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Capitolo XI.

Crudeltà e rappresaglie.

Che la guerra abbia aperto sulla umanità il vaso di Pandora e ne abbia lasciato uscire tutti i mali che da qualche anno in qua infestano il mondo, l’abbiamo udito ripetere colla stessa insistenza, colla quale un tempo altri si arrabattavano per dimostrare che solo l’intervento alla grande guerra e la partecipazione alla vittoria finale potevano riversare sull’Italia nostra la cornucopia della prosperità.

Loschi intendimenti, volgare sfruttamento di competizioni politiche, spesso stimolarono a scrivere le pagine nere del libro di guerra: assai diverso invece è lo scopo che mi spinge a scrivere questo e i seguenti capitoli dell’opera mia, che vuole essere dettata tutta da spirito di sincerità, di lealtà, di amore, di edificazione. Voglio qui riportare alcuni dati, presi sul campo, che dimostrano quanta efficacia godesse l’opera umanitaria e religiosa del cappellano militare, nel sopprimere o temperare parecchie forme di barbarie che spesso inasprirono sino al cannibalismo le pratiche sanguinarie della guerra, e resero l’uomo incivilito inferiore al sel- /101/ vaggio che fa piombare sulla cervice del proprio fratello la clava e il randello chiodato.

Quando lo spirito combattivo delle truppe parve affievolirsi, si credette di poterlo rafforzare con una intensa propaganda bellica: furono istituiti uffici che diluviarono sulle truppe libri, giornali e sopratutto conferenze e concioni. Ma non tutte queste parole vennero ispirate a quel senso di umanità che deve illuminare anche l’anima del più acceso belligerante. Ad alcuni oratori non pareva di aver ottenuto un buon successo, se non intessevano il discorso di invettive e incitamenti all’odio; conobbi un propagandista che terminava ogni suo sproloquio, esclamando: «Odiate, odiate, odiate»!

Guerrafondai imboscati nelle retrovie piovevano sui reggimenti che stavano a riposo, a farvi assaggiare la violenza delle loro esclamazioni, colorite talvolta da qualche spunto anticlericale. Un oratore di questo genere, per avvalorare le sue parole con un fatto, estrasse improvvisamente davanti all’uditorio un pugnale a scatto e lo confisse bravamente sul tavolino, come se il legno fosse carne viva del nemico. Ma quando l’oratore si allontanò, e gli arditi che gli erano stati prossimi, svelarono che il pugnale dell’oratore aveva unita al manico la forchetta, la banale forchetta per la colazione... gli arditi, anzichè ricordare le sue folgori di odio e di morte e anche di anticlericalismo, lo avrebbero invitato a rientrare alla trattoria milanese da cui proveniva, e nella quale e coltellaccio e forchetta avrebbero fatto miglior fortuna e uso meno ignobile...

Con quale maggior efficacia, con quale più umana luce penetrava i cuori la parola evangelica del cappel- /102/ lano, tutta soavità ed amore, aliena sempre dall’odio! La vera fratellanza dei popoli, l’amore universale è una base che appartiene sostanzialmente all’edificio morale creato da Gesù. Perciò è impossibile che un sacerdote, per qualunque motivo, possa predicare l’odio, mentre può invece predicare l’amore della propria patria e la giusta difesa di lei. Pel discepolo di Gesù, l’amore della patria non è un incentivo all’odio, ma una tappa verso l’amore universale.

La nostra predicazione si ispirava a questi principii.

Qualche comandante, privo di conoscenza delle verità evangeliche, avrebbe voluto costringere la parola del cappellano, sempre accetta ai soldati, alla convenzionale predicazione dell’odio contro il nemico; ma nessuna comminazione potè spezzarci sul labbro gli accenti puri della carità evangelica. Salvando l’integrità della predicazione ecclesiastica, in mezzo alle aberrazioni passionali, avevamo da consapevolezza di compire un preciso e improfanabile dovere, e di rendere nel tempo stesso il miglior servizio alla patria e alla umanità.

Tra i comandanti del nostro esercito, abbiamo conosciuto delle persone degne di ogni riguardo, piene di intelligenza e di umanità. Basti ricordare per tutti il duce della Terza Armata, S. A. R. il Duca d’Aosta, comandante perfetto di milizie che mai non conobbero la sconfitta, e vero padre dei soldati.

Ma non tutti gli ufficiali superiori erano animati da sincero amor di patria. Qualcuno, preoccupato unica- /103/ mente dell’avanzamento di grado, sacrificò alla vanità e a mire ambiziose il senso stesso d’umanità dovuto ai propri dipendenti. La deficenza di qualità mentali rese ridicolo qualche comandante, giunto per strana fortuna agli alti gradi: ma l’egoismo banale e crudele, la cupidigia sfrenata di onori rendevali più detestabili. Il rigore della disciplina militare riponeva nelle mani di questi indegni sangue e vite, barbaramente sciupate. Quanti eccidi furono imposti, non dalla necessità, ma dalle loro sanguinarie passioni, che volevano farsi prendere in considerazione dai comandi superiori, con azioni e sacrifici incessanti di uomini! Il cappellano, che s’era guadagnata la comune benevolenza, era la sola persona che poteva talvolta parlare coraggiosamente a queste belve, e sappiamo, per esperienza, che la nostra testimonianza nell’asserire l’inefficacia di un attacco o l’inespugnabilità di una difesa nemica, valse ad evitare più d’una catastrofe, o anche solo a trattenere una folgore pronta a colpire un innocente capro espiatorio.

Non era certo nostro compito l’intrometterci nelle faccende tattiche: ma quando si nutriva qualche speranza di riuscir ad impedire delle inutili stragi, delle ingiustizie aperte, i più zelanti e autorevoli sacerdoti presero decisamente la difesa degli oppressi.

Il più grave strazio che si potè soffrire in guerra, non venne inflitto dal nemico, ma dalla meschina giustizia legale dei nostri comandi: e dico dalla meschina giustizia, non so se per ironia o per temperare quella /104/ vampa di sdegno che mi sale nell’anima quando ricordo le vittime volute da una disciplina, che talvolta invece che alla intelligenza e alla equità si ispirava ad una brutalità neroniana.

Non tutte le sentenze dei tribunali militari o delle corti marziali condannarono dei colpevoli. L’esecuzione capitale era creduta una necessità di guerra; a tal segno che, quand’anche si era persuasi che non esisteva punto il reato, obiettivamente punibile di morte, i giudici emanavano sentenze capitali, col pretesto di dare un esempio salutare. E quanti di questi terribili esempi hanno, non edificato, ma rivoltato l’animo delle truppe!

L’infelice che era capitato, forse casualmente, nelle mani della giustizia, e che stava rinchiuso nelle prigioni militari, era ben lungi dal sospettare che la sua mancanza dovesse portarlo alla fucilazione. Invece al di fuori e negli ambienti del comando, si preparava la tempesta: passavano degli ordini, delle frasi a mezza bocca, che diacciavano qualunque cuore a cui non facessero velo pregiudizi terroristici e guerrafondai.

Il cappellano cercava di ragionare, di persuadere: avvicinava i futuri giudici della corte improvvisata e raccomandava clemenza, compatimento e giustizia; giustizia sopratutto, perchè non mi parve mai lecito ammazzare un innocente per incutere timore agli altri.

Ma i migliori uffici rimasero spesso senza buon effetto. Giovani sul fior dei ventanni, padri di famiglia, vennero condannati alla fucilazione, per una inezia, per una leggerezza dotata di cento attenuanti, o anche della più pura ed evidente innocenza!

/105/ Chi poteva affrontare il grido di disperazione prorompente da queste anime, alla proclamazione della sentenza? I giudici si allontanavano: in mezzo al quadrato della truppa armata, da cui partivano sguardi tutt’altro che edificati dall’esempio salutare, il cappellano rimaneva solo coi condannati prostrati a terra dalla folgore o irrigiditi in un cinismo sprezzante, che aveva qualche cosa di sovranamente dignitoso di fronte alla vigliaccheria armata; abbandonati ad una effusione di lacrime e di gemiti, o chiusi in un silenzio acceso che pareva un gesto di suprema maledizione alla società umana.

Il sacerdote era l’unico consolatore che potesse avvicinare quelle agonie forzate e richiamarle dallo stordimento, colle parole efficaci della consolazione divina. Gli infelici cadevano sul nostro cuore, si riavevano lentamente, e dal sacramento cristiano attingevano una rassegnazione e una speranza di giustizia sovrumana e immortale, che illuminava quelle anime e le faceva assorgere all’eroismo del martirio.

Pochi dei condannati resistettero alla seduzione che la religione fa splendere in quelle tragiche ore. La maggior parte di queste vittime, votate alle armi fratricide, prostrate nel fallimento completo di ogni ideale umano, formarono le conquiste più belle che le nostre mani sacerdotali offrirono al cielo.

Presso ogni popolo incivilito fu ritenuta come crudeltà inutile, e perciò proibita da tutte le convenzioni /106/ internazionali, e segnatamente da quella di Ginevra, (1) l’incrudelire contro del ferito e del prigioniero.

Il nemico, ridotto all’impotenza, non è più che un uomo, cui non devonsi più puntare vigliaccamente le armi, ma rendere gli uffici della pietà e della umanità.

Però si può asserire che non vi fu guerra in cui queste leggi umanitarie non siano state infrante. Anche nella guerra mondiale la storia deve ricordare parecchie di queste infrazioni: diverse sono le accuse palleggiate fra i contendenti, e sarà certo difficile accertare quale dei due belligeranti ne sia maggiormente in colpa. Per conto mio posso dire che ho veduto troppo spesso il nemico spandere la sua rabbia di fuoco anche contro gli infermi e pietosi feriti.

La mattina del 29 Aprile 1917, fui destato da un insolito parlottare che avveniva nella prossima cabina telefonica. Compresi tosto di che si trattava: nelle ultime ore della notte un posto avanzato era stato circondato e catturato di sorpresa dal nemico. Il ridottino, detto La Duemilatredici dalla sua altimetria, era situato sovra la Sella del Tonale, gettato troppo arditamente presso le trincee nemiche che distavano di qualche chilometro dalle nostre: vi si poteva accedere solo nel buio della notte, percorrendo un lungo sentiero sulla neve, parallelo e scoperto per lungo tratto alla trincea avversaria.

/107/ Quando io giunsi a quel punto della nostra linea, di dove si usciva sul predetto sentiero, s’udivano le grida dei feriti che dal luogo del combattimento imploravano soccorso: ma non era possibile correre in loro aiuto, perchè il nemico bersagliava incessantemente chiunque s’arrischiava di tentare la traversata.

Eppure urgeva portare il soccorso immediatamente: la vita di qualche ferito è condizionata alla prontezza della cura.

Fatto audace dalla necessità, lego il mio fazzoletto alla punta d’un alto bastone, e agitandolo verso il nemico, come bandiera di pace, m’incammino di corsa sul sentiero scoperto. Ad eccezione di qualche fucilata che non m’intimidì, non udii altri colpi nemici. Avevano compreso, i signori austriaci, il mio compito sacro? O non piuttosto credettero che io corressi ad arrendermi?

Il luogo del disastro portava tutte le tracce d’un combattimento atroce: fra la neve smossa e chiazzata di sangue, fra armi, munizioni e cartucce, vi erano morti e feriti, appena sovvenuti da pochi camerati.

Baciai colle lacrime la salma ancor tiepida del tenente Longo, colpito alla gola da una bomba a mano, mentre affrontava il nemico sulla soglia del ridottino.

Qualche giorno prima all’ultimo momento della partenza per la trincea, il bravo ufficiale, presagendo un sinistro mi aveva parlato accoratamente della moglie e dei suoi teneri figlioletti!

Un grido di speranza accolse il mio arrivo. Facciamo le prime medicazioni, e poi, formate con fucili e paletti tre barelle per i feriti che reclamano immediato trasporto, usciamo sul sentiero del ritorno. Il do- /108/ loroso convoglio era composto esclusivamente dei feriti, di sei portatori, e del cappellano che camminava avanti portando la bianca bandiera. Appena gli austriaci osservarono il movimento, dalla soprastante cresta delle Alpi Paiole, iniziarono un fuoco di fucileria che ci accompagnò per più di un’ora e rese sommamente difficile il pericoloso viaggio. Ripetutamente rivolto verso quei crudeli, io alzavo la mia bandiera, agitandola e accennando alle barelle, dolorosa conseguenza della loro triste vittoria: ma essi rispondevano con raffiche più nutrite di pallottole, che ci fischiavano e miagolavano intorno.

Dovemmo scostarci dal sentiero troppo battuto e fare la strada a tratti frettolosi, cercando qualche sasso, dietro cui riparare. Il sole di mezzogiorno ammolliva le nevi che cedevano improvvisamente sotto ai piedi, facendo barcollare ed inciampare i portatori, e strappando, dalle carni lacere e dalle ossa spezzate dei feriti, grida di dolore esasperato. Al tenente Ricci, già ferito mortalmente, questo strapazzo fu fatale: morì poco dopo! Il tenente Scano, giovane sardo, ribollente di vita e di bontà, ebbe a soffrirne una vera agonia, e mi fece temere che chiudesse gli occhi prima di giungere alla trincea.

Gli austriaci continuavano a sparare. Quella ferocia non ebbe fine che dopo un paio d’ore, quando cioè ci fummo rapiti allo sguardo del selvaggio nemico.

Io comprendo che l’accanimento inevitabile della mischia possa togliere il lume degli occhi e far velo anche al cuore: ma il fatto d’un cappellano, bersagliato freddamente ed ostinatamente, mentre alla luce del sole reclama pietà per i suoi feriti, vittime della com- /109/ piuta vittoria del nemico, mi pare assolutamente inamissibile, senza supporre un cuore di iena in quei disgraziati.

Da quelle stesse posizioni nemiche delle Alpi Paiole e dei Monticelli, qualche mese dopo, partiva un altro fuoco non meno sacrilego.

Uno degli ultimi mattini del Settembre (1917), parecchie granate incendiarie crivellarono il sottoposto paese di Ponte di Legno, che sin dal principio della guerra era stato da noi completamente evacuato, affine di non offrire al nemico, con qualche obiettivo militare, l’occasione di una dolorosa distruzione.

Mentre il paese intero ardeva, i novelli Neroni, dall’alto dei loro osservatori, guardavano la vorticosa fiammata che lingueggiava sui casolari, e con frequenti shrapnels tenevano lontano gli alpigiani, accorsi dai prossimi rifugi per fermare la distruzione delle loro case o per salvare qualche piccolo tesoro nascosto. Borghesi, uomini e donne dai capelli sciolti, si buttavano a terra in ginocchio e giungevano le mani verso il nemico con grida disperate: ma nulla valsero le loro preghiere sulla fredda e ostinata rabbia di lui. Anzi, nei giorni susseguenti, i nostri avvamposti ci fecero avere dei fogli pieni di volgari insulti rinvenuti fra i reticolati. Il cappellano, con l’approvazione di tutti gli ufficiali della linea, propose che in luogo di altre pericolose risposte, si inviasse al cappellano degli Austriaci la seguente lettera:

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Caro Collega,

Mi sia lecito rivolgermi a te, come ad un caro fratello, per farti noto il profondo disgusto dell’animo mio.

Se qualche valore ha presso i tuoi duci il sacerdote di Gesù Cristo, cerca di consigliare loro quella pietà che non manca neppure alle belve. Perchè avete incendiato il paese di Ponte di Legno, in cui sapevate non esistere alcun obiettivo militare? La guerra ha delle leggi di umanità che non possono venire violate: altrimenti non si è più uomini, ma fiere.

Perdona a queste mie semplici ed evangeliche parole e vedi di illuminare le anime e d’indurle a cristiana penitenza.

Il tuo fratello in Cristo
R. M. Giuliani O. P.
Cappellano delle truppe Italiane

Alla sera fra le tenebre e la nebbia andammo a portare il documento, scritto in lingua latina, e racchiuso in una bottiglia, alla posta austriaca; cioè davanti ai reticolati nemici. Giunse a destinazione? Ebbe buona accoglienza? non lo so: ma io conservai a lungo la speranza che questo scritto rappresentasse qualche cosa di meglio d’un simpatico gioco.

«È vero che gli arditi ammazzavano tutti i prigionieri che cadevano nelle loro mani?» mi si chiede /111/ spesso da coloro che con meraviglia apprendono che io fui cappellano delle fiamme nere.

Posso assicurare che la ferocia dei miei cari assaltatori non giunse mai a rendere sistematica questa inumana pratica. Però io stesso dovetti assistere a certe scene provocate, è vero, da più barbara azione nemica, ma sempre dolorose e da evitarsi: ogni qual volta mi fu possibile, intervenni per domare i bassi istinti di vendetta e far rispettare i santi diritti dell’umanità, anche nel più fitto della mischia.

Nessuno più che il cappellano ha ricordato con maggior insistenza, alla giovinezza impetuosa di quelle schiere, i principii di gentilezza e di carità cristiana dovuta al nemico. Durante le azioni, negli agguati, negli a corpo a corpo, nelle rese violente, la persona sacra del sacerdote ha fatto scudo al nemico vinto: e molti avversari dovrebbero baciare quella mano consacrata che ha concesso loro di vivere.

Durante una giornata di estrema violenza, ho potuto rendere questo servigio a parecchi vinti; e il Tenente Paolo Petani del mio undicesimo battaglione di assalto, ragazzo impetuoso ed audace, potè darmi con ironia gentile, ma a piena ragione, il titolo, di cui oggi più che mai posso gloriarmi santamente in Cristo, di protettore degli Austriaci.

Le violenze del nemico parvero talvolta stancare ogni più buona intenzione e rendere quasi necessarie le rappresaglie. Quando, ai primi di novembre del millenovecentodiciotto, l’esercito Austriaco già ripiegava in rotta disperata, e un nostro reparto d’assalto gli mordeva le calcagna, il nemico, per una intiera notte presso Meduna di Livenza, fece scoccare dalle sue mitraglia- /112/ trici, pallottole esplosive. Fu la prima volta, in tutta la guerra, che io vidi il terribile proiettile uscire dalla mitragliatrice. (1) Due soli dei nostri furono toccati da quelle pallottole, e tutti e due morirono fra spasimi atroci, colle carni orribilmente lacerate. Constatai allora tutta la bruttura della inutile crudeltà.

Gli arditi che avevano assistito all’agonia dei due amati compagni, si passarono una terribile parola: grido di vendetta, proposito di rappresaglia, ai loro occhi giusta e necessaria: «Neppure uno salvo.» E quando furono al di là del fiume, quanti ne acciuffarono, tanti provarono la lama dei loro pugnali. Erano anche incitati dal furore popolare dei contadini del paese di Meduna, che dopo un anno di oppressione, sentivano, per la prima volta, di poter finalmente alzare la testa contro l’invasore.

Io ebbi assai da brigare, per calmare quella sete di vendetta, ed ottenere pietà.

Mentre stavo col Comandante del Battaglione ed alcuni Ufficiali a godere l’ospitalità offertaci da una buona persona, entrò in quella casa un ardito traendosi dietro un giovanissimo prigioniero. Egli si volse /113/ al Capitano: «Signor Cappitano, chistu dice di esser uno Rumeno: nun saccio se debba ammazzarlo.» (1)

Il Capitano fece avanzare il prigioniero, gli tolse il piastrino di riconoscimento e lo passò a me, affinchè verificassi se quegli era veramente Rumeno. Tutti gli sguardi erano rivolti su di me. Constatai immediatamente che quegli era invece un magiaro autentico, di quelli ricercati dalla cupida vendetta degli arditi. Il timore di esporre quel meschino alla morte e la proibizione assoluta di mentire impostami dalla coscienza cristiana, tennero un istante sospeso il mio animo. Ma mentre stavo cercando le parole che mi salvassero da ambedue i guai, forse sul mio viso trapelò l’orribile incertezza: e l’ardito che, col suo sguardo scintillante della sagacia meridionale, aveva capito tutto, senza far motto riprese con gesto energico la sua preda e si avviò verso la porta.

Un coro di voci discordi si levò dai presenti: alcuni gridavano: «Ammazzalo!»; altri «No, no! poveretto!»

Io scattai e lo rincorsi: l’ardito, giunto sull’aia, aveva già isolato l’infelice magiaro dalla piccola folla accorsa e già gli aveva puntato contro il moschetto. Ebbi appena il tempo di gettarmi avanti alla vittima, e colle mani alzate gridai imperiosamente: — «Questo lo salvo io!» — L’ardito lasciò cadere con grande rincrescimento il moschetto... ma poi ricevette la mia dolce ammonizione.

Così una vita fu aggiunta a quelle strappate per l’onera sacerdotale, dalle zanne infauste della guerra.

/Nota a p. 106/

(1) La convenzione di Ginevra, iniziatasi nel 1864, fu perfezionata nel 1906 e integrata coll’istituzione della Croce Rossa Internazionale. Torna al testo ↑

/Nota a p. 112/

(1) Le pallottole esplosive o dumdum, così dette dal paese dell’India dove si fabbricarono per la prima volta dagli Inglesi, per mettere più facilmente fuori di combattimento i selvaggi resistentissimi al dolore fisico, furono proibite dalla Conferenza dell’Aia, il 29 Luglio 1899.

La pallottola esplosiva non ha solo lo scopo di rendere innocuo il nemico, ma è quasi sempre mortifera. Dove tocca, scoppia come una piccola granata, dilaniando le carni e spezzando le ossa. Gli Austriaci ottenevano lo stesso effetto incidendo leggermente la punta di un proiettile normale di fucile: onde i nostri visitavano le giberne dei prigionieri e quando scoprivano incisioni nelle pallottole potevano passarli per le armi, secondo le istruzioni emanate dal Comando Supremo, sin dal Luglio del 1916. Torna al testo ↑

/Nota a p. 113/

(1) I rumeni, essendo la loro nazione alleata con l’intesa, venivano sempre considerati come amici dai nostri soldati. Molti prigionieri, di altre nazionalità, si dicevano rumeni per godere di questo privilegio.Torna al testo ↑