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Capitolo XIV.

Stimoli morali.

Émile Verhaeren (1855 - 1916) poeta belga della scuola simbolista Le cœur humain s’y composait / D’une neuve substance / Et le prodige y grandissait / Chaque existence Il poeta belga Emilio Verhaeren, nelle liriche intitolate: Les ailes rouges de la guerre, descrivendo il martirio delle sue belle città fiamminghe sotto l’urto tremendo degli eserciti invasori, dice che nei combattimenti sostenuti dai piccoli difensori: «il cuore umano si rifaceva e, come per prodigio, ogni anima si ingrandiva». (1)

Tale rinnovamento di cuori, tale ingrandimento di anime servì di ritornello scintillante a tutte le canzoni patriottiche, composte durante la guerra e per la guerra; ma ora che le imposizioni della propaganda nazionalista sono finite, noi ci dobbiamo domandare se questa forza miglioratrice fosse sogno di poeta, oppure una limpida obbiettività di fatti. Quanto ho scritto nei precedenti capitoli, dimostra che le pratiche sanguinose dell’assalto hanno inasprito degli spiriti, sviluppandovi precocemente i bacilli di malattie morali: ma bisogna esser giusti, e riconoscere che, per altri rispetti, la /136/ guerra poteva diventare una vera palestra di virtù. Abbiamo narrato i martirii rassegnati e superbi, le agonie e le morti colla fronte serena e il labbro benedicente di parecchi di questi eroici giovani, doloranti e raggianti sui campi aperti. Non solo il sangue filante per le ferite, ma anche quello spremuto nei sudori rassegnati e mal ricompensati, e quello che pulsò alle commozioni educatrici, è testimonio delle abitudini buone e della forza morale che andò via via generandosi nell’animo di molti combattenti.

La guerra, nel passato era libera corsa, scalpitare di cavalli, sventolìo di bandiere, fanfare e rullo di tamburi; ai nostri giorni, invece, fu una guerra di attese dolorose e mute, e sopratutto una guerra da talpe, perchè tutta impigliata nei camminamenti, nelle trincee, nei ricoveri scavati nella madre terra. La vanghetta ed il piccone divennero strumenti di guerra, come la spada, il fucile e la bomba. Il giorno e la notte, il sereno e la pioggia, non hanno mai visto tanta ininterrotta lena: lavoro di ogni genere, di sterro e di fabbricazione, piegò continuamente il dorso e i muscoli dei combattenti. In trincea, l’istinto naturale della propria conservazione spingeva il fante a costruirsi un solido ricovero: nelle retrovie si attendeva a tutti i diversi preparativi. La fatica più grave della zona di operazione fu quella che nel gergo militare veniva detta la corvée. Quasi ogni sera le truppe che si dicevano a riposo (forse per ironia!), partivano dagli ultimi depo- /137/ siti, portando viveri, materiali bellici e andavano, in fila indiana, per ore ed ore ed anche in faticosissime salite. Le corvées dell’altissima montagna hanno formato il più grave supplizio per le truppe destinate a quei presidi. Il peso gravava sulle spalle: il sentiero di ghiaccio si arrampicava ripido e stretto, fiancheggiato dall’abisso che di tanto in tanto ingoiava qualche compagno; le raffiche di tormenta, torbida di nevischio, strozzavano il respiro in gola e accecavano. Vidi uno di quei disgraziati, spossato da tutte queste avversità, che piangeva e diceva: «Meglio era che fossi morto sul Carso: là almeno poteva colpirmi una morte istantanea!»

Un inferno valeva l’altro!

Era sempre ammirabile la virtù lavoratrice del buon popolo. La sua docilità, la sua pazienza, il suo silenzio, assorsero talvolta a vero eroismo, che trasformava gli infernali campi in calvari, nei quali le croci non erano solo piantate sulle fosse dei morti, ma venivano pure portate sul dorso piagato del popolo martire.

E questo esercizio durò per quattro lunghi anni. Sin dai primi giorni della guerra il fante, tergendosi il sudore, si domandava: «Quando finirà la guerra? quando deporremo lo zaino, e non si farà più la corvée, e non si andrà più al macello?» Ma intanto continuava docilmente la dolorosa via crucis, senza perdere il coraggio, senza lasciare morire quell’umorismo che gli fioriva perpetuamente sul labbro, testificando l’interna tranquillità. Se è vero ciò che il proverbio dice, che /138/ l’ozio è il padre di tutti i vizi, non bisogna forse credere che il lavoro sia il padre di tutte le virtù? Il sangue che lavora, difficilmente ristagna o si corrompe. Le esuberanze della gioventù che son solite diventar malvage quando stanno nell’ozio, non trovano nè il tempo nè la forza per fare il male quando sono impiegate in una sana occupazione.

Così, fra tanti danni, la guerra ha potuto offrire agli uomini di buona volontà un mezzo acconcio a riconquistare quel prezioso tesoro, che è la virtù.

Altra dolce necessità di bene venne presentata al soldato dal contatto colla natura.

Mai forse si visse in una vicinanza così immediata e continua colle grandi forze, cogli spettacoli meravigliosi, colle risorse e coi tormenti che formano le grandi lezioni, in cui S. Bernardo diceva trovarsi insegnamenti migliori che in qualsiasi libro scritto da penna umana. L’anima non può sentire delle voci più divine di quelle che la mano stessa di Dio trae dalle corde della natura. La virtù non può avere una scuola di maggior tempra di quella che le viene fornita dagli insegnamenti del creato; il sangue umano non può avere un rigeneratore più igienico dell’aria leggera, aromatica, ossigenata e fresca delle vette alpine.

La maggior parte del fronte italiano si stendeva sulle Alpi, onde quasi tutti i reggimenti si avvicendarono nelle trincee di alta montagna. Le rocce audaci che s’alzano sopra i tremila metri e paiono sfidare il cielo, /139/ insofferenti che piede umano le tocchi, le balze che sono sfiorate dalle penne dell’aquila superba, furono domate gloriosamente dalla tenace gagliardia degli alpini o di quei fanti umili, che a nessuno si mostrarono per valore inferiori, nè tra le pantanaie di Monfalcone, nè sulle più alte vette. Le baite solitarie che erano solite albergare due mesi all’anno i nomadi pastori, i rifugi alpini che le nostre asssociazioni sportive avevano preparato per gli allegri gitanti, sono diventati i migliori palazzi nel centro di quei villaggi di baracche che sorsero a sfidare la tormenta in compagnia delle erode dolomitiche.

Chi nella luce diafana del sole di agosto, per sentieri da camosci, ascendeva nell’aria leggera dei tremila metri, si riempiva di meraviglia nel trovarsi dinnanzi, accovacciata fra le vette, una vera cittadina interamente fabbricata dai militari, colle vie regolari, quantunque sospese sull’abisso, colle officine e la cantina del vivandiere, e la piazza su cui sorgeva la chiesuola e il campanile, il piccolo campanile di legno che suscitava nell’anima degli ingenui soldati ricordi e visioni di cara nostalgia.

Non sempre il soldato si godette la beatitudine di queste meschine comodità. Spesso le esigenze tattiche richiesero affluenza tale di truppe cui non bastavano i precarii baraccamenti: e allora si ricorse alla tenda. Questa mobile masserizia, che formava un giorno il bagaglio dei patriarchi risolse ogni problema di edilizia militare. Ognuno però comprende quanto freschi si stesse tra queste pareti di tela, ondeggianti alla tormenta e piantate alle volte sulle nevi o sul ghiaccio eterno!

/140/ Onde la casa migliore pareva talvolta quella che il soldato stesso si è scavato nel suolo, e che gli serviva da trincea e da ricovero, dove si stava come le fiere nelle tane.

In compenso, sui monti si godeva l’aria più pura e i panorami più meravigliosi che la natura offra. Noi che avevamo letto qualche pagina sparsa del gran libro della natura, nelle liete ma brevi escursioni, non avevamo assaggiato il fascino e la potenza educatrice che emana da un contatto più continuo colla madre nostra, la terra. Il segno di divina perfezione che ella porta costantemente impresso nei multiformi suoi aspetti, parla altamente alla semplice intelligenza del buon soldatino, come all’intelligenza dotta dell’ufficiale. La maestà delle rupi ergentesi al cielo come baluardi ciclopici, i laghetti azzurri, come occhi di fata, le raffiche di brezze aromatiche che vaporano dalle selve, le nubi e le nebbie che si stendono e si ritirano nella policromia della madreperla, toccano l’anima e le parlano come solo sanno parlare le opere che sono eco diretta della voce creatrice di Dio.

Ma la parola più educatrice della montagna risuona quando tutta si incappuccia come leggendaria fata nell’ermellino delle nevi invernali. Nei primi giorni del settembre la neve sfiora tutte le vette e imbianca le brune baracche e scende, a poco a poco, sino alle più basse valli. Un tempo ella era la graziosa inseguitrice del pastore, che davanti a lei fuggiva vinto, abbandonandole passo per passo i già verdi pascoli estivi: invece il nostro soldato non si dava vinto, e benchè le sue baracche rimanessero seppellite interamente sotto /141/ il bianco elemento, egli rimaneva là a scavarsi nuove trincee di neve e a sfidare le tormente più aspre e i geli più rigidi.

Chi mai avrebbe potuto supporre che i figli della dolce Italia, tutta lieta di fiori e di tepide brezze, potessero diventare gli abitatori degli immensi deserti di neve e di ghiaccio? Pareva quello un eroismo possibile solo a quei cenobiti che per carità verso del prossimo si uccidono nel clima polare del San Bernardo. Eppure i figli delle terre infocate del Vesuvio e dell’Etna, questi giovanetti che un giorno si tappavano in casa, raffreddati e febbricitanti per una occasionale nevicata, sono rimasti a sfidare le tempeste più orribili che la terra conosca sull’immenso pianoro di ghiaccio eterno, sulle creste altissime, ove pareva venisse soppresso dal rigore della stagione ogni palpito di vita.

Nella parlatura militare, folta assai di gerghi esotici, ricorreva tuttavia spesso una delle più belle e più terribili parole del nostro linguaggio: il dovere!

Nelle caserme questa parola, ripetuta fino alla profanazione, poteva fermarsi, senza efficacia, alla dura epidermide delle spensierate reclute: ma in trincea, le fatiche e i rischi che in nome di essa piombavano sul povero soldato, la facevano assai facilmente affondare nelle coscienze. È vero che gli abituati alla disciplina militare, seria ma niente affatto spirituale, ne profonda, davano il peso di una semplice responsabiltà burocra- /142/ tica al dovere; ma la gioventù, ammollita nelle vanità e nelle scioperaggini, si ridestava al primo suono di quel nome, e ne sentiva un’eco nuova, come voce di risurrezione, rispondere dalle profondità dell’anima.

Erano veramente ammirabili certi fanciulloni di diciotto e diciannove anni appena, che in trincea acquistavano una serietà prematura e una scrupolosità che non reggeva a confronti. Insuperabile pareva la vigilanza e la diligenza di qualche sottotenente sbarbatello, cui erano affidate mansioni più importanti di quelle di un generale: studenti del primo anno al politecnico, si atteggiavano ad ingegneri e disegnavano e dirigevano, meglio di un laureato, lavori di difesa e di protezione: guerrieri, compivano atti di sommo valore e di astuzia e di prudenza, che fruttavano decorazioni ai grandi ufficiali, e a loro l’ambita ricompensa della coscienza.

Anche tra gli uomini di truppa conobbi anime che parevano un monumento vivo del dovere, quando perpetuamente, e di giorno e di notte, e nella calma e sotto il fuoco intenso, rimanevano ferme al pari di statue, col petto e lo sguardo rivolti al nemico. Oh, la dedizione serena e incrollabile delle vedette vigilanti per tutta la interminabile catena di trincee, delle vedette che non si ritiravano, se non cadendo sotto il ferro nemico! Una di queste sentinelle avanzate, succeduta a parecchi morti, mi disse: «Compio anch’io il mio dovere!» Tanto è facile aprire le sorgenti della virtù nella generosa anima popolare e farle nobilmente sentire il valore morale e spirituale di cui essa è capace.

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È impossibile rendere buona la propria vita, senza avere l’abitudine alla rinuncia della volontà personale e degli appetiti delle passioni. La virtù è dedizione e austerità e non può abitare nè con l’orgoglio, nè in una carne infrollita e cadente. L’educazione moderna è inetta a creare la virtù negli spiriti, appunto perchè è tutta sdolcinature e carezze.

Ma la vita del fronte fu una negazione perfetta di tutte le mollezze della nostra società. S’iniziava colla rinuncia alla volontà propria. La gioventù abituata a tutte le sfrenate licenze, a seguire selvaggiamente gli istinti delle basse passioni, di tratto, come fiera caduta nelle mani del domatore, veniva arrestata dalla coscrizione militare, rinchiusa nelle uggiose caserme, vestita di uniforme, e spedita, nell’età delle speranze, verso il regno della morte. Siamo ben lontani dall’approvare le anomalie di molti metodi: ma intanto constatiamo che da queste dure e talvolta crudeli severità, i nostri giovani potevano essere indotti a salutare correzione.

Al fronte non si viveva: si era mossi come strumenti nelle mani dell’artigiano, come piccoli pezzi di una colossale macchina d’acciaio. Il respiro stesso ci veniva misurato dai calcoli freddi del nemico e anche dei nostri capi, nelle cui mani stavano le sorti della nostra vita. Niente succedeva per libera elezione, ma tutto era esecuzione di ordini altrui.

Addio, letti soffici di piume sprimacciate dalle pie mani di amorose mammine!: la nuda terra, il fango, i /144/ sassi, o per sommo lusso, una manciata di fieno ci serve di giaciglio.

L’eterna gavetta di brodo, pasta e riso, e riso pasta e brodo ha preso il posto delle vivande profumate, a cui osava un giorno fare le smorfie il nostro stanco appetito. La sete, in alcune zone carsiche, non si spenge che con acque stagnanti o scoli a cui, senza lo stimolo tremendo dell’arsura, si avrebbe schifo di appressare il piede, nonchè le labbra.

L’attillatura dei vestiti, i profumi e le pomate dei damerini, ahimè, sono scomparse, lasciando subentrare il belletto del fango viscido che tinge da capo a piedi, e certi tormenti personali da cui non v’è scampo.

Tale esagerate imposizioni, tali privazioni, bastavano da sole a persuadere che la piccola austerità richiesta dalla virtù è ancora possibile. Approfittarono molti della grande lezione?

Ad ogni modo è giovevole constatare che fra mezzo alle rovine materiali e morali della guerra, qualche fiore vi poteva ancor trovare gli alimenti naturali e che la virtù, anche nei cattivi, lasciò qualche ombra di sè, quasi felice punto vulnerabile, pel quale la grazia di Dio potrà aprirsi una breccia.

/Nota a p. 135/

(1) E. Verhaeren, Les ailes rouges de la guerreCeux de Liege. (Mercure de France, èdit.) Torna al testo ↑