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Capo VI.
Due mesi a Kartùm.
1. La casa della Missione cattolica. — 2. Visita al Governatore. — 3. Manifesto al P. Pedemonte il mio segreto. — 4. Visita del Governatore. — 5. Conoscenza di un Bey ex-Ministro. — 6. Conferenze con questo Bey. — 7. Il concetto di Dio e della morale nel mussulmano. — 8. Giudizio sugli eretici e sui protestanti. — 9. Educazione mussulmana. — 10. Difficoltà di emendazione. — 11. Il tributo alle febbri. — 12. Vittime del clima di Kartùm. — 13. La Missione dell’Africa Centrale. — 14. Mia relazione a Roma. — 15. I primi sbagli. — 16. Predominio della colonia sulla Missione. — 17. Il Console austriaco causa di maggiori mali. — 18. Raggiri e danni. — 19. Un invito inaspettato. — 20. Sontuosità del pranzo. — 21. Altri scandali e fine di questo Console. — 22. Prossimo arrivo dì Knoblecher. — 23. Indole del Governatore. — 24. Sono riconosciuto da Fatàlla.
Quella Missione era tenuta dai Padri della Compagnia di Gesù, i quali in Kartùm abitavano una casa, forse la più bella, dopo quella del Pascià Governatore, quantunque a pian terreno, e fabbricata a terra battuta. Il P. Pedemonte, nativo di Napoli, era un vecchio venerando, con lunga barba, che gli scendeva sino alla cintura, e della quale si pavoneggiava, principalmente quando la metteva a confronto della mia, che nel viaggio di S. Antonio aveva dovuto accorciare, per trasformarmi in Giorgio Bartorelli. Egli mi presentò al P. Zara, Superiore della casa, molto più giovane di lui ed assai garbato. Come Superiore, sembrava che tutto si facesse da lui; ma, conoscendo io un poco gli usi della Compagnia, mi accorsi tosto che il P. Pedemonte era uno di quei vecchi sperimentati, che i Superiori maggiori sogliono collocare in ciascuna casa, per servire come di bussola al buon andamento di essa, e che, senza apparire di fare qualche cosa, sono i motori e la guida di tutto. Rinnovai pertanto /61/ a voce la preghiera che, se la mia persona non avesse loro recato alcun disturbo, sarebbe stato mio desiderio essere ospitato in casa loro, soddisfacendo, s’intende, ogni interesse; e quei buoni Padri avendo con molto piacere acconsentito, non pensai più ad altro.
2. Col P. Pedemonte e con Mardrùs mi recai verso sera a far visita al Governatore Latìf Pascià, che era riputato come il Vicerè del Sudan. Appena fu annunziato il mio nome, il Governatore venne a ricevermi alla porta del Divano, ed introdottomi nella sala, mi fece sedere alla sua destra. Essendo io vestito all’araba e molto semplicemente, il P. Pedemonte. e Mardrùs rimasero meravigliati nel vedermi accolto con tanto onore; e più, quando il Governatore mi disse che avea ricevuto ordine dal Governo di darmi alloggio e danaro, quanto ne avessi chiesto. La guida di Bèrber era pur là che sentiva, e forse pensava alle impertinenze fattemi dal suo Modìr. Trattenutici alquanto in discorsi di pura convenienza, finalmente presi commiato, venendo egli ad accompagnarmi sino alla porta del gran cortile. Questo ricevimento, così onorifico, destò la meraviglia e la curiosità in tutta la colonia europea di Kartùm; ed ognuno si domandava: — Chi è costui? — Molti inoltre, e forse anche il Governatore, non avendo avuto altre notizie rispetto alla mia persona ed allo scopo del mio viaggio, sospettavano che fossi una spia del Governo.
3. La sera si cenò con tutta confidenza, ed a tavola, volendomisi usare riguardi e particolarità, pregai quei buoni Religiosi di mettere da parte qualunque cerimonia, e trattarmi invece come se fossi un di loro. Ritiratomi poscia nella stanza assegnatami, dissi al P. Pedemonte che desiderava confessarmi, e che quindi avesse la compiacenza di venire dopo alquanti minuti nella mia camera. Fatta quindi la mia Confessione, e manifestato naturalmente il mio segreto, gli dissi che assolutamente voleva mantenerlo, restando sconosciuto a tutti, ed essendo tenuto dentro e fuori pel signor Giorgio Bartorelli. Intanto segretamente e di notte avrei celebrato la Messa nella stessa mia camera; e perciò pensasse egli a portarmi ostie e vino, e non si curasse di altro, perchè già mi aveva la facoltà di celebrarla, anche senza inserviente. Quel buon Padre si offrì egli stesso a servirmela; ma, considerando che l’alzarsi di notte gli avrebbe recato disturbo, non glielo permisi che per qualche volta. Quella prima notte di fatto, alzatomi di buon’ora, e disposto l’altare ed ogni cosa necessaria, celebrai, e poi rimisi tutto nella cassa. Verso l’aurora, ecco il Pedemonte venire per servirmi la Messa, e visto che già l’aveva detta, si dolse di non averlo aspettato: — Ebbene, gli dissi, dimani, festa del mio patriarca S. Francesco, offri- /61/ remo insieme a Dio il Santo Sagrifizio. — Mi portò poscia il caffè in camera; ed anche di questa particolarità lo pregai di fare a meno, amando meglio di prenderlo in comune con gli altri di casa.
4. Verso le dieci il Governatore, in vestito di gala e con seguito, venne a restituirmi la visita; il che accrebbe maggiormente la meraviglia del popolo, sì indigeno come forestiero: e dopo di lui fui onorato di molte altre visite, non solo di Europei, ma di Greci, di Armeni, ed anche di mussulmani. Non saprei dire quanti castelli in aria facesse il pubblico intorno alla mia persona ed alla mia missione, dopo questi onori che mi venivano resi: chi la diceva proveniente dal Governo egiziano, perché esso aveva ordinato di darmi dovunque denaro a mia richiesta, e trattarmi con tutti gli onori di persona ragguardevole; chi mi credeva mandato dal Governo francese, per osservare le operazioni degli inviati austriaci in quelle parti; chi dall’Inghilterra e chi dalla stessa Sublime Porta: insomma io era l’oggetto della curiosità e della conversazione di tutti. Il Governatore in quel secondo abboccamento mi girava attorno con ogni sorta di domande, per sapere qualche cosa di me e dello scopo del mio viaggio in quelle parti: ma nulla potè scoprire; poichè io stava bene attento a non lasciarmi sfuggire di bocca parola, che avesse potuto manifestare in qualche maniera la mia condizione ed il mio segreto. In fine, prima di accomiatarsi, m’invitò a pranzo a casa sua col P. Pedemonte e con Mardrùs.
5. Il giorno fissato vi andai, accompagnato dai due amici, e trovai non un desinare amichevole e di confidenza, ma un pranzo di gala, quale si suol dare a Ministri ed Ambasciatori, con intervento di molte altre persone ragguardevoli della città. Ivi feci particolare conoscenza di un Bey, il quale aveva compito la sua educazione ed i suoi studj a Parigi, e poi era ritornato in Oriente. Sotto Mohammed-Aly faceva da Segretario al celebre Clot Bey, Ministro dell’istruzione pubblica; ed essendo stato poi questi giubilato, gli era succeduto nel Ministero, ma per poco tempo; poichè, come ho detto, seguendo Abbas Pascià una politica tutta opposta a quella del padre, e questo Bey non secondando le sue opinioni, era stato tolto di Ministro, e mandato nel Sudan a reggervi la pubblica istruzione: uffizio veramente nominale; poichè l’istruzione nel Sudan non sapevasi che cosa fosse, se qualche Missionario non avesse aperto scuola. Questo signore era pieno d’erudizione, anche teologica, e possedeva la più ampia conoscenza del cristianesimo: ma non si era ancora reso degno di ricevere il dono della fede. Nato nel maomettismo, non /63/ aveva ancora avuto il coraggio, o meglio la grazia di abbandonarlo; e spesso soleva dirmi: — Io non sono ancora cristiano; ma non sono un ateo, anzi odio a morte l’ateismo: dal cristianesimo per verità ho attinto grandi cognizioni, ma in alcune sètte di esso ho veduto pure grandi scandali. —
6. Tutto il tempo che mi fermai in Kartùm, questo signore non lasciò mai passare giorno senza venirmi a trovare. Egli amava molto di parlare con me, ed io più di lui; poichè con queste conversazioni sperava d’instillare nel suo cuore alcuni buoni principi, e fare qualche bene all’anima sua, ed anche di prendere maggior conoscenza dell’islamismo, e penetrare i segreti nefandi e mostruosi di questa brutale razza, che ha rovinato una gran parte del mondo. E quel Bey mi mise al chiaro di tutto, e mi rivelò cose, che io stentava a credere, e che, se la modestia non mei vietasse, manifesterei in queste pagine ad eterna infamia dei seguaci di Maometto. Lasciando pertanto le sconce particolarità riferitemi, non voglio omettere certe riflessioni, che potrebbero per avventura giovare anche a noi, e principalmente a chi si recasse in quelle parti.
7. — Il mussulmano, dicevami un giorno, è teocratico, ha in orrore l’ateismo, e ne ha sì brutto concetto, che fugge come un mostro l’ateo. La sua teocrazia però, mercè l’educazione lubrica che riceve sin dai primi anni, si concentra e s’immedesima tutta nelle sue materiali passioni; sicchè essa, invece di sollevare il cuore e la mente a cose alte e sublimi, abbassa il povero mussulmano sino al bruto, e lo rende inetto a qualsiasi applicazione su oggetti spirituali ed anche metafisici. Il paradiso stesso del mussulmano, che anderà a trovare nell’altra vita, non sarà che una sala di divertimenti o meglio un postribolo di lubrici piaceri. E se tale è l’idea che si forma della vita futura, è inutile spiegare qual sia il concetto che abbia della vita presente, rapporto a Dio ed alla morale. Questo principalmente è il gran disordine, che divide l’islamismo dal cattolicismo; disordine che il mussulmano, abbrutito com’è, non può assolutamente vincere e dal quale il cattolico torce lo sguardo con ribrezzo.
8. — Dico il cattolico, soggiungeva, perchè tutte le altre sètte che si dicono cristiane, di cristianesimo hanno ben poco, e, a dire le cose come stanno, non ci vedo una gran differenza tra esse e la religione da noi professata. Gli eretici e gli scismatici orientali, nati ed educati fra noi, anche conservando un po’ di fede speculativa, in pratica poco si allontanano dai costumi dei mussulmani; e tolta qualche apparenza di esteriore ritenutezza, possono nel resto chiamarsi degni figli di Maometto. /64/ I protestanti invece hanno potuto conservare nel loro esteriore morale quel sentimento di pubblico pudore, ch’ereditarono dal cattolicismo; e quindi sotto questo rispetto non vi è molto di riprovevole in essi: ma in quanto a principi di fede, ed alle esterne pratiche che la manifestano, essi se ne sono talmente allontanati, che neppur si comprende che cosa credano e sperino. E noi mussulmani, che alle pratiche esterne di culto diamo tanta importanza, vedendoli così indifferenti, li giudichiamo e li teniamo per atei.
9. — Per conoscere il degradamento della razza mussulmana, seguitava a dire quel Bey, voglio riferirvi confidenzialmente alcune particolarità della mia vita. Non dirò tutto, perché la vostra modestia ne soffrirebbe troppo. Nato, come ho detto, mussulmano, fui allevato in mezzo alla corruzione, che professa il maomettismo; e sin da fanciullo fui avvezzato, anche dagli stessi miei genitori, in quei vizj che alterano non solo le nostre facoltà mentali, ma anche l’umano organismo: sicchè a quindici anni il fiore della mia giovinezza cominciava ad appassire. In quel tempo si vollero mandare dal Governo egiziano dodici giovani a Parigi, per ricevere educazione ed istruzione europea: e poichè io era il favorito, di un signore, fui scelto per uno di questi fortunati giovani. Avvicinandosi il tempo della partenza, mia madre ne era inconsolabile, non solo per quell’affetto materno che mi portava, comune alle altre madri, ma per una intrinsechezza, niente affatto lodevole, che tra me e lei si era formata. Giunto il giorno pertanto di separarmi dalla famiglia, essa per ultimo ricordo mi disse: — Tu parti per un paese infedele; ma guai a te se ti farai cristiano: io, sentendo che avrai dato questo passo, mi ammazzerò. — Poscia pria di lasciare il suolo orientale, ci radunarono tutti e dodici in una moschea, e nelle mani di un Dervls ci si fece dare il giuramento di mantenerci costanti nella fede di Maometto, di non accostarci mai ad uomini o donne infedeli, e di prescegliere la morte all’apostasia. Così premuniti, c’imbarcammo.
10. — Giunti a Parigi fummo destinati alle scuole: ma da principio i professori non si mostrarono punto contenti di noi, e dichiararono che i nostri cuori e le nostre menti non erano per lo studio. Il medico stesso, pagato dal Governo egiziano, che veniva mattina e sera a visitarci, vedendo il nostro fisico deperimento, non tardò ad indovinarne la causa; ed ordinò di dare a ciascuno una stanza separata, e d’invigilarci il giorno severamente. Con queste cautele, dopo un anno si notò in noi un qualche miglioramento, e mostravamo di acquistare un poco di amore allo studio; /65/ ma due però dei miei compagni, per abusi di cui non poterono correggersi, ammalarono e morirono. Fu allora che io, rientrato in me stesso, conobbi il bisogno di moderarmi; ed animato dai consigli del medico, che mi faceva da padre, cominciai a porre un po’ di freno alle contratte abitudini cattive; ma liberarmi da esse non fu assolutamente possibile. Dedicatomi quindi con più assiduità allo studio, le mie cognizioni si allargarono, anche rispetto alle materie religiose, si scosse la mia indifferenza, cominciai a conoscere il bello della dottrina di Cristo, ed il brutto e mostruoso di quella di Maometto, e la fede brillava un poco ai miei sguardi: ma, per l’educazione ricevuta; indebolito e guasto nel fisico non meno che nel Ill. Missione di Kartùm || morale, restai mussulmano nelle idee e nei costumi. Conto oggi quarantacinque anni, e son già divenuto uno scheletro: come sapete, non volli prender moglie, e non ne sento il bisogno; perchè il maomettismo depravò le mie inclinazioni. Non tengo rancore contro mia madre, che mi fece tanto male, perchè essa poveretta era in buona fede; la colpa si deve piuttosto alla turpe religione di Maometto. Comprendo ora che Gesù Cristo è il sole, ed il nostro Profeta a suo confronto non è che un miserabile lume; tuttavia il pensiero di farmi cristiano mi spaventa come la morte. Son troppo immondo, e credo difficile, se non impossibile la mia emendazione. —
/66/ Le ingenue confessioni fattemi da questo dotto mussulmano mi commossero, e non so che cosa avrei fatto per ridurlo ai buoni e santi principj della verità. Ogni giorno lo raccomandava a Dio, nel tempo stesso che mi sforzava di dissipare le tenebre della sua mente, ed ispirargli buoni sentimenti: ma l’ostacolo era piuttosto nel cuore, o meglio nelle brutali passioni, da cui era dominato, anziché nella mente. Egli di fatto, ragionando, conveniva pienamente con me in tutte le questioni, e talvolta nel calore del discorso, lo vidi anche piangere: ma gli mancò il coraggio e la grazia di convertirsi, e quindi restò schiavo delle sue crudeli catene.
11. Ritornando ora alle faccende mie, deggio confessare che con tutte le precauzioni usate, dopo quindici giorni dal mio arrivo in Kartùm, dovetti pagare il tributo a quel clima pestilenziale, e presi le febbri. Fu chiamato tosto il dottor Penne, francese, ed ispettore sanitario di tutto il Sudan, Sennàar, Kordofàn, e Fazògl: ed osservatomi, e sentite le precauzioni prese: — Si faccia coraggio, mi disse, signor Bartorelli, la febbre si mostra di un’indole si buona, che non solamente non vi è a temer pericolo; ma ben presto se ne libererà. — Queste parole mi diedero un po’ di coraggio; perchè sapeva già che sorta di nemico fosse per gli Europei quella malattia. Ordinò intanto di purgarmi due giorni di seguito col decotto di tamarindo, e poi mi somministrò una buona dose di chinino; come Dio volle, con questa leggiera cura la febbre cedette un poco. Tuttavia ogni dieci o dodici giorni si affacciava; sicchè era costretto, anche in viaggio, ricorrere sempre al tamarindo ed al chinino.
12. L’Europeo, giunto a Kartùm, trova una città grande, e con tutte le comodità del Cairo: ma è ben facile che diventi il suo sepolcro, principalmente se non si abbia riguardo nel vitto, e non si usino le debite precauzioni. Posta sul punto, dove il Nilo Azzurro ed il Bianco, si congiungono, è infestata terribilmente dai miasmi che esalano dai due fiumi. I primi giorni per solito la persona si sente bene; ma attaccata d’improvviso dal virus della febbre, se per disgrazia si trova con lo stomaco ingombro, il morbo invade il cervello, si fa la congestione, ed in ventiquattr’ore, ed anche meno, ne resta vittima. Talvolta dopo tre o più giorni degenera in tifo. Sei anni dopo questo tempo, il mio Missionario P. Giusto da Urbino, ritornando da Roma e tenendo questa strada, giunto a Kartùm, un dopo pranzo si senti preso da un certo malessere, e senza neppur aver tempo di usare qualche rimedio, la prima febbre l’uccise. E sino ad oggi che sto scrivendo, posso contare oltre a cento vittime di quelle micidiali febbri, tra Missionari, monache e viaggiatori da me conosciuti; /67/ tra i quali ultimamente il mio caro amico, anzi figlio, Monsignor Comboni, Vicario Apostolico dell’Africa Centrale. Nel 1879 ritornavano con me dall’Abissinia in Europa tre Missionarj e dodici giovani indigeni: tenendo la via di Kartùm, quantunque si usasse ogni possibile riguardo, pure tra Doka e Gadàref prendemmo tutti le iebbri, ed i quattro ragazzi più giovani, perchè meno cauti, vi soccombettero. La casa della Missione di Kartùm poi, in quei due mesi che vi dimorai, sembrava un ospedale. Essa manteneva in educazione quindici giovani, quasi tutti figli illegittimi di Europei (1): ebbene, una buona parte di essi guardavano il letto, e lo stesso Superiore era attaccato dalle febbri.
13. Già ricorderanno i miei lettori che la Sacra Congregazione di Propaganda mi avea proposto di unire alla Missione Galla quella dell’Africa Centrale; e quantunque vi avessi rinunziato quasi assolutamente, pure uno dei motivi, per cui teneva quella strada, era appunto per osservare le cose sul luogo, e portare un giudizio sull’andamento di essa. In verità trovai una vera babilonia. Il polacco P. Rillo, fondatore della Missione, che io aveva conosciuto in Roma Rettore del Collegio di Propaganda, era già morto (2). Monsignor Casolani, consacrato Vescovo con me, aveva rinunziato al Vicariato, e se ne era ritornato già da tre anni a Malta. D. Ignazio Knoblecher, allievo di Propaganda, ed uno dei Missionarj, partito per Vienna, dicevasi che aveva lasciato Roma, e venivasene in Kartùm, con nuovi disegni rispetto alla Missione. D. Angelo Vinco finalmente, altro allievo di Propaganda e Missionario, recatosi con alcuni negozianti sul fiume Bianco per commerciare, era rimasto fra i Bari. In Kartùm adunque non erano restati a sostenere il peso della Missione che il P. Zara ed il P. Pedemonte, vessati dalle febbri da un lato, ed amareggiati dall’altro per le continue contrarietà, cui erano fatti segno, non solo da estranei, ma anche da coloro, che avrebbero dovuto sostenerli e difenderli. La Compagnia di Gesù pertanto, a cagione di questo disordine, aveva rinunziato la Missione, ed i due Padri non aspettavano che l’arrivo di nuovi Missionarj per partirsene.
14. In questo deplorabile stato adunque trovai la Missione dell’Africa Centrale, quando mi recai a Kartùm, e ringraziai Iddio di non essermi /67/ lasciato illudere dell’offerta; chè altrimenti alle antiche inquietudini e disturbi se ne sarebbero aggiunte delle nuove, senza sapere come rimediarvi. Mandai pertanto un’esatta relazione a Propaganda dello stato delle cose, suggerendo quei consigli che credetti opportuni, e mostrando l’impossibilità di unirla alla Missione Galla. Mentre intanto mi trovava ancora in Kartùm, giunse la notizia che D. Ignazio Knoblecher a Vienna si era messo d’accordo col Governo austriaco per un nuovo riordinamento della Missione, ricevendo a questo scopo grosse somme di denaro; e che, radunati varj Missionari tedeschi, erasi recato a Roma, dove la Sacra Congregazione di Propaganda lo aveva eletto Provicario Apostolico dell’Africa Centrale; e che quindi con questo titolo tornavasene in Kartùm con i sopraddetti compagni.
15. Sin dal principio dello stabilimento di questa Missione furono commessi due sbagli gravissimi. Il primo nello scegliere Kartùm a casa centrale della Missione; poichè, se tutti i paesi del Sudan e del Sennàar sono soggetti alle febbri, Kartùm è il sito dove maggiormente si sviluppa quel micidiale miasma. Convengo che, fondata dalla Santa Sede la Missione dell’Africa Centrale, per estendere l’opera dell’Apostolato nel Sudan, Sennàar e Kordofàn, necessariamente dovevasi far capo a Kartùm; poichè non solamente era ivi necessario il ministero dei Missionari per i molti cattolici e cristiani orientali, ch’erano andati a popolare la nuova città: ma anche perché in essa avevano principale residenza le Autorità governative di tutta quella nuova conquista dell’Egitto, e da essa partivano tutte le strade, che conducevano ai diversi punti di quelle regioni. Tuttavia, a causa dell’insalubrità del clima, anziché piantare la casa principale in Kartùm, poteva bastare allo scopo un semplice ospizio, che servisse per i pochi Missionari, necessari ai bisogni spirituali della città, e fabbricare la casa centrale in luogo più sano, o meno soggetto alle febbri. A mio avviso, su Dongola o su Bèrber, o su qualche altro punto del Nilo Azzurro avrebbe dovuto cadere la scelta; ed ivi non solo avrebbe potuto dimorare qualunque Europeo; ma, aprendo collegi di educazione per i giovanetti d’ambo i sessi, si sarebbe avuta la sicurezza di non vederli decimati dal micidiale miasma, come in Kartùm avviene. Volendo poi aprire ad ogni costo la casa madre in Kartùm, come si è fatto, conveniva cercare un punto più elevato, alquanto distante dal fiume, principalmente dalla parte Nord anche fuori del delta, o scegliere qualche punto sulle sponde dell’Azzurro, all’Est della città, il cui clima è meno malsano, e le cui acque sono più pure e più salubri. Mohammed-Aly, fabbricando /69/ questa città, non aveva guardato che la sua posizione, grandemente favorevole ai disegni che si aveva in mente: situata dove i due fiumi Bianco ed Azzurro si uniscono, era il punto più comodo ed adatto al commercio tanto col Cairo, quanto con l’interno dell’Africa; poichè i due grandi rami del fiume aprivano le vie, l’Azzurro, all’Alta Etiopia ed alle regioni del Sud, ed il Bianco, al Kordofan ed a tutte le contrade dell’Ovest, senza contare il gran delta del Sennàar, che naturalmente doveva far capo a Kartùm. Quella posizione inoltre, in quanto a strategia militare, era il punto più forte che si trovasse in quei dintorni, e tale da resistere per lunghissimo tempo a qualunque assedio ed assalto, che le venisse tentato da orde africane. E sotto questi due rispetti la scelta non poteva essere più felice: ma il clima però era malsano! Oh, chi non sa che i grandi politici e conquistatori sogliono apprezzare la vita dei loro sudditi assai ben poco, quando trattasi della riuscita dei loro vasti disegni?
Il secondo sbaglio si fece nella scelta dei soggetti che andarono ad impiantare la nuova Missione. Il P. Rillo era un grand’uomo, ma per la sua indole, non adatto punto ad una simile impresa. Egli inoltre, invece di scegliersi soggetti appartenenti al suo Ordine, i quali efficacemente, e con soggezione ed amore lo avrebbero coadiuvato nella difficile opera, era andato a cercare Missionarj estranei e forse niente disposti ai sacrifizi particolari di quell’Apostolato. Oltre a ciò aveva chiesto per Vicario Apostolico Monsignor Casolani, il quale non intendeva punto di rimanere in Africa, e per diversità d’indole e di pensare non poteva assolutamente andar d’accordo con lui. I due allievi di Propaganda poi, Knoblecher e Vinco, che aveva condotti seco, e che in una Missione stabilita, e sotto una ferma ed esperta guida forse sarebbero riusciti eccellenti Missionarj; in quell’impianto invece furono piuttosto di disturbo che d’ajuto. sicchè sin dal principio l’opera si disordinò, e divenne causa di tante amarezze per quei zelanti e fervorosi Padri: il che certamente non sarebbe accaduto, se la nuova Missione, affidata alla Compagnia di Gesù, fosse stata posta interamente sotto l’autorità e direzione di essa, e servita esclusivamente dai membri dell’Ordine.
16. In Kartùm, prima che vi si recassero i Missionarj, dimoravano molti Europei per iscopo di commercio, appartenenti a diverse nazioni; e, come suole accadere, divisi fra di loro secondo i proprj individuali e nazionali interessi. L’arrivo dei Missionarj adunque era aspettato con ansietà da tutti: ma da alcuni con isperanze, e da altri con timore. Or se essi fossero giunti là come un corpo, unito di animo, di scopo e di /71/ una colonia austriaca nell’Africa Centrale: quando in verità non era che un’utopia. E lo provò il fatto, poichè nulla si ottenne, non ostante i molti milioni che il Governo austriaco, illuso ed ingannato, profusamente vi spese. Il Console inoltre, non trovando favorevoli ai suoi disegni quei padri Gesuiti, mise tutto in opra per levarseli di torno; ma questi avevano già parato il colpo, con rinunziare, secondoché si è detto, risolutamente la Missione. Più sopra ho accennato che Knoblecher era partito per Vienna, e che già ritornava con denari e con alcuni Missionari tedeschi, per prendere il posto dei Gesuiti. Ciò mostra che i raggiri del Console avevano ottenuto il loro intento presso il Governo di Vienna; ed anche presso il povero Ill. Veduta di Kartùm || Knoblecher, che, forse ingannato anch’esso, prestava mano a quei raggiri, senza prevedere il danno che avrebbe fatto a sè stesso ed alla Missione. L’altro, cioè D. Angelo Vinco, l’abbiam visto sul fiume Bianco attendere più al commercio con quei suoi compagni di traffico, che all’apostolato, com’ era suo dovere. E quanto questa condotta abbia pregiudicato alla Missione, segnatamente sul fiume Bianco, non saprei dire. Essa, nè allora nè poi, potè fare alcun che di bene in quelle regioni; dappoichè mostrandosi da principio a quei popoli con iscopo di commercio, si rese odiosa; ed immedesimata com’era con la società dei commercianti, gente per solito poco o nulla scrupolosa, si rese anche solidale dei gravissimi /72/ scandali dati da essi in quelle parti. E laddove una tale Missione, guidata da uomini esperti e forniti di spirito apostolico, avrebbe raccolto sul fiume Bianco copiosissimi frutti spirituali, ed aperta la strada all’Equatore; per la malvagità, di alcuni uomini avidi di danaro, e per la debolezza ed inesperienza di due giovani sacerdoti, fu rovinata per sempre.
19. I miei lettori ricorderanno il modo poco cortese onde quel Console mi avea ricevuto a Scendy. Ritornato poi quindici giorni dopo a Kartùm, e sentendo i tratti di cortesia e di onore usatimi dal Governatore, e forse avendo vedute anche le lettere del Governo e di altre Autorità rispetto alla mia persona, si mise in pensiero; e sospettandomi un inviato segreto di qualche Potenza, volle riparare allo sbaglio fatto: e con la speranza anche di tirarmi alla parte sua, stabilì di dare un pranzo a tutta la colonia europea in mio onore. Venne un giorno pertanto a pregarmi di accettare l’invito, ed intervenirvi con i Missionari della casa. Molti della colonia, che non dividevano le opinioni del Console, e che non erano suoi partigiani, cercarono distogliermi dall’andarvi: ma io, considerando che un tale rifiuto mi avrebbe messo in sospetto di parteggiare più per gli uni che per gli altri, e volendo restare presso tutti assolutamente neutrale, credei più conveniente di accettare, e d’intervenirvi per semplice cortesia, e senza fare atto o dir parola, che mi mostrassero favorevole ai suoi disegni.
20. Il giorno stabilito pertanto vi andai col P. Pedemonte e con Mardrùs; e ricevuti con tutti gli onori, tanto il Console quanto gli altri invitati ci colmarono di gentilezze e di cortesie. Il pranzo, al quale intervennero Europei, Greci, Armeni e molti mussulmani, fu sontuoso, ma grossolano ed in certe cose anche ridicolo. Il Console era protestante, e quindi si adattava volentieri e senz’ombra di scrupolo agli usi di tutti. Tra le altre cose fu imbandito un vitello intiero, arrostito al forno, e portato a tavola in processione con cerimonie prettamente mussulmane, alle quali però nè io nè il P. Pedemonte volemmo prender parte. Il Console desiderava che fosse benedetto dal Padre solennemente: ma egli con buone maniere se ne schermì. Si pranzò allegramente, sempre discorrendo di cose indifferenti: e giunti ad una cert’ora, adducendo io la scusa della mia malattia, mi ritirai con Mardrùs e col P. Gesuita, ed essi restarono lì a far baccano tutta la notte.
21. Partito da Kartùm, non seppi più altro di questo Console: solo circa due anni dopo, trovandomi in Gudrù, intesi ch’erasi recato in Abissinia, per non so quali commissioni del suo Governo. Si fermò in Gondar circa /73/ tre mesi, e da quella città mi spedì un corriere con una lettera cortesissima, e con altri oggetti, che io aveva lasciato in Kartùm presso la Missione, e che D. Ignazio Knoblecher mi rimandava. Il corriere, ch’era un suo servo, raccontava ai miei familiari molte brutte cose del padrone, e principalmente parlava di certe turpitudini e scandali dati in Gondar, che facevano anche ribrezzo a quelle, non tanto caste, popolazioni. Infine partì lasciando un nome ed una memoria assai obbrobriosa, e per istrada attaccato dalle febbri, morì in Doka. Venticinque anni dopo, passando per quella città, vidi da lontano il sepolcro di questo povero imbroglione.
22. Giunse intanto la notizia che D. Ignazio Knoblecher con otto Missionarj austriaci era arrivato in Egitto, e che, comprata una barca di ferro, cui aveva posto nome di Stella Mattutina, si disponeva a partire per Kartùm. I due Padri Gesuiti esultarono di gioja, perchè finalmente potevano liberarsi da quella penosa dimora in una Missione interamente disordinata. La colonia, o meglio il Console con i suoi partigiani ne erano contenti sotto tutt’altro aspetto, e già parlavano di fare grandi feste all’arrivo del nuovo Provicario Apostolico. Vedendo pertanto tutti questi lusinghieri apparecchi, a me non conveniva restare più oltre in quella città, e trovarmi presente a quella trasformazione della Missione; molto più che mi sarebbe stato difficile restare sconosciuto dopo il loro arrivo. Quindi risolsi di partire per Fazògl: e parlatone al Governatore, si offrì egli stesso a darmi ogni agevolezza, ed accompagnarmi con lettere di raccomandazione.
23. Si dicevano molte cose delle crudeltà di questo Governatore, e da alcuni è stato dipinto a neri colori: ma in quanto a me in tutto il tempo che dimorai a Kartùm non ebbi che a lodarmi di lui. Egli veniva spesso a visitarmi, m’invitò più volte a pranzo, trattava meco con ogni riguardo, ed alla partenza mi fece grandi favori: poichè, non solamente mi diede quella somma di denaro che gli richiesi, rilasciandogliene ricevuta; ma mi provvide di molte altre cose necessarie, e di varie lettere di raccomandazione per tutte le Autorità civili e militari, che avrei incontrato nel mio viaggio. Da quanto inoltre potei vedere in quei pochi giorni che mi fermai in Kartùm, neppure la popolazione aveva di che lamentarsi del suo governo: non era, è vero, esente di quei vizj, che deturpano il mussulmano, anzi forse eccedeva in essi; come eccedeva pure in certi casi, in cui mostrava un po’ di dispotismo, comune per altro a tutte le Autorità maomettane, ed un rigore non sempre ragionevole. Un atto di questo eccessivo rigore ebbi a sentire di lui in quel tempo: cioè, uno /74/ schiavo, domestico di sua casa, essendo stato accusato dai compagni di aver mancato con una delle schiave riservate; il Governatore, senza tante forme di giudizio, una notte segretamente li fece legare tutti e due, e mandò a gettarli nel fiume. In verità un simile atto barbaro non l’avrei creduto, se non mi fosse stato raccontato da quei medesimi ch’eseguirono gli ordini.
24. Risoluta la partenza, Fatàlla Mardrùs, oltre le cose necessarie pel mio viaggio, era in faccende per iscrivere lettere e preparare regali, che io doveva portare in Abissinia al suo grande amico Monsignor Massaja. Era la notte antecedente alla mia partenza, ed egli non si era messo a letto, perché avea avuto l’incombenza d’invigilare un maestro secolare della casa, caduto in sospetto di disturbare i giovani del collegio. Accertatosi in quella notte che il sospetto era pur troppo fondato, la mattina di buon’ora era venuto da me, per consigliarsi sul come avrebbe dovuto regolarsi in simile faccenda. Io, prima di celebrare la Messa, soleva chiudere di dentro la porta della stanza, ma quella mattina me n’era dimenticato; sicchè il caro Mardrùs, bussando prima leggermente, spinse poi la porta, ed entrato secondo il solito con tutta confidenza, mi trovò all’altare nell’atto di celebrare il santo Sacrifizio. Lascio pensare ai lettori qual fosse la sua meraviglia nel vedere il signor Bartorelli in abiti di chiesa, e compiere quel santo Ministero! Da prima restò come uno istupidito, ma poi, ravvisando negli atti e nella voce il mio modo di celebrare, e rammentandosi di certe parole allusive alla mia persona, sfuggitemi in quei giorni, parlando con lui familiarmente, mi riconobbe: e non era ancora finita la Messa, che scoppiò a piangere con mio grande disturbo. Sceso io dall’altare, mi si gettò ai piedi, confondendomi con le più tenere ed affettuose espressioni, e dando a sè stesso dell’imbecille, per essere stato due mesi con me, senza avermi riconosciuto. Alzatolo ed abbracciatomelo, si acquetò un poco; e raccomandandogli di non farne motto con nessuno, ci demmo a disporre le cose pel viaggio, che già stava per imprendere.
[Note a pag. 67]
(1) Anche i Greci che dimoravano in Kartùm, facevano parte della colonia europea; perchè non avendo preti del loro rito, si assoggettavano più volentieri ai sacerdoti cattolici, che ai preti copti, di cui vi era un buon numero. Qualunque eretico orientale crede degradarsi, unendosi ai Copti; e perciò in mancanza del proprio prete, presceglie il cattolico. [Torna al testo ↑]
(2) Quel buon Padre fu sepolto nel giardino della Missione, e sulla sua tomba fu inalzato un modesto monumento. [Torna al testo ↑]