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Capitolo XV.

«Impendam et superimpendar.»

2Cor 12:15 Ego autem libentissime impendam, et super impendar ipse pro animabus vestris : licet plus vos diligens, minus diligar Nella seconda lettera scritta da san Paolo ai fedeli della città di Corinto per difendere il suo ministero dalle accuse di maligni avversari, l’Apostolo erompe in questa forte dichiarazione: «Volentierissimo per le anime vostre spenderò tutto e spenderò me stesso: impendam et superimpendar.» Non vi fu apostolo che abbia potuto fare, con maggior verità, una tale asserzione: fatiche innumerevoli, viaggi, peripezie e la morte stessa provarono evidentemente la carità che gli fiammeggiava nell’anima.

L’esempio del maestro dell’apostolato cristiano deve commuovere il sacerdote cattolico, e fargli esclamare collo stesso trasporto e colla stessa sincerità: Impendam et superimpendar! Solo chi è punto dalla sete ardente della salute delle anime, sino al desiderio della propria immolazione, è degno del nome di apostolo.

La guerra apriva un campo nuovo alle ardenti e intelligenti mire dell’apostolato; onde, pur conservando tutta l’avversione cristiana per questo gioco sanguinoso di losche cupidigie, parecchi sacerdoti scesero in campo con un fervore di bene che li fece ammirevoli ai cre- /146/ denti e agli increduli. Non erano agitati da spasimo patologico di romantiche avventure o da energumeno patriottismo, ma venivano attratti dal desiderio puro ed ardente di dilatare nei cuori il regno di Dio, di aprire le porte del paradiso ai morenti, e di mostrare al mondo contemporaneo che la carità predicata dal sacerdote non è una bella formola cristallizzata, trasmessa da vecchi maestri sonnecchianti sulle cattedre millenarie, ma una forza sempre viva, una sorgente perenne di virtù e di beneficenza eroica, sconosciuta al mondo. (1)

Sul teatro tragico del combattimento, dove la civiltà falliva e la vita perdeva le maschere e gli inganni, e la gioventù stessa era di continuo minacciata dagli spettri della morte e della disperazione, poteva solo brillare l’unico sole che non tramonta mai, la fede cristiana.

Ma per apportare e rendere accettabile la grazia del Signore a questo popolo di combattenti, tradito dalle umane speranze, bisognava andarlo a cercare sul luogo del suo martirio, mostrarsi e affratellarsi a lui quando tutto lo abbandonava, e condividere i suoi dolori e affrontare al suo fianco la morte. Questa carità di fatti e non di parole, spontanea e non stilizzata in pratiche convenzionali, eroica e non misurata, è la forza che convinse meglio assai delle più penetranti argomentazioni , ed aprì largamente la via alla redenzione divina.

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Cercare, conoscere le anime era il primo desiderio e la prima causa del martirio del sacerdote destinato all’assistenza spirituale dei combattenti.

Poche sono oggi le anime educate e conservate nel giardino della Chiesa, come pochi sono i fiori coltivati nelle aiuole domestiche, in paragone della flora silvestre di cui la generosa mano del Creatore ricopre le zolle e le roccie. Innumerevoli sono le pecorelle smarrite. Chi non ha viscere di carità di vero pastore, viene tentato di irrigidirsi in un gesto di perpetua maledizione nel comodo ovile, ove sono rimaste solo le reliquie del gregge cristiano: ma colui che non è sordo al gemito del divin Maestro: «Ho altre pecorelle che sono fuori dell’ovile e sono mie, e bisogna portarle a me,» (1) prova una compassione stringente di questo popolo abbandonato ai pascoli venefici, ed è martoriato dalla voluttà irrefrenabile di guidarlo all’ovile. Per le anime smarrite il Redentore ha sborsato il prezzo inestimabile del suo sangue: anime più infelici che perverse, più cieche che ostinate, più traviate che irreducibili per natura e per sola colpa propria. La prima ragione dei loro traviamenti va oggi ricercata nella famiglia e nella scuola dove la coscienza infantile intristisce, soffocata dai miasmi della corruzione. Cresciuta senza convinzioni etiche, senza ideali cristiani, la gioventù aveva afferrato con ambo le mani il calice d’oro del piacere, /148/ tracannandone il beveraggio, quando la colse la diana di guerra.

Così venne trascinata nella corrente violenta di sangue, dove noi tendevamo con la miglior fortuna le reti apostoliche.

Bastava conoscerli questi cuori di vent’anni per aprire fiduciosamente le braccia.

Nella giovinezza nulla è radicato, niente è profondo, neppure il male: e poi quante buone risorse vi sono, anche fra mezzo al vano rigoglio del vizio! Quale latente potenzialità di soprannaturale in queste vigorose nature!

Uno sguardo alla sfuggita, un colpo d’occhio complessivo, gettato prima della guerra sulla gioventù sciamante all’uscita dei licei o delle officine, ci aveva dato una stretta al cuore: in una cognizione superficiale tutte le nostre speranze cadevano. Ma quando fummo chiamati a curare e confortare questi spiriti sul campo, una comunicazione intima con essi ci aprì il cuore alla speranza, e spesso ci lasciò umiliati dalla rivelazione di bellezze morali inaspettate.

Non era possibile che un cappellano militare, al quale era affidata la cura spirituale di quattro o cinque mila uomini potesse avvicinarli tutti e spesso; l’insufficenza a conoscerli tutti formava uno dei nostri crucci quotidiani.

I soldati distinguevano il cappellano, non tanto dalla croce di panno rosso che egli portava sul petto, sopra /149/ la divisa di ufficiale, quanto dal sorriso paterno che il sacerdozio accende in viso ai veri apostoli. Quando ci scorgevano da lungi, se non erano inquadrati, quei buoni figlioli ci correvano attorno, ci salutavano, non con la rigidità dell’attenti, ma colla luminosità del volto, con parole di soddisfazione, che meravigliarono chi per la prima volta assisteva a quegli incontri.

Ho già parlato altrove delle visite fatte dal cappellano alle trincee: basti ricordare che le anime si aprivano e ricevevano i santi sacramenti, sopratutto nei brevi colloqui tenuti all’avvicinarsi dei pericoli supremi.

La vita del cappellano era una peregrinazione continua in cerca di anime: lunghe rampicate ansimanti per le trincee montane, corse e indugi formavano la nostra occupazione quotidiana. Bisognava cercarle sempre queste anime, essere sempre pronti a riceverle, di giorno e di notte. L’anormalità stessa delle occupazioni belliche, che si avvicendavano di continuo e sotto il sole e nelle tenebre, richiedevano pure una vigilanza ininterrotta da parte del cappellano: il soldato sapeva che, in qualsiasi ora bussasse a quella porta, veniva sempre accolto come un figlio, fosse pure un figliol prodigo.

Un solo pensiero, una sola cura dominava le nostre preoccupazioni e ci struggeva: il ricondurre le anime a Dio. Quando finalmente riuscivamo ad afferrarne qualcuna, la consolazione nostra superava quella che ci avrebbe potuto dare il rinvenimento di qualunque tesoro.

Le anime, da tutti trascurate e quasi negate nelle pratiche banali della guerra, svalutate a tal segno che /150/ vi fu tra i comandanti chi stimò superfluo il ministero del cappellano, il solo che le curasse, le anime mostravano a noi la loro faccia, aprivano su di noi i loro occhi assetati di luce e di affetto. Nessuna loro macchia ci ha atterrito, perchè avevamo fiducia nella potenza redentrice di Dio e sapevamo anzi che le pecorelle smarrite devono formare l’oggetto delle brame ardenti del vero pastore.

La forza del nostro apostolato, dopo la grazia di Dio, fu l’amore potente di cui eravamo accesi per i nostri cari soldati. Non era possibile conoscerli, come noi li conoscevamo, senza amarli calorosamente. Il nostro affetto molto valeva ad attirarci i cuori, perchè poteva dimostrarsi coll’argomento più significativo che vi abbia, col sacrificio.

Il sacerdote, destinato all’assistenza spirituale dei combattenti, doveva immediatamente offrire a Dio la vita in olocausto per le sue pecorelle, poichè spesso tornava impossibile compire i doveri essenziali del proprio ministero senza esporsi al pericolo di morte. Se poi tutta l’anima sua s’infiammava alla vera carità evangelica, che spinge ad esporre volentieri la propria vita per i fratelli, allora non v’era mattino in cui il sacerdote non si domandasse: «Potrò giungere a vedere la sera?»

Non eravamo chiusi in una passiva rassegnazione, come chi è convinto che bisognava pur sottomettersi al supremo supplizio; ma una virtù celeste ci faceva /151/ sopportare la nostra sorte con una pace ed una soddisfazione che ci rendeva meravigliati di noi stessi.

Non erano certo estranee alla conservazione di questa pace, le consolazioni che ci venivano dal laborioso e pericoloso ministero. La riconoscenza dei nostri soldati non aveva limiti: v’era tra il nostro e il loro cuore una corrispondenza di affetto e di gentilezza che commuoveva.

«Cappellano, si fermi, non venga più avanti, che v’è troppo pericolo,» dicevano affettuosamente gli arditi destinati alle pattuglie di punta, ove maggiore era il pericolo e quindi più necessaria l’opera del sacerdote.

«Finchè sto presso di lei, non ho paura di nulla, neanche della morte,» esclamava un soldatino che trovandosi disperso in una pericolosissima manovra, s’era messo al mio seguito, come l’ombra del mio corpo.

Durante un terribile combattimento, accorrendo a soccorrere un ferito di cui sentivamo il forte lamento, vedevo le pallottole d’una mitragliatrice nemica che si conficcavano nella terra fra l’uno e l’altro mio piede. Appena scorsi il disgraziato steso sul suolo, mi buttai al suo fianco, riparando la testa dietro lo stesso sasso: e quegli prima ancora di riconoscermi, esclamò: «Dammi un baso; tu sei il mio salvatore!» Lo soccorsi alla meglio, e poi lo riportai, collo stesso pericolo, al primo posto di medicazione.

E le cartoline che ci inviarono dagli ospedali, dalle licenze e che ancor conserviamo come la più dolce testimonianza di conforti incomparabili! Una dice: «È la prima cartolina che scrivo dall’ospedale, ma è dovuta a lei che mi salvò». Un’altra: «Ricordo con affetto chi nell’ora del pericolo e della lontananza della famiglia, /152/ mi confortò con parola ed affetto di padre.» Una terza: «Lei non si ricorderà certo di me, ma io che sono stato salvato da Lei, non lo dimenticherò più.» Una quarta: «Presto tornerò al reggimento, per lei sopratutto.»

Un giovane ufficiale presentava il suo cappellano alla famiglia, scrivendo: «È mio amico e consigliere; a lui devo, se, in faccia al nemico, la mia coscienza è tranquilla.»

La riconoscenza di questi cari giovani, come la bontà del loro bel cuore, non aveva limiti. Mi pare conveniente aggiungere a queste spontanee testimonianze una originale poesia, scritta nel 1916, in vernacolo romano, dal sergente di una sezione mitraglieri:

Er cappellano

De quanti uomini ch’ò veduto,

De quanti preti abbia bazzicato,

Nessuno ancora io n’ho conosciuto

Come er nostro bono, affezionato.

Sto prete ch’è de quelli de cartello,

Lo trovi dove più ferve la lotta,

Tratta er soldato meio d’un fratello;

Ma poi basta a ditte: È una persona dotta.

Er posto suo è là tra li soldati,

Te parla coll’istruito e cor tarpano,

Cerca de persuadette i più ’ndurati

Co la gran scenza der domenicano.

Ogni sordato qui der reggimento

Ne dice sempre bene a sprofusione,

L’hanno visto sempre avanti nder cimento

Tra li fucili e er rombo der cannone.

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Er petto ci ha fregiato der nastrino

De riccompensa per un valoroso,

E l’ha preso no mica pè destino,

Perchè se mostrò proprio coraggioso.

Figurate che er nemico venne avanti

Pe rubacce a noi na’ posizione;

In parte ce riuscì, po’ a tutti quanti

De botto ie toccò a pià er fugone.

Ner mezzo a quella lotta e parapia,

Dritto tra li morti e li feriti,

Tra mezza ar fuoco de fucileria

Trattando tutti quanti come amichi,

C’era sto prete che co Cristo ’n mano

Fasciava le ferite alli sordati.

Oppure accanto a un morto ’n ginocchiato

Diceva l’orazione ai trapassati.

Pe questo fu proposto alla medaia

Che s’era meritato co decoro:

Ma ognuno dice, e certo no se sbaia,

Che no de bronzo, ie ce voleva d’oro.

Te conosce quasi tutti i commitati,

Ma de quelli proprio sopraffini,

E gni tanto lo vedi coi sordati

Ie dà vestiti, maie e pedalini.

E nun conosce mica i più vicini,

Li conosce ’n Inghilterra e ’n po’ più in là:

Figurate che in un par de pedalini

C’era scritto: Misse Guigganne - Canadà.

E qui è terminato er mi lavoro:

E invito dar sordato al capitano,

Strillanno forte tutti quanti in coro:

Evviva er valoroso cappellano.

/154/ Quanto fresca ed ingenua brillò la riconoscenza di quelle anime verso chi le confortava, le compativa, le aiutava, le salvava negli estremi pericoli, senza mira di umane ricompense, col solo intendimento di fare del bene!

Il vero frutto della riconoscenza, data all’opera eroica del sacerdote, era il ritorno delle anime a Dio.

Tutte le nostre opere, tutti i nostri sacrifici dovevano avvalorare il nostro ministero spirituale. Dinnanzi alla evidente dimostrazione della carità evangelica, cadevano le prevenzioni nutrite contro il prete e la Chiesa, e appariva chiaramente che solo una fede verace poteva animare una missione densa di atti eroici. Un militare che aveva cercato a lungo il cappellano, gli disse: «Vengo per confessarmi: sono anni che non mi confesso, ma sono stato convertito da lei, quando là, in quella dolina ella andò a prendere un ferito, sotto il tiro della mitraglia austriaca.»

In mezzo alle grandi consolazioni del ministero sacerdotale non mancavano le pene causate dalla mancanza degli effetti che ci ripromettevamo dalla nostra opera.

La banalità di certi ambienti ci scoraggiava: le opposizioni subdole di qualche settario ci procuravano dei profondi disgusti. Morti improvvise, che ci lasciavano mille timori circa la sorte di quelle anime, o il fallimento di qualche santo tranello teso per farvi cadere una preda lungamente desiderata, formavano un mar- /155/ tirio che non conobbe l’uguale. Io non ho mai ricevuto il rifiuto di un morente per l’amministrazione degli ultimi sacramenti, ma la conquista di qualche anima costò delle ansie insuperabili. L’indicibile dolore che la vista di certe stragi repentine ci gettava in cuore allorchè non si era potuto giungere in tempo per dare l’ultima assoluzione, veniva superato dalla inquietudine spasmodica delle domande che ci balzavano in cuore, come ripetute trafitture di fredda lama: «E delle anime, che sarà avvenuto? Ve ne è forse qualcuna piombata or ora nelle mani della tremenda giustizia di Dio? Ho fatto io ogni sforzo per evitare queste catastrofi eterne? Non sono stato degno di arrivare in tempo per amministrare gli ultimi sacramenti?»

Lacrime amare e cocenti, come quelle della madre che ha perso il figlio, rilavano furtivamente dai nostri occhi, o venivano versate in secreto nei brevi istanti di riposo, fra le pietre delle doline carsiche!

Non ci mancarono, per la grazia di Dio, i consolatori. Gesù ci parlava sempre dalla croce o dalla piccola custodia eucaristica in cui lo tenevamo racchiuso sul nostro cuore, nelle giornate più combattive. Preziosissime ci tornavano le calde esortazioni del nostro amatissimo vescovo di campo, Monsignor Angelo Bartolomasi vedi → nota cap. 6 → Don Michelangelo Rubino Padre Giovanni Semeria vedi → nota cap. 2 Mons. Bartolomasi, angelo per tutti i militari, ma specialmente per i suoi cappellani. Ci sollevava da ogni pena una visita di lui, o del suo coadiutore, Don Michelangelo Rubino, vero figlio del venerabile Don Bosco per l’agilità apostolica che lo portò attraverso a tutte le fronti, a consolare, a consigliare, a provvedere. Un convegno di sacerdoti, illuminato dalla parola lucida del Padre Semeria, altro /156/ infaticabile apostolo del clero militarizzato, ci rasserenava l’anima e l’apriva a nuove speranze.

Le commozioni più varie e più intense si avvicendavano in continua ridda nel nostro cuore, e l’esaltavano a gioie tanto più alte quanto più profondi erano stati i dolori.

Mai come nel ministero di guerra l’apostolo ha constatato che l’opera dell’uomo non vale nulla, se Iddio non dà l’incremento: cento vittorie inaspettate hanno confermato questa verità che fu proclamata da San Paolo stesso. Ma il Padre dei cieli che non permette che l’umanità venga martoriata senza scopo, sulle petraie sconvolte dal fuoco e dal ferro faceva tranquillamente maturare bella ed abbondante messe di anime, che falciava e trasportava nella sua casa celeste.

/Nota a p. 146/

(1) Si disse che se S. Paolo vivesse nel nostro tempo farebbe il giornalista: io credo che con non meno originale ipotesi si può affermare che se il grande apostolo fosse vissuto durante la guerra mondiale, avrebbe fatto il cappellano militare: per farsi tutto a tutti e tutti guadagnare a Cristo. Torna al testo ↑

/Nota a p. 147/

(1) S. Giov., X, 16. Torna al testo ↑

Nota del Curatore

Don Michelangelo Rubino (1869 - 1946), salesiano, fu direttore dell'oratorio a Trieste, della scuola italiana di Smirne, di Porto Said e del Cairo. Fu cappellano militare, poi ispettore capo dei cappellani militari, capo dei cappellani della MVSN con il grado di console generale, e in questa veste partecipò alla guerra di Spagna. Torna al testo ↑