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Capitolo XII.

Bestemmie, superstizioni e Massoneria.

Il titolo del presente capitolo avrà fatto comprendere al lettore benevolo che l’autore di questo libro, raccogliendo con scrupolosa cura i fiori di virtù spuntati fra le rovine della guerra, non ha punto nutrito l’intendimento artificioso di nascondere i fatti meno edificanti, i vizi brutali, che possono sembrare contrari alla sua tesi generale. La gloria di Dio non ha bisogno dei nostri meschini sotterfugi, delle nostre reticenze; essa canta con ritmo infallibile, e sovra il bene e sovra il male, le strofe del suo poema: le più perverse mire umane le danno una tonalità originale, ma non possono far sì che in qualche modo vi sia nell’universo una nota sola che non renda omaggio a qualche virtù di Dio.

Analizzando le azioni sconsigliate dell’empio, si osserva che quasi sempre il peccato commesso contro Dio, torna pure di svantaggio morale e anche materiale a chi lo commette e alla società che lo tollera.

La lingua italiana, che è il più portentoso strumento che Iddio concesse ad un popolo per manifestare le fi- /115/ nezze delicate del sentimento umano, si è adattata, con manifesta ingratitudine, ad esprimere le bestemmie più frequenti e più insolenti. Non v’è popolo che più bestemmi dell’italiano: è una triste osservazione fatta da lungo tempo, e che fu constatata quasi quotidianamente dal nostro cristiano risentimento, durante tutta la guerra. Nella vita militare, la banale invettiva è una generale abitudine, triste eredità delle caserme, ove le nostre reclute, invece di una educazione che mettesse in rilievo i valori morali, ricevevano blasfeme lezioni dalla volgare parlatura di uomini che, benchè elevati in grado, si mantenevano ostinatamente grossolani, empi e privi di ogni rispetto. Piuttostochè la gentilezza tradizionale della antica cavalleria, regnò a lungo nel nostro esercito varia volgarità: onde il soldato veniva rotto alla bestemmia, peggio del facchino di strada.

Dalle caserme la brutta abitudine passò al campo, e noi la sentimmo nel bivacco e nella trincea, nell’attesa e nell’assalto, sulle labbra del generale e del fante infangato, come intercalare di placide conversazioni e come un’eruzione biliosa, tra le risa sonore di scherzi e di gioia e tra le grida di dolore dei feriti e i rantoli di qualche incosciente moribondo.

I vari dialetti della penisola le han dato espressioni e accenti originali: v’è la bestemmia ordinaria, invariata del piemontese; quella banale del lombardo; quella contro la Madonna, dei veneti; la ereticale e variabilissima del toscano; la oscena del meridionale: è tutta una volgare litania, brutta come il peccato mortale.

Dna notte, stando con una nostra pattuglia, accosciati presso i reticolati nemici, udimmo un fruscio tra /116/ le erbe, come di qualcuno, che accortamente si avvicinasse a noi. «Un nemico?» ci domandiamo sotto voce. Si sta sospesi, trattenendo il respiro; i miei uomini tengono le armi puntate... Ma ecco che quell’ombra che si avvicina mormora in pretto veneto una tradizionale bestemmia. «Xe italian, xe italian, statene certi,» mi dice all’orecchio il tenente, con una risatina mal repressa.

Bisogna però soggiungere che la maggior parte di queste parole ingiuriose a Dio e ai Santi, non sono pronunciate con l’intendimento offensivo della parola stessa, considerata nel suo senso obbiettivo. Il vescovo da campo, cui confidai il mio disgusto e l’impotenza di riparare a tali peccati, mi fece osservare assai a proposito che molte di queste irreligiose invettive non sono peccati gravi nell’anima di chi le pronuncia, poichè non vengono profferite coll’avvertenza, nè coll’intenzione di offendere il Signore: piuttosto che veri peccati, sono modi di dire detestabili ed incivili.

Il nostro zelo non si è stancato di dimostrare la sconvenienza della triste abitudine, che disonora l’uomo e lo fa bersagliare coi castighi della terra e dell’inferno: in quasi tutte le prediche domenicali o si trattava direttamente, o si aveva qualche accenno a questo tema che ci pareva dotato, ognor più, di triste attualità.

Quando si coglieva sul labbro la brutta imprecazione, tornava conveniente una caritatevole correzione. Ma quale correzione poteva riuscire efficace contro il viziacelo, che nella riflessione era detestato da coloro stessi che ne erano inconsciamente presi?

/117/ Il P. Egidio Maccanti, (1) che in tutta la brigata Alpi godeva grande ascendente, usò un rigore originale contro i valentissimi bestemmiatori della sua Toscana: e con quelle punizioni che da nessun altro che da lui i soldati potevano accettare, ne guarì qualcuno.

Però il metodo ordinario della correzione era una buona parola.

— Perchè, caro, insulti in tal modo il Signore?

— Ah, scusi, signor cappellano, rispondeva arrossendo il giovanotto colto sul fatto. Non sapevo che c’era lei.

— Importa poco che abbia sentito io; ma è il Signore che sente e vede in ogni luogo; che dirà delle tue parole offensive?!

— Io non intendo mica di offendere il Signore!

— Lo so, ma vedi che è sconveniente e scandaloso profferire tali bestemmie. Forse che ti permetti di sporcare anche il nome solo della tua madre? —

Un giorno, al posto di medicazione reggimentale, un ferito che stava sotto i ferri del chirurgo, invocava la Vergine e i Santi con una fede da patriarca; ma se il dolore si acuiva, repentinamente, fra mezzo alle giaculatorie, dalla bocca dell’impaziente uscivano i più brutti moccoli. Il medico e gli inservienti che gli stavano attorno non potevano frenare le risa saporite per quella strana mescolanza di giaculatorie e di bestemmie.

/118/ Ma non era certo un fatto semplicemente ridicolo che i nostri soldati andassero incontro ai gravi pericoli di morte profferendo delle bestemmie; fossero pure queste peccati materiali. Onde non s’indisse più santa crociata di quella che si propose di combattere l’abitudine sacrilega, incivile e ridicola della bestemmia.

Quando il sentimento religioso, che è germe spontaneo e indistruttibile in ogni cuore, non può fiorire nella pratiche razionali e sante del culto cattolico, si palesa in manifestazioni goffe, in credenze strane che vanno sotto il nome di superstizioni. Una vendetta naturale, tristemente infallibile, rende ridicolmente superstiziosi anche quegli spiriti che si vantano di essere tanto forti, da non aver più bisogno di religione alcuna.

La terra quando non fu soggetta all’aratro, nè al passo misurato del seminatore, si copre del vello tenacissimo di gramigne e di ortiche: così l’anima, non tocca dall’apostolo di Cristo, si sbizzarrisce in inutili e ridicole pratiche superstiziose.

Non è forse la deficenza di fede illuminata, che diffuse fra i combattenti la fiducia cieca di incolumità in certi oggetti, per esempio, nel ferro di cavallo? Sulle entrate delle caverne, sulle porte dei ricoveri, sulle tabelle che servivano d’insegna agli alti comandi stava appeso l’irrugginito amuleto. Ne vidi uno di sproporzionata grandezza, che evidentemente era stato costruito apposta per proteggere qualche gran feticista. Passando sotto a quell’arnese appeso ad un piccolo chio- /119/ do mormorai tra di me: «Che, per somma fortuna, non mi abbia a cadere sulla testa! che mi accopperebbe!»

Durante un’avanzata sul Piave, vidi il ferro prodigioso attaccato all’architrave d’una baracca austriaca colta in pieno da un nostro obice: e mi sarebbe certo spuntato sul labbro il più saporoso sorriso, per la moderna idiozia religiosa del mondo intero, se non avessi scoperto fra le macerie, i corpi esanimi dei disgraziati austriaci che avevano riposto fiducia nell’amuleto.

Se con una sola fiamma si accendeva il sigaro in tre, si credeva che il più giovane fosse destinato alla morte: onde, quando si volevano accendere tre sigari si doveva necessariamente consumare due cerini, con evidente guadagno, non del più giovane, ma del venditore di fiammiferi.

Se, in qualsiasi adunanza, si scopriva di trovarsi nel numero di tredici, il numero fatale terrorizzava, profetando non so quale imminente catastrofe.

Un cappellano di marina entrò nel quadrato della sua nave, dove già una dozzina di ufficiali consumavan la noia fra le carte e le chiacchere. Uno dei presenti contò e ricontò con terrore i convenuti, e facendo un cenno di grande scongiuro, esclamò:

— Perdinci, siamo in tredici! —

Il cappellano proseguì di botto: — Siamo in tredici? perderemo la guerra; certamente perderemo la guerra; ma non per effetto magico del numero tredici (che è innocente come tutti gli altri!) ma per l’imbecillità di chi trema a queste càbale. —

La vittoria nostra fu frutto di umano lavoro, non merito certamente di queste menti isteriche.

/120/ Vigeva pure la credenza che qualche persona possedesse inconsciamente la virtù malefica di attirare le sventure su di chi l’avvicinava. Il povero jettatore (così viene detto il disgraziato) è conosciuto da lungi e viene fuggito come la peste: al suo apparire, compagni superiori e inferiori, un po’ ridendo, un po’ sul serio, si squagliano: il solo nominarlo, anche in sua assenza, provoca grida di protesta e fa ricorrere al tocca-ferro e ai più triviali scongiuri.

In alcune di queste manifestazioni, la nostra società mi parve tanto sciocca, da essere tentato di giudicarla inferiore alle tribù delle jungle: tanto ridicolo diventa chi abbandona la serietà del culto predicato dalla Chiesa Cattolica.

Una forma di superstizione più diffusa fra la rozza truppa, consisteva nel trattare alla stregua degli amuleti, l’immagine dei santi, le medagliette sacre, attribuendo una grande virtù protettiva, non ai santi da quelle effigiati, ma unicamente alla carta o al metallo della loro effigie. V’erano inoltre parecchi che, pur invocando devotamente i santi con fervidi preghiere, passato il pericolo ed ottenuta la grazia, non ricordavano più, nè Dio, nè santi, nè Madonna e, come si diceva, passata la festa, gabbato lo santo.

Un fantaccino, estraendo dal portafogli l’immagine della Madonna di Pompei, di S. Antonio, di S. Gennaro, di S. Gerardo Maiella, con un sorriso di piena soddisfazione, mi diceva: «Tengo li santi chiù ca- /121/ morristi du paradiso»; e avendogli io spiegato come non fosse quello un epiteto da applicarsi ai celesti protettori, punto convinto dalle mie dichiarazioni, il napoletano rimise nel panciotto il portafogli mormorando: «Fanno du bene a me: e ce revedremo in trincera».

Un medico calabrese, col quale passai parecchi giorni di aspro combattimento, sotto i feroci bombardamenti pareva diventato un frate certosino: non voleva far altro che recitare rosarii, anche nelle poche ore di riposo notturno. Ad ogni scoppio prossimo, mi chiamava, dicendo: «Capellà, diciamo u’ rusariu». Ma quando, sceso al riposo, rividi il dottore più libertino del solito, gli ricordai le preghiere e le promesse della trincea. Ma egli mi rispose: «Allora era tempo di pregare, come ora di divertirsi».

Quanto è più bella e più pura la vera divozione cristiana che a Dio e ai suoi Santi offre un culto immacolato di sincerità e di spirito.

Sull’esercito, come su tutte le istituzioni statali, la massoneria aveva steso le sue forti radici. Molto si è detto sulle finalità della viscida setta: ma è certo che essa, sempre e dappertutto, si è sforzata di crollare le fondamenta dell’edificio cattolico; ed anche in guerra vigilò e tese tutti i fili per il suo losco fine. Potremmo citare il divieto, ottenuto colle sue arti, a parecchie pubbliche manifestazioni di fede, e possiamo ancora /122/ asserire che molti affigliati alle congreghe si provarono ad ostacolare l’opera dei cappellani militari. Ma v’è da fare un’altra osservazione, in favore della quale sono certamente pronte a deporre tutte le coscienze serene.

Normalmente si ascrive alla massoneria chi non ha il coraggio di esporsi alle oneste competizioni della vita, sotto il gran sole comune che prova il vero valore. I deboli di testa, di coscienza e di cuore, quelli che non hanno grandi risorse personali e proprie e che gonfiano tutte queste vacuità con immenso desiderio egoistico di far strada e di competere coi migliori, si nascondono nella luce opaca del sole fittizio del Grande Oriente, e cogli appoggi della vasta camorra, riescono ad arrampicarsi. Molte delle alte ramificazioni dell’esercito, prima della guerra, erano occupate da queste civette.

Ma la immoralità sociale della camorra massonica apparve chiarissima appena dichiarata la guerra, quando l’esercito si accorse di avere negli alti gradi troppa gente inetta, troppi generali fatti non dal merito personale, ma dalla massoneria. Nè, liquidati i primi con coraggiosi siluri, il male ebbe termine: la setta ne teneva preparati altri e non tutti degni: ma essa non vagliava il valore personale: aveva solo riguardo della appartenenza più o meno antica, più o meno viva, alle sue logge. Quante tresche nelle promozioni, nei quadri di avanzamento! E questi uomini che avevano venduta la propria coscienza per avere una spinta negli avanzamenti, con ugual leggerezza spremevano poi il sangue del gregge per tingere in rosso i loro grandi galloni! Il trionfo della ingiustizia non poteva essere più patente!

/123/ Minori, sebbene non trascurabili danni, la massoneria arrecò nei gradi inferiori dell’esercito. Quando due fratelli si trovavano e dandosi la mano si riconoscevano alla convenzionale puntata dell’indice destro nella palma del compagno, formavano subito una cricchetta che poteva riuscire dannosa a compagni e superiori, specialmente allorchè riuscivano a rintracciare qualche gran venerabile nella gerarchia militare. Si videro delle ingiustizie commesse dalla piccola camorra massonica, che rivoltarono l’animo di tutti gli onesti.

Servano queste testimonianze, universalmente riconosciute, a dimostrare che non può arrecare alcun bene chi si propone di combattere la Santa Chiesa; e diano animo a tutti i buoni per rivolgere i conati comuni a schiacciare finalmente la testa dell’idra massonica.

/Nota a p. 117/

(1) Il P. Egidio Maccanti O. P. del convento di S. Marco di Firenze, dove sarà perpetuamente ricordato da una lapide apposta dai fanti e dagli ufficiali della sua brigata, cadde eroicamente in Francia il 18 Settembre 1918. Torna al testo ↑