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Capitolo XIII.

I vizi principali del trincerista.

Tra i vizi morali che nella guerra hanno assunto dolorose caratteristiche, va per primo annoverato il desiderio sfrenato di onori e di gloria.

Quasi tutti i vizi in guerra si colorirono di rosso, rosso sangue, poichè aiutarono l’opera di distruzione e di morte. Ma, mentre gli altri peccati portavano verso la morte solamente coloro che li commettevano, quello di cui prendo a parlare ora, la superbia, ha incrudelito ferocemente anche sulle vite altrui ed ha seminato le più barbare stragi cui abbiamo assistito.

Il comandante dominato dalla passione di raggiungere gli alti gradi della gerarchia militare, metteva in opera tutti i mezzi per mostrare di saper fare qualche cosa; veniva preso dalla mania di fare delle azioni.

Ma fare un’azione voleva dire mandare degli uomini al macello, e mandarne tanto più quanto più vasto era il campo di combattimento e più aspro l’obiettivo. Non tutte le innumerevoli azioni furono imposte dalla necessità o dalla volontà dei comandi supremi. Ricordiamo parecchi combattimenti infruttuosi e dolorosissimi, promossi dal cieco orgoglio di qualche vani- /125/ toso e squilibrato comandante subalterno. Ma che importava a lui della vita dei suoi soldati? Prepararsi un buon rapporto informativo, avvalorare la propria bravura presso i comandi superiori: ecco il solo sentimento a cui rispondeva il suo cuore, se pure aveva un cuore. Altre volte era il terrore della rimozione dal servizio, la paura del siluro, come dicevano i fanti, oppure il solo desiderio di una medaglietta, che lo rendeva vigliaccamente feroce. Dovetti vederne più d’una di queste bestie gallonate.

Ci eravamo battuti, perdendo il fiore di un battaglione, in folli e ripetuti assalti contro un ridottino nemico, irto di ferro spinato e di mitragliatrici indomabili. Le dichiarazioni del comandante sulla irreducibilità del nemico non erano valse a far comprendere al signor Generale l’inutilità di nuovi tentativi: il rapportino ufficiale dei nostri morti e dei feriti innumerevoli non aveva commosso quel cuore di pietra. I pochi superstiti stavano, sfiduciati, nella flagellata trincea di partenza; e mentre prevedevano nuovi e più crudeli ordini, mi pregarono di portarmi personalmente dal generale a dimostrargli le dolorose conseguenze di qualsiasi ulteriore ordine di attacco.

Mi portai alla caverna, in fondo alla quale stava perpetuamente appiattata la fiera. Il generale sedeva al tavolino, davanti ad una gran carta, e stava spiccando nervosamente nuovi ordini più recisi e pieni di minacce vergognose per l’ufficiale subalterno, al quale, in verità, quel signore, non era neppur degno /126/ di baciare i piedi. Avendo notato la mia presenza, e intuito per qual motivo io ero venuto, rilesse a voce alta quanto aveva dettato e poi lo fece consegnare al portaordini. Si rivolse quindi a me e mi volle dimostrare ancora una volta, sulla sua carta topografica, che l’azione doveva necessariamente riuscire... riuscire ad ogni costo... Prevenne quelle che egli stimava mie obbiezioni, mi diluviò di un mare di parole, ed ebbe di più la bonaria ispirazione di rivelarmi, quasi in confidenza, che la vittoria era necessaria perchè quell’azione era stata proposta e studiata da lui stesso.

Contro i miei argomenti, dedotti non dalla carta, ma dalle insormontabili difficoltà reali del terreno, invocò la testimonianza di un suo aiutante, un imberbe ufficialetto che mi parve anche lui in attesa di una medaglietta al valore, spremuta dal nostro sangue. Costui diceva di aver esplorato egli stesso il terreno, di aver visto bene come fosse predisposta la difesa nemica... ma in realtà noi che eravamo da parecchio tempo in quella infernale posizione, non avevamo mai visto l’ombra di quel prode damerino: forse egli aveva osservato tutto... dalla lontana feritoia di un osservatorio blindato.

Il generale mi troncò poi la parola in bocca e mi congedò, incaricandomi di portare i suoi saluti in trincea! Era un’ironia!? Dovetti far violenza al mio cuore per trattenermi dal rinfacciare a quel nuovo Nerone, il sangue caldo dei miei morti e quello dei morituri!

Il culto del dìo Bacco ebbe grandi devoti in tutte le sfere ilei l’esercito.

/127/ Non certo il vino fornito dalle sussistenze militari era materia alle volgari crapule dei fanti, poichè le riduzioni legali e illegali, le sottrazioni camorristiche a cui lo sottoponevano le diverse mani per cui passava, lo facevano pervenire al fante in misura e qualità assai limitata.

Le meschine risorse della cinquina, i vaglia postali inviati, spesso non senza sacrificio, dalle famiglie lontane, venivano versati in un sol getto, al vivandiere del reggimento e cambiati in vino.

Il dolce liquore è una grave tentazione che spinge quegli uomini a soffocare nella ebbrezza i crucci della trincea: i bicchieri si vuotano d’un fiato, nervosamente: bevendo, l’arsura e la sete anzichè spegnersi, si fan più vive, e così i fanti diventano allegri, e più che allegri.

Non sempre il vino è buono! L’alcool è il satana ispiratore di tutti i crimini. Nelle prigioni trovai raramente chi non dovesse all’ebbrezza la mancanza o il delitto che l’aveva tratto là dentro. Ed è da notarsi che il codice militare, tentando appunto di sopprimere il principal fomite di delitti, non riconosce come attenuante lo stato di ubriachezza in cui può venir commesso il reato. Ma nè questa, nè altre misure valsero a far cessare il disastroso abuso dell’alcool.

Sommamente deleteria era l’ubriachezza procurata ad arte nell’istante dell’assalto. I comandi provvedevano al fante od all’ardito qualche goccia di cognac o di altro liquore, affinchè una piccola dose del sottile veleno aiutasse il coraggio e accendesse nelle vene quel fuoco di violenza che a molti faceva difetto. E poichè alcuni rifiutavano il beveraggio, e altri ancora ne venivano defraudati dalla solita camorra, quelli che ne /128/ amministravano la distribuzione potevano colmare le loro tazze della potente bevanda; con quali tristi effetti, lo sa chi, nella maggior parte dei combattimenti vide cadere sotto i colpi nemici uomini a cui l’ubriachezza aveva tolto la facoltà di ripararsi lestamente o di difendersi, e altri che, non tocchi dal ferro, ma realmente avvelenati dall’alcool, venivano immobilizzati nelle barelle che erano sempre scarse al soccorso di quelli che erano caduti con miglior onore. Questa dolorosa esperienza rafforza il vecchio proverbio che dice ucciderne più la gola che la spada.

Qualche volta il triste esempio della crapula veniva dall’alto.

Allorchè speciali condizioni di tempo e di luoghi tenevano sospeso, anche per breve tempo, il rigore delle ostilità nemiche, pullulava immediatamente, in qualche mensa di ufficiali, l’uso di volgari bagordi, coronati sempre da sbornie favolose. Mettevan pietà quelle scene di gioventù che avvizziva e infracidiva nello champagne e nel Wisky, sino a ruzzolare sotto le mense.

Non raramente si conoscevano ufficiali superiori attraverso alle derisioni e alle canzonature comuni, persino degli ultimi gregari di truppa; il vino li rendeva così universalmente disprezzabili. Vivevano in continuo stato d’ebbrezza; e perciò diventavano incapaci di giudicare e di corrispondere a quelle responsabilità che gravavano su di loro, pel bene del paese e per la vita dei loro dipendenti. I siluramenti dati più a proposito dal comando supremo dell’esercito furono quelli che colpirono queste botti fracide, che, nel vino, avevano annegato il dovere e molti altri buoni sentimenti.

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Più universale e più sfacciata di ogni altro vizio si mostrò in guerra la corruzione.

Il sangue bollente della più forte gioventù, la convivenza comune sulla quale non vigilava alcuna assistenza morale, le teorie perverse professate da molti igienisti laici, ci spiegano il fatto doloroso.

Il turpiloquio suonava colla stessa frequenza della bestemmia. Una sola persona poteva impedirlo: il Cappellano, per rispetto al quale, in sua presenza le bocche oscene si chiudevano. Spesso la conversazione tra il cappellano e gli ufficiali cadeva sul tema della moralità con discussioni intorno ai diversi criteri coi quali la religione e il mondo giudicano il male: ma le dispute, anche le più benigne e illuminate, poco scuotevano quelle anime, troppo schiave della passione, per poterla francamente condannare. Forse l’esempio vivente della illibatezza di costumi aveva maggiore influenza, sul loro cuore corrotto, di tutte le dimostrazioni razionali.

Non tutti entrarono nella vita militare col cuore corrotto: v’erano ancora dei fiori che conservavano il candore e il profumo verginale del giglio. Giovani cresciute nelle remote campagne, o negli orti chiusi del seminario e del convento, o, veri miracoli della Provvidenza, sorti dal fango della suburra di corrotte città, avevano portato nella caserma un cuore immacolato: e là non erano stati guasti dall’affrettato noviziato della milizia. Al fronte, nelle trincee della morte, tacevano /130/ gli incanti del mondo corruttore; ma, quando le truppe scendevano al riposo, trovavano tutta una rete di corruzione pronta a raccoglierli. Le città delle retrovie divennero presto focolai di impurità, tabernacoli del male, scogli proditoriamente coperti dagli inviti ingannatori delle sirene. Si credeva di divertire la gioventù, e di farle dimenticare i giorni e le notti amare della trincea, e i pericoli futuri. Quale inganno! e quali disastri, e quali sacrifici si consumarono sovra gli infami altari di Venere impudica!

Molta gioventù incauta abboccò all’amo: dapprima timorosamente, poi arditamente e quindi, quasi disperatamente. Anche i gigli più candidi caddero nel fango: pochi, pochi assai continuarono a vincere se stessi e il mondo. L’anima digiuna dei Sacramenti, chiusa alle sacre idealità cristiane, lontana dalle dolci ammonizioni materne, senza guida e conforto, era tocca dal cattivo esempio, dall’invito di un camerata, dal motteggio o da un sorriso... e il male vi apriva una breccia. La bufera troncò tanti fiori... la loro caduta, inosservata e silenziosa, come il ripiegarsi del calice d’un giglio sulla terra, portava in realtà una tragica distruzione, che gonfiava di dolore il cuore dell’apostolo, di un dolore più grave di quello arrecato da qualunque violenta effusione di sangue.

Si può asserire, senza tema di errare, che il vizio impuro ha estratto dalle vene della nostra gioventù più sangue che il ferro nemico. Non ostante che buona parte delle colpevoli malattie venissero curate in trincea, i reparti degli ospedali ne erano sempre affollati. Ma ogni ammonizione umana fu impotente /131/ a frenare queste vite, che si incalzavano con incosciente violenza verso la morte, come i giovani puledri correnti pazzamente verso la roccia contro cui si sfracellano

Una sol cura valeva a preservare e risanare da questa passione, e a conservare tante balde giovinezze alla patria e al mondo: il balsamo di purezza che sgorga dalle sorgenti fresche dei santi sacramenti.

Il desiderio della roba altrui, il peccato di furto, non ebbe dalla guerra nè un carattere speciale, nè grande sviluppo.

Si comprende facilmente come i criminali ordinari, devoti al dio Mercurio, non abbiano tralasciato, neppure sul campo di battaglia, di compiere i loro sacrifizi: che anzi parevano in qualche modo legalizzati dal diritto alla spoglia, che ogni combattente ha sempre vantato. Ma era, per lo meno, assai compassionevole, che persone di alto grado spedissero a casa gli utensili e i mobili delle ville requisite! Nè era bello rinvenire morti e talvolta anche dei feriti, italiani e austriaci, abbandonati colle tasche rovesciate, per lo spoglio che avevano già subito.

Questi delitti da sciacallo, perpetrati anche dai nostri, mettevano raccapriccio. Però quando conoscemmo i ladroneggi e i saccheggi che le soldatesche nemiche avevano eseguito nell’invasione del Veneto, in verità, ci parvero poca cosa i furti dei nostri criminali.

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Per compiere il quadro dei delitti originali di guerra, devo aggiungere poche parole su quello che nelle mie chiaccherate militari, solevo definire: «l’arte di derubarsi a vicenda, da buoni amici, ossia, il furto legalizzato.»

Parlo di quel brutto vizio che è il gioco d’azzardo.

I nostri aspirantelli, i sottotenentini di diciotto anni, che sino allora erano stati buoni figli di famiglia, contenti della mancia festiva del padre, divennero di tratto possessori delle belle quindicine degli stipendi militari. Che farne di tanto danaro in condizioni di non avere nè grandi spese, nè grandi allettativi di divertimento? Certi furbi sfruttatori, giocatori di professione o quasi, ladri in guanti gialli, bari e truffatori, impiantarono al fronte le bische, per ingoiarsi lo stipendio dei colleghi e spennacchiare i pollastrelli, come dicevano essi. Nelle mense degli ufficiali, dei sott’ufficiali, nelle baracche della truppa, nei ridottini e nelle trincee, nei campi di riposo e negli accantonamenti, si vedevano i soliti gruppetti accoccolati attorno alle carte, affannati a strapparsi i panni di dosso. V’era chi effettuava grossi guadagni, e chi, per contro, grosse perdite. In una sera, un giovane tenente vinse cinquantamila lire.

Una febbre maligna non poteva aderire alle ossa maggiormente della passione che bruciava certi giocatori: in alcune mense si giocava dalla mattina alla sera e dalla sera al mattino, ed erano sempre gli stessi contendenti, collo sguardo fisso sulle carte aperte a /133/ ventaglio nella mano. Non si conosceva riposo; si giocava sempre, persino durante i pasti.

Chi veniva preso da questa febbre non aveva nè tempo, nè mente per i suoi doveri, nè per l’assistenza alla truppa, nè per la vigilanza della linea. Un capitano, nel prendere le consegne della trincea in cui venivano ad appostarsi le sue truppe, non s’era neppur portato, come era prescritto, a visitare la linea, preoccupato unicamente di gettarsi alla tavola della sua caverna colle carte in mano. E così passò una notte e una giornata, perdendo tutto, anche l’orologio e l’ultimo anello d’oro, e anche quanto gli avrebbe dovuto esser più prezioso, cioè il suo onore; poichè al principio della seconda notte, gli Austriaci con un’azione di sorpresa gli portarono via un intero plotone, senza che egli se ne accorgesse.... Il capitano era preoccupato unicamente del gioco, che gli andava male!!!

Le autorità superiori, riconosciuti i danni enormi apportati dal gioco d’azzardo, lo proibirono ripetutamente: fecero sopraluoghi, sequestrarono carte e denari. Ma la cattiva pianta aveva messo radici più lunghe della buona volontà dei suoi estirpatori. Conobbi due ufficiali elegantissimi, che, allo scopo di continuare senza disturbi il terribile gioco, stettero chiusi per delle giornate in una non troppo elegante latrina... Tanto la passione tiranneggia colui che le si abbandona.

Dallo sguardo fuggitivo gettato sulle piaghe che la diversa concupiscenza, emulando e vincendo il più fe- /134/ roce nemico, aprì sui nostri soldati, si comprende quale sia il valore e la potenza di quella legge santa di umiltà, di mortificazione, di purezza e di giustizia che sola predica efficacemente la virtù.

Ai vanti che già possiede la morale cristiana, si è aggiunto un nuovo argomento, che dimostra come solo le sue regole diano la vera virtù, e quell’ombra di felicità che può vedersi in terra. Voglia Iddio che la voce che parla severamente dagli abissi di miserie morali dell’umanità combattente, diventi lo squillo di santi allarmi e di rinnovellate vittorie morali.