stavano a disposizione del primo suonatore sopraggiunto. Ad alcune case centrali erano annessi il cinema ed il teatro.

La fiducia dei comandanti ha voluto quasi dappertutto che il direttore di questo confort della vita di guerra, fosse un sacerdote militare: e non poteva farsi miglior scelta, poichè è proprio ufficio del sacerdote confortare e allietare i tribolati. Alcuni cappellani più zelanti tenevano contemporaneamente tre o quattro Case del soldato, una per ciascun battaglione loro affidato.

I militari si mostravano assai grati del nostro servizio, e accorrevano volentieri e si stimavano felici /90/ quando potevano avvicinarci e avere da noi una lettera, una firma per la mamma.

Spesso, i nostri soldati venivano a chiederci il favore di procurare loro notizie che da tempo non ricevevano dalla famiglia. L’incuria di quei di casa o i disguidi postali han tenuti cuori sospesi: durante queste attese dolorose essi riponevano in noi tutte le speranze di pronta corrispondenza. Intanto, parlando col soldato della famiglia, scrivendo la lettera richiesta, si entrava nelle intimità: in quegli abboccamenti, in quelle confidenze fatte in mezzo al frastuono della casetta del soldato, si stabiliva l’appuntamento per preparare con maggior comodità ai santi Sacramenti.

E non solo nelle Case del soldato, ma per le strade, nei camminamenti, nelle trincee, i soldatini fermavano il cappellano per implorare l’opera sua: nè avevano tutti bisogno di una semplice lettera. In prossimità di azioni v’era chi voleva dettargli un testamento; chi lo pregava di consigliarlo nella soluzione d’una faccenda domestica; chi voleva gli si sbrigassero tutte le pratiche per il matrimonio religioso e civile. In certi giorni mi pareva quasi di essere diventato un agente di matrimoni, tanti erano i giovanotti che a me ricorrevano per consiglio o disbrigo di pratiche matrimoniali!

Si accoglieva tutti, si prendevano le note necessarie, e poi, venendo al comando dell’unità presso a cui risiedeva, al suo Ufficio notizie, col suo scritturale, il cappellano dava corso a tutte le pratiche, passando al tavolino delle belle ore, rubate al riposo e al sollievo. Ricordo che in un giorno solo, che non fu privo di altre occupazioni, il protocollo del mio Ufficio, al 55° fanteria, ebbe oltre sessanta numeri.

/91/ Era un vero segretariato popolare, in cui il lavoro non veniva limitato che dall’immenso desiderio di alleviare i dolori dei soldati e delle famiglie.

I doni che il Cappellano offriva ai soldati, non erano tutti di parole. Lo sa la sua borsa piccola e sempre esaurita: lo sanno molte persone che hanno sparsa tanta beneficenza sulle truppe, per mezzo delle nostre mani.

Libretti, immagini sacre, coroncine, medaglie, andavano a ruba dopo la celebrazione della messa: non facevo mai in tempo ad accontentare tutte le mani tese della folla che mi circondava e mi stringeva. Ma quelli erano assalti gentili, dei più simpatici di tutta la guerra.

Quando cominciavo il giro della linea per visitarvi i soldati, il mio tascapane e quello dell’attendente erano rimpinzati d’ogni ben di Dio: ma andavano assottigliandosi lungo il cammino e quasi sempre si esaurivano prima del tempo. Ognuno aveva un piccolo regalo: una sigaretta, un quadratino di cioccolata, una caramella, una medaglia, un giornale. Era poco per il bisogno di quei poveretti, ma dinnanzi al cuore riconoscente il piccolo dono ingrandivasi fuor di misura.

Sinché la distribuzione degli indumenti raccolti dai comitati nazionali non fu regolata dall’apposito Ufficio Doni, che fu stabilito solo nell’ultimo anno di guerra, la solerzia dei sacerdoti ebbe pure a provarsi nel procurare e distribuire gli indumenti che vennero offerti dal paese ai suoi difensori, tormentati dal rigore della /92/ stagione invernale. Le nostre cellette di alta montagna si trasformarono in magazzini e in distributori a cui venivano i bisognosi per ritirare o un paio di calze, o un cravattone, o un panciotto. L’intervento personale del cappellano valeva a tenere lontano quel brutto crimine che viziava molte distribuzioni militari e che i fanti appellavano con amaro disprezzo: la camorra. Da noi i soldati ricevevano poco, ma se ne andavano contenti egualmente, poichè quel poco, distribuito rettamente, veniva sempre accompagnato da qualche buona parola, e da quella grazia «che accetto il don ti fa.»

Un altro genere di benefizi temporali spargevano sui soldati i cappellani militari.

La giustizia, anche la piccola giustizia distributiva dei pesi quotidiani e delle misere ricompense, raramente era esercitata con equanimità, senza preferenze e senza avversioni, in modo da venire accettata volentieri dagli interessati. Tanti piccoli malumori formavano il tormento della convivenza forzata di molti individui, diversi per regione di provenienza e per condizioni sociali. I litigi, gli alterchi frequenti, quando finivano meno peggio, finivano con la giustizia sommaria di qualche graduato, che non metteva per nulla le cose a posto.

V’erano altri che per mesi interi portavano l’amarezza in cuore e si rodevano perchè nelle furerie si faceva la camorra delle licenze, lesinando e trattenendo /93/ chi ne aveva il diritto, mentre si aprivan le porte agli ultimi venuti.

Altri si trovavano a disagio in un reparto, perchè si credevano avversati senza remissione da qualche superiore.

Altri, per un malinteso qualsiasi, dovevano subire innocentemente carceri e condanne.

Chi poteva escogitare e procurare i diversi rimedi per le più urgenti di queste miseriole, che pullulavano in quelle collettività improvvisate e mal composte? Era questo il lavoro d’una persona veramente superiore, di una persona che avesse autorità di ammonire paternamente e consolare i deboli, e nel tempo stesso potesse illuminare i superiori e piegarli a quella giusta misericordia che, lungi dal distruggere la disciplina, ne è il principale sostegno. La missione stessa del sacerdote lo designava a patrocinatore dei deboli, a paciere universale.

Nessun superiore era dispiacente che noi prendessimo a proteggere anche i colpevoli: e quando anche qualcuno non poteva accondiscendere al favore da noi richiesto, mostrava tuttavia di comprendere ed apprezzare il nostro intervento.

L’infelice, anche nel peggiore dei casi, aveva un argomento della nostra carità, e una voce che lo compativa.

La causa di qualche povero innocente, sostenuta con tutto l’impeto e la santa ostinazione dello zelo, potè formare il ricordo più bello di tutto un ministero apostolico, e una delle non ultime benemerenze del sacerdozio in tempo di guerra.