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Capo IX.
Ritorno e nuovi tentativi.

1. Una notte di baccanali. — 2. Di nuovo a Kiri; indagini per la strada. — 3. Impossibilità di seguire il corso del Nilo. — 4. Le altre vie. — 5. A Rossères ed a Gadàref. — 6. Ospitalità presso il Màlim di Gadàref — 7. Un pericoloso incontro. — 8. Confessioni e confidenze di Abba Daùd. — 9. Abba Daùd viene eletto Patriarca. — 10. Sue tendenze al cattolicismo e sua morte violenta. — 11. A Doka; nuove informazioni. — 12. Arrivo a Matàmma. — 13. Il barone De Marzac ed il signor Vissier. — 14. Tre giorni di penoso viaggio. — 15. Informazioni sconfortante. — 16. Un Vescovo mercante; sospetti, minacce e bastonate. — 17. Son salvato da due soldati. — 18. Un nuovo imbroglio. — 19. Il viaggio per Dabbo; proteste dello Scièk. — 20. Tentazioni e pericoli. — 21. Ultimi tentativi dello Scièk e ritorno a Matàmma.

In questo viaggio di ritorno si fece sosta negli stessi punti, dove prima ci eravamo fermati. Da chi si mette in cammino per quei paesi, due cose principalmente si cercano per fermarsi e prendere riposo, cioè, l’acqua, ed il minor pericolo di nemici e di bestie feroci. Rispetto alla seconda, chiunque ne comprende la convenienza e la necessità; si ricerca poi l’acqua, non solo per bere gli uomini e le bestie da soma, ma anche per bagnarsi, e trovare un refrigerio a quei cocenti calori. Giunti pertanto di buon’ora alla fonte, senza nessun riguardo a modestia, si spogliarono tutti, e vi si gettarono dentro, dandosi a divertimenti e giuochi sì sconci, che credetti bene allontanarmi. Ma questo non era che il preludio del gran baccanale, cui si dovevano lasciare andare nella notte. Mi dissero che quello era un giorno di festa particolare /98/ di quei paesi, e quindi bisognava passarlo allegramente: di fatto la sera, appena mangiata la cena, tutti, uomini e donne, ad eccezione di qualche vecchio e del Comandante, gettate via le vesti, cominciarono a fare giuochi e danze sì ributtanti da muover nausea allo stesso Maometto. Non essendovi chiarore di luna, che illuminasse quelle scene da pagani, vi avevano supplito coll’accendere grandi fuochi, ed in verità ben si accoppiava la tetra luce di quelle fiamme, con quegli osceni e nauseanti divertimenti. Smorzatisi poi i fuochi, il baccano non cessò, ma venne continuato per una gran parte della notte: e meno male che in fine tutto era bujo; poichè se almeno si sentiva, non si vedeva quel mussulmano vituperio! Confesso di non aver mai visto oscenità simili in quei paesi: il diavolo certamente doveva trovarsi in mezzo a quella gente, tanto se ne mostravano spudoratamente invasati!

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2. Il giorno appresso si camminò di gran lena, per uscire dal pericolo di esser sorpresi dai Tâbi; ed appena a metà della giornata ci fermammo una mezz’ora, per prendere un po’ dì cibo, e ci rimettemmo subito in cammino, a fin di arrivare prima della notte alla stazione, in cui ci eravamo riposati nel precedente viaggio. La sera i soldati, stanchi della marcia forzata del giorno, e più del baccanale della notte antecedente, mangiato un po’ di pane, si abbandonarono al sonno, e ci volle di tutto la mattina per isvegliarli; finalmente, ripreso il cammino prima di spuntare il sole, alle due pomeridiane si arrivò a Kiri.

Non essendomi riuscito di penetrare nei Galla per la via di Fadàssi, non mi restava che tentare d’entrarvi ad ogni costo da questa parte: e quantunque la distanza di quei paesi fosse più breve da questo lato, che da quello di Gassàn e di Fadàssi, pure la strada non era meno difficile e pericolosa; principalmente per le tribù negre, miste ad Arabi, che abitavano tra l’una e l’altra frontiera. Questi popoli, tutti mussulmani fanatici, non davano il passaggio a nessuno, ed armati di fucili, opponevansi tanto agli Egiziani, quanto agli Abissini, che avessero voluto varcare i loro confini.

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3. Per meglio comprendere la posizione di quei paesi, che sì difficile mi si rendeva di attraversare, fa d’uopo dare un’idea del corso del Nilo Azzurro in queste parti, rimontando alla sua sorgente. Esso, che prima credevasi essere il vero Nilo, ha la sua sorgente in Abissinia, quasi all’Ovest del lago Tsana. Entrato in un angolo verso la parte Sud di questo lago, n’esce senza quasi frammischiarvi le sue acque, e prendendo il nome di Abbài tira dritto al Sud-Est, per formare poi una curva verso Occidente, scorrendo tra il Goggiàm ed il Gudrù. Piegando poscia insensibilmente a /99/ Nord-Ovest, tocca l’estremità Nord degli Hurru-Galla; finché volgendosi più a Settentrione, lascia gli Amurrù-Galla ad Est, ed il Damòt ad Ovest, e rasenta gli Agàu, paese abissino. Dopo questo corso, piega ad Ovest, e ricevuto l’influente Jèbus, prende il Nord-Ovest sino a tanto che non arrivi al Fazògl; donde poi con tortuosi serpeggiamenti e larghe curve percorrendo la regione del Sennàar, va finalmente a congiungersi a Kartùm col Nilo Bianco, dopo avere accresciuto le sue acque con i grandi influenti Tòmat, Dènder e Ràhad. Ora, da Kiri era impossibile continuare il viaggio sul Nilo, non essendo esso più navigabile per causa delle piccole cateratte che vi s’incontrano, ed anche per le popolazioni che abitano quelle spiagge, le quali, non solo molestavano, ma impedivano chi si fosse avventurato passare per quei luoghi.

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4. Se poi si avesse voluto tentare la via del Sud senza toccare l’Abissinia, si sarebbe andato incontro alle tribù negre, accanitamente ostili ad ogni provenienza dai paesi egiziani, come già ho notato parlando della via di Fadàssi. E quand’anche queste tribù avessero lasciato libero il passo, giunto alle frontiere galla, sarei stato immancabilmente respinto; poichè da quelle parti, per odio sempre agli Egiziani, non si lasciava entrare nessun forestiero. Volendo inoltre prendere la strada più al Nord, altre tribù mussulmane, ancor più fanatiche di quelle del Sud, e nemiche similmente degli Egiziani, vi contrastavano il passo; le quali se pure mi fosse riuscito di poter superare, avrei dovuto poscia entrare necessariamente in Abissinia, passando agli Agàu o al Damòt. Più tardi e principalmente al tempo dell’Imperatore Teodoro, il commercio, segnatamente degli schiavi, essendo stato un po’ disturbato dalla parte dell’Abissinia, i negozianti arabi, favoriti dagli Egiziani (che non avevano gli stessi scrupoli degli Europei sulla tratta dei Negri), si aprirono dalla parte Ovest del Fazògl un’entrata ed uscita per questo traffico di carne umana: ma quando vi capitai io, trovai chiusa ogni strada, e difficoltà da per tutto. Sicchè fui costretto ritornare sui miei passi, e cercare altra via.

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5. Ogni mio tentativo adunque era fallito. Intanto il tempo passava, i Missionari mi aspettavano, la stagione delle piogge si avvicinava, e le febbri non mi avevano ancora lasciato: bisognava quindi prendere un’ardita risoluzione, e rimettersi nelle mani di Dio. Alcuni, e non pochi, mi avevano assicurato che, per la parte di Matàmma, avrei più facilmente potuto trovare qualche mezzo, che mi aprisse la strada per i Galla; poichè, essendo il Governo di Matàmma indipendente tanto dall’Egitto quanto dall’Abissinia, con facilità si sarebbe indotto a mettermi in comunicazione con quelle /100/ tribù. Accettai pertanto questo consiglio, ed intesomi col Comandante, lasciai Kiri, e tenendo la stessa strada che avea fatto, venendo, giunsi a Rossères. Ivi, licenziato il servo, e rimandatolo a Kartùm al suo padrone Fatàlla Mardrùs, mi procurai due cammelli, e con due soli cammellieri partii direttamente per Gadàref, schivando sempre l’incontro di carovane di mercanti, per non esser da qualcheduno riconosciuto.

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6. È impossibile fare una minuta e particolareggiata descrizione di tutti i paesi, donde passai in questo lungo viaggio. Dopo tanti anni la memoria non più li ricorda, e le mie note su quei luoghi, che ora avrebbero potuto darmi un qualche ajuto, andarono perdute nel famoso esilio, che nel 1861 ebbi a soffrire in Kaffa. Solo rammento che, tenendo sempre una direzione Nord-Est, in otto giorni di or disastroso ed or comodo viaggio giunsi a Gadàref. In parecchi luoghi aveva sentito parlare di un ricco Copto, chiamato il Màlim (che vuol dire scrivano), il quale in Gadàref faceva molto bene ai poveri, accoglieva con carità i forestieri, e teneva in onore, meglio dei preti eretici della sua sètta, il nome cristiano. Non sapendo pertanto a chi presentarmi in quel paese mussulmano, dissi ai cammellieri di condurmi a casa sua. E non mi sbagliai; poichè appena i servi annunziarono l’arrivo di un forestiere, la famiglia uscì ad incontrarmi, e mi ricevette con segni di piacere. Presentato poscia ad uno, che sembrava il capo di casa, dell’età di circa cinquant’anni, mi ebbi anche da lui gentile accoglienza. Questi parlava molto bene la lingua franca d’Egitto, e dopo le solite cerimonie di convenienza, mi domandò qual fosse il mio nome, e dove intendessi andare. Naturalmente risposi che mi chiamava Giorgio Bartorelli, e che erami recato in quei paesi con intenzione di visitare il corso del Nilo: ma che intanto non avendo potuto proseguire le mie esplorazioni dalla parte del Fazògl, avea preso quella direzione, a fin di vedere se mi fosse riuscito raggiungere il suo corso per altra via indiretta.

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7. Quella persona aveva attorno a sè una quindicina di bei giovinetti abissini, onde, messomi in sospetto, domandai se quella non fosse per avventura la casa del Màlim?

— Sì, mi rispose quell’uomo, ma il padrone oggi si trova fuori, però il vedrà presto, poichè non tarderà a venire. —

— Ma dunque, soggiunsi, con chi ho l’onore di parlare? —

— Io sono, rispose, Abba Daùd, l’Abate del Monastero di S. Antonio, e mi trovo in queste parti per cagione di un viaggio, che ho dovuto fare in Abissinia. Tra me e questa famiglia passa la più intima amicizia e confidenza; quindi ella ne accetti senz’altro l’ospitalità, che io da parte /101/ della famiglia le offro, e faccia conto di essere come in casa sua. Inoltre io conosco bene l’Abissinia, e giacché ella è diretta per quei paesi, potrò darle lettere di raccomandazione, affinchè sia da per tutto rispettato, e possa osservare il Nilo nella sua sorgente e nel suo corso. —

Veramente questo favore io desiderava: ma ognuno comprende la mia meraviglia, e quanto lì per lì mi dovessi trovare impicciato, per lo strano fatto che, non volendo, era capitato tra le mani di colui, ch’era stato mandato in quelle parti a predicare la crociata contro di me. La pecora era andata proprio in bocca al lupo! Tuttavia mi sforzai di non dar segno di turbamento, e lo pregai di farmi cercare piuttosto una casa a parte; perchè non avrei voluto essere d’incomodo alla famiglia: ma egli si oppose assolutamente, dicendo che per quella famiglia l’ospitalità era cosa non solo sacra, ma desiderata e piacevole, e di nessun incomodo sarebbe stata la mia presenza; e come un segno del gradimento e piacere di tutti, mi fece subito portare il caffè con anisetta. Poscia cominciò a raccontarmi le sue vicende: cioè, il viaggio felice che aveva fatto in Abissinia, l’accoglienza trovata, i regali ricevuti, e tante altre cose, che io già in parte conosceva. A questi racconti non poteva altrimenti rispondere che con molti atti di ammirazione, ma con poche e pesate parole. Conoscendo io alquanto la lingua abissina, parlata da quei giovinetti, stava attento ai loro /102/ discorsi, e mi avvidi che tutti erano schiavi regalati all’Abate da Salâma e da Degiace Kassà. Uno però doveva essere servo intimo di Salâma, poichè, parlando, ripeteva spesso: Henietà Salâma (il mio signore Salâma), e giurando, diceva: Salâma imùt (per la morte di Salâma) (1).

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8. In quel viaggio, vestendo a foggia di uno scrivano arabo, e portando la barba un po’ accorciata, difficilmente sarei stato riconosciuto da chi qualche volta mi avesse visto in Abissinia. Per allontanare poi qualunque sospetto, discorrendo con l’Abate, gli faceva interrogazioni su quel paese, come se mai vi fossi stato. Mi domandò se fossi cattolico: e risposi francamente di esser cattolico, e di voler morire cattolico.

— Ha ragione, soggiunse, Iddio mi fece nascere copto; ma confesso che, per salvarsi, la fede cattolica è la più sicura. —

Avendogli chiesto per qual motivo era andato in Abissinia? — Vi fui mandato, rispose, dal Patriarca Potros per impedire che un Vescovo cattolico, andato là alcuni anni sono, vi si stabilisse e vi facesse propaganda. Benché io tenga che i cattolici sieno tutti buona gente e santi uomini, pure, contro mia voglia, ho dovuto adempiere questo mandato: tra le altre cose ho fatto giurare tutti quei Principi di non riceverlo, e di cacciarlo dai loro paesi se mai vi si recasse; perchè l’Abissinia non è territorio di sua giurisdizione, e non deve cambiar fede. Fatto ciò, me ne ritorno ricco di regali e con una buona somma di denaro. —

Quantunque avessi premura di partire, pure quest’uomo con le sue cortesie mi trattenne colà tre giorni, raccontandomi tante cose, che in verità io desiderava sapere, e facendomi molte confidenze. Egli parlava di Monsignor De Jacobis con grande rispetto, ed era pieno di ammirazione per la santità di sua vita. Un giorno mi disse: — Il Patriarca Potros è già molto avanzato in età, e pochi anni avrà di vita: or morto lui, è quasi certo che ne occuperò il posto. Se poi non mi eleggeranno Patriarca, anderò a Roma, abbraccerò il cattolicismo; e ritornato in Oriente, colla protezione della Francia rivolgerò le cure del mio ministero ai Copti, e li farò unire alla Chiesa cattolica. Eletto intanto Patriarca, non mancherò di trattare questo punto col Papa; poichè il mio cuore tende sempre là, cioè, all’unione con la Chiesa romana. —

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9. L’Abate di fatto, ritornato in Egitto, Vide avverati i suoi disegni; poichè l’anno seguente, morto il vecchio Potros, venne eletto Patriarca. /103/ Come sempre suole accadere, da principio si ebbe onori e favori da ogni classe di persone; ed era tenuto in tanta stima, che, un anno dopo, il Governo egiziano lo mandò in Abissinia ambasciatore a Teodoro. Giunto in quelle regioni, oltre degli affari politici, che gli erano stati commessi, volle occuparsi anche un poco del clero; e quantunque già sapesse che stoffa di Vescovo fosse Abba Salâma, pure non potè tacere alla vista di quella condotta così vituperevole e scandalosa, non solo nella vita privata, ma anche nell’esercizio dell’ecclesiastico ministero, e segnatamente delle Ordinazioni. E chiamatolo a sè, lo ammonìseveramente e lo minacciò che sarebbe stato costretto venire a provvedimenti rigorosi, qualora egli avesse continuato in quei disordini. Salâma gli si voltò contro, protestando di non riconoscerlo; onde ne nacquero lotte e questioni. Teodoro allora senza tante cerimonie li mise tutti e due in carcere, e ve li teneva da tre mesi, quando Abba Salâma, fingendo di sottomettersi, promise di rendere al Patriarca tutti gli onori che gli convenivano, e di chiudergli la bocca con grandi regali. Teodoro, che allora aveva bisogno di tenersi amico Salâma, gli diede ascolto, e quindi Daùd, riconosciuto per vero Patriarca, fece pace coll’eretico ed astuto Abûna, e ritornò alla sua sede ricco di regali per sè e pel Governo egiziano. Così Salâma restò libero di continuare quella vita di obbrobrio e di scandaloso libertinaggio, che pure tanto ribrezzo aveva fatto all’eretico Patriarca.

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10. Daùd, quantunque avesse accettato quei regali, nondimeno era partito disgustato di Salâma, di Teodoro e dell’Abissinia; e passando per Kartùm e per l’Alto Egitto, non aveva lasciato di manifestare a tutti i Vescovi un tal disgusto, principalmente per Salâma, il quale, come il Patriarca ben diceva, rendeva ridicola e disonorava in faccia a tutto il mondo la nazione copta, con la sua pessima condotta, ed in ispecie con la sua ultima ribellione. Dovunque inoltre passasse, da per tutto parlava bene della Religione cattolica, e senza occultare le sue tendenze ad un ritorno alla Chiesa romana. Giunto poi in Cairo, continuando sempre a tenere questo linguaggio, si fece dei nemici, e diede il pretesto ai suoi emuli di screditarlo presso il pubblico e presso il Governo, sino a fargli togliere la vita. Di fatto, un malvagio monaco, chiamato Demetrio, qualche tempo dopo trovò maniera d’introdursi presso il Vicerè Ismail Pascià, e tante cose disse contro il Patriarca Daùd, principalmente rispetto ai suoi disegni di render cattolica la nazione copta, che il Vicerè risolvette di levarselo di torno. Una sera pertanto lo invitò a conversazione, ed in fine fattagli bere, secondo l’uso orientale, una tazza di caffè, lo accomiatò. /104/ A mezzanotte il Patriarca Daùd era già morto; e quindici giorni dopo il monaco omicida diveniva suo successore! Daùd era di maniere un po’ grossolane e molto loquace; però aveva una certa qual rettitudine nel suo operare, e molta semplicità; nel suo cuore ci era pure della fede, cosa molto rara nella classe monacale eretica, e le sue tendenze al cattolicismo erano sincere e manifeste. Per questo io nutro speranza che il Signore, grande nella sua misericordia, abbia pur tenuto conto delle buone disposizioni di quell’uomo, il migliore dei Copti, che nella mia lunga vita potei in quelle parti conoscere.

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11. Intanto col restare più a lungo fra quelle persone, temendo sempre di essere riconosciuto, dopo tre giorni, di dimora in Gadàref, partii per Doka, in quel tempo ultima stazione militare di frontiera egiziana, e sede di un Comandante, come Kiri. Venni ricevuto dallo stesso Comandante in casa sua, colmandomi di cortesie, ed era veramente una persona assai garbata. Fui costretto, contro mia voglia, di trattenermi qualche giorno in questo paese per cercare altri cammellieri; giacché quelli, che mi aveano accompagnato, non usavano oltrepassare il confine egiziano. Trovai quivi alcuni mercanti, i quali mi assicurarono che da Matàmma, prendendo la via del Dunkùr con i mercanti di Luka, e rasentando i confini dell’Abissinia, avrei potuto giungere ai paesi galla. Mi avvertirono però ch’era necessario andarvi come mercante arabo, non come viaggiatore europeo, essendo gli Europei mal veduti da quelle popolazioni. Ciò non mi dava alcun fastidio, poichè mi sarei vestito anche da spazzacamino, per conseguire la meta dei miei desideri, e raggiungere il luogo della mia Missione.

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12. Accettato questo consiglio, partii per Matàmma, e vi arrivai dopo tre giorni di viaggio. Matàmma allora comprendeva una piccola provincia, posta tra il confine egiziano e l’Abissinia, e tenevasi indipendente dall’uno e dall’altro Governo, pagando ad entrambi un tributo. Era governata da uno Scièk ereditario, il quale allora si chiamava Hibraim. Quivi si teneva un gran mercato, frequentato principalmente dagli Abissini e dagli Egiziani; quelli andandovi per vendere schiavi, e questi per comprarli. Scopo pertanto di questa indipendenza di Matàmma non era che la libertà di poter fare liberamente il traffico di carne umana, senza che il Governo egiziano da una parte, e l’Abissinia dall’altra, avessero da render conto all’Europa. Io adunque appena arrivato, andai a far visita allo Scièk, e mostrandogli una lettera di raccomandazione del Comandante di Doka, mi accolse gentilmente, e mi assegnò per alloggio una bella capanna. Essendo solo e mezzo ammalato, soffriva non poco quell’isolamento; ma fortunatamente abitando lì vicino un cristiano orientale, fabbricatore di acquavite, m’intesi con lui, e così potei avere qualche servizio. Sua moglie facevami un po’ di cucina, ed un suo figlioletto mi prestava gli altri piccoli servizj.

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13. Tre giorni dopo giunsero a Matàmma due Europei miei amici, il barone De Marzac, che aveva conosciuto a Roma quando egli era addetto all’Ambasciata francese, ed il signor Vissier, uno di quelli che a Massauah si trovarono presenti alla consacrazione di Monsignor De Jacobis. Questi due signori venivano da Massauah, ed erano diretti a Kartùm. Giunti a Matàmma ed inteso che ivi era arrivato un Europeo, vennero subito a trovarmi; e, ravvisandomi, rimasero meravigliati nel vedermi là, sì poveramente vestito, ed alloggiato tutto solo in quella capanna. Non è facile descrivere la consolazione che si prova quando in paese straniero accade incontrare un qualche amico, o almeno una persona che appartenga alla propria nazione, od alla propria razza; e ciò principalmente in quei luoghi, dove tutto quello che vi circonda è interamente estraneo al vostro tipo, al vostro linguaggio, ai vostri costumi, insomma alla vostra esistenza. Abbracciatici pertanto con fraterna espansione, spiegai loro il motivo di quel travestimento, e manifestai lo scopo del mio viaggio. Essi vollero fermarsi alquanti giorni a Matàmma, per comunicarci a vicenda le impressioni ricevute in quei viaggi, e principalmente per assistermi negli apparecchi della partenza, onde ogni giorno si ebbe la consolazione di pranzare insieme. Dovendo nel viaggio far la vista di mercante, ci recammo una mattina al mercato per comprare un asino e tutti gli oggetti che dovevano formare il mio piccolo negozio: ed il giorno appresso avendo tutto pronto, mi unii con i mercanti di Luka, e mi misi in cammino. I due cari amici mi accompagnarono per un lungo tratto di strada, poi, abbracciatici, ci separammo per non rivederci più! Poiché tre anni dopo ebbi la notizia che quei cortesi signori, andati a Kartùm, e di là al Nilo Bianco, avevano perduto miseramente la vita fra i Bari.

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14. Partii da Matàmma con una raccomandazione dello Scièk Hibraim: ma disgraziatamente poco e niente mi potè giovare. Ho detto che mi era unito con i mercanti di Luka, e compagnia più triste, più scostumata, e più impertinente non avrei potuto trovare. Erano quasi tutti giovani, mussulmani fanatici, senza freno, senza pudore, senz’ombra di umano incivilimento; ed in quel breve viaggio mi diedero tanti fastidj e tribolazioni, che mai ne ho avuti di simili. Io Vescovo, senza poter manifestare la mia dignità; cristiano, senza poter mostrare di esserlo; mercante, senza /106/ saper negoziare; obbligato ad una severità morale, tanto più necessaria quanto più insolentiva la loro scostumatezza; circondato in fine di gente mezzo selvaggia, e senza una persona amica, cui raccomandarmi, per tenerli in freno ed in qualche modo difendermi; passai tre giorni e tre notti così infelici, che mi sarei contentato stare in mezzo al fetore di una latrina, che tra quella immonda gentaglia. L’unico mio ajuto era un vecchio, cui aveva promesso qualche ricompensa per i piccoli servizj che, lungo quel viaggio, mi avrebbe prestato: ed egli mi stava sempre vicino, e per quanto potesse non lasciava di prendere le mie difese; benchè poco o niente fosse ascoltato da quella turba petulante. Il mussulmano quanto è vile dinanzi ad un Magistrato, altrettanto è arrogante quando non trova alcuno, che gl’incuta timore. Finalmente Iddio volle che si arrivasse a Luka, capoluogo della provincia del Dunkùr, dove si teneva un gran mercato, frequentato anche dai mercanti dei paesi galla, i quali vi portavano schiavi, avorio ed anche polvere di oro.

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15. Giunti in Luka, i mercanti miei compagni andarono tutti ad alloggiare in una gran capanna; ed io, volendomi finalmente liberare da quegli impertinenti, diedi l’incombenza al vecchio di cercarmene una a parte, e se fosse stato possibile, vicino allo Scièk del paese; dopo un’ora di fatto, mercè una piccola retribuzione, ne fu trovata una sufficiente per me, per lui, e per i nostri due asini. Egli aveva cura delle bestie, ed attendeva a far bollire un po’ di riso, unico nostro pasto, mentre io girava in cerca di mercanti, venuti dal Sud, per prendere informazioni. Trovai alcuni Amurrù-Galla, ed in cattivo abissino mi fecero comprendere che, per arrivare a Dabbo, vi volevano da cinque a sei giorni: ma che però questo viaggio sarebbe stato molto difficile e pericoloso, se non impossibile, ad un Turco (1). E quasi tutti quelli che interrogai a questo proposito, mi tennero il medesimo linguaggio.

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16. Il giorno appresso, verso le dieci, il mercato cominciava a popolarsi, ed andatovi col mio buon vecchio, portando sulle spalle le nostre mercanzie, stendemmo a terra una pelle, e mettemmo tutto in vista, tabacco, pepe, pietre focaje, zolfo, scatole, corone mussulmane, conterie, aghi, forbici, coltelli e rasoi di due soldi; un negozio insomma completo. Avvicinandosi i compratori, io mi occupava più delle persone che della merce; e perciò, lasciata al vecchio la cura di vendere, attaccava discorso or con l’uno ed or con l’altro, per avere notizie dei luoghi e delle popolazioni, in mezzo a cui doveva continuare il mio viaggio. Il vecchio, quantunque mi si mo- /107/ strasse affezionato, non lasciava però di essere mussulmano, e vedendomi occupato e distratto a parlare con questo e con quello, quando io volgeva gli occhi altrove, egli rubava e metteva da parte. Sicchè coloro, che se ne accorgevano, si sbellicavano dalle risa.

Vedendomi inoltre così poco curante della mia merce e niente esperto del negozio, e sentendomi parlare assai malamente quella lingua, alcuni miei compagni di viaggio cominciarono a metter fuori sospetti sulla mia persona; e chi diceva non essere io mussulmano, chi mi prendeva per un Egiziano, chi per una spia. Io ascoltava e faceva finta di non sentire. E perchè molti, attirati dalla curiosità, e dal minor prezzo, con cui, per Ill. Minacce e bastonate. || ignoranza di mestiere, vendeva gli oggetti, venivano a comprare da me, anzichè dagli altri, si suscitò in questi la gelosia, e cominciarono a darmi maggiori molestie. Finalmente conclusero tutti che io era un Frangi; e per accertarsi, messomi in mezzo, volevano obbligarmi a certi segni religiosi mussulmani, che io non poteva e non volli fare. La gente intanto si accalcava sempre più attorno a me, parte indifferente e parte minacciosa: quando uno, più insolente di tutti gli altri, m’impone di dire la formola di fede mussulmana. Naturalmente mi negai: allora con bastoni mi saltarono addosso, e cominciarono a menar le mani maledettamente, dicendo: Dalli al cristiano, alla spia del paese.

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/108/ 17. Le botte cadevano giù da tutte le parti: sicchè, vedendomi a mal partito, gridai: Kassà imùt (per la morte di Kassà). Fa duopo sapere che Kassà (il futuro Teodoro) era un Principe abissino, il quale spesso e volentieri faceva scorrerie in quelle parti, estorcendo a dritto ed a rovescio denari e generi da quelle popolazioni; onde, tutti lo temevano, e bastava pronunziare il suo nome, per essere riputati suoi sudditi o protetti. Al sentire adunque quelle parole, due soldati abissini, che per ordine suo si erano recati a Luka, e che giravano pel mercato, si avvicinarono; e facendosi largo fra la folla, giunsero sino a me, che stendeva loro le braccia, come per implorare ajuto: allora, mossi forse a compassione, presero le mie difese e mi tolsero dalle mani di quei furibondi. Fu chiamato poscia lo Scièk, anch’egli mussulmano fanatico, il quale cominciò a farmi una filastrocca d’interrogazioni; e finalmente avendomi domandato se appartenessi alla religione di Maometto, risposi francamente di no. Allora tutti di nuovo volevano avventarsi contro di me: ma lo Scièk ed i soldati, minacciarono la folla, e, presomi per mano, mi portarono via. Salvato da quel pericolo, principalmente pel soccorso dei due soldati, con tutto il cuore li ringraziai, e li regalai di una buona quantità di tabacco e di un pugno di pepe per ciascuno, di che furono molto contenti. Ritornati poscia al mercato, fecero severe ammonizioni a quei turbolenti, principalmente a nome di Kassà; la cui autorità temevano, non perchè Luka fosse sotto il suo dominio, ma per paura di rappresaglie: e così tutto ritornò in ordine.

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18. I due soldati erano stati mandati da Kassà allo Scièk di Luka per prendere quel tributo ch’ei soleva dargli sotto aspetto di regalo, ma in verità per tener lontano da quel paese lui ed i suoi soldati, ed insieme per non esser molestato dalle sue poco gradite visite. Or quei due messeri, avendomi trovato colà, ed inteso che raccomandavami al nome di Kassà, si avevano messo in testa di condurmi dal loro padrone, credendo di fargli cosa grata. Ma questa gentilezza non poteva piacere punto a me; poichè, condotto da lui, certamente sarei stato subito riconosciuto, ed essendo egli allora amico di Salâma, non avrebbe avuto nessuna difficoltà di consegnarmi nelle mani del mio nemico. Non potendo intanto manifestar loro questo mistero, mi schermiva alla meglio, adducendo principalmente la scusa della mia povertà, per cui non poteva offrire al Principe un regalo degno di lui, come sarebbe stato mio dovere. Fortunatamente anche lo Scièk era contrario a questa pretensione, forse per timore che manifestassi a Kassà il caso accadutomi nel mercato, e che egli prendesse quindi /109/ motivo a fare qualcheduna delle sue solite scorrerie. Preso allora maggior coraggio, tenni forte, e cominciai insieme ad accarezzare i due soldati, dando loro altri regali, tra cui un coltelletto per ciascuno; e così stringemmo perfetta amicizia, e non parlarono più di condurmi seco.

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19. Vedendoli intanto così benevoli verso di me, volli profittare di quest’occasione per ottenere da loro qualche agevolezza rispetto ai miei disegni; e manifestando loro l’intenzione che mi aveva di andare avanti sino a Dabbo, per comprare qualche oncia di oro, e cercar di far fortuna, li pregai di parlarne essi stessi allo Scièk, a fin d’indurlo a prestarmi il suo valido appoggio per continuare il viaggio. Non sel fecero dire due volte; e recatici insieme alla casa dello Scièk, perorarono con tanto interesse, che io stesso non avrei parlato in quella maniera. Ma fu fiato sprecato; quel ceffo di mussulmano si oppose assolutamente, adducendo la scusa che temeva di qualche pericolo per la mia persona. — Tutti questi mercanti, diceva, sono mussulmani, ed alcuni Haggi (1); e voi essendo cristiano, e non volendovi adattare ai loro usi, anderete incontro certamente a qualche sventura; il che mi esporrebbe a rappresaglie da parte di Kassà, dello Scièk di Matàmma, ed anche dei Turchi. — A queste parole non sapendo che rispondere, mi ritirai pensieroso e scoraggiato.

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20. Verso sera lo Scièk venne a trovarmi, e con una certa serietà ed affettata benevolenza mi disse: — Se vi fate mussulmano, ed acconsentite a ciò che vi si domanda per onorare la nostra religione, non avrò nessuna difficoltà di mandarvi con questi giovani mercanti, e son sicuro che nulla vi accadrà di sinistro: altrimenti cimentandovi a partire con essi, o con altri, correrete pericolo di essere ammazzato. — E di fatto alcuni dei mercanti, meno malvagi degli altri, sentendo che io cercava di partire per Dabbo, vennero ad avvertirmi di non credere alle assicurazioni, che certuni mi avrebbero potuto dare, perchè già si era fatta congiura d’immolarmi a Maometto! Un cristiano orientale ed anche qualche Europeo di coscienza elastica, forse non avrebbe avuto difficoltà di piegarsi a quella proposta, fingendo almeno di abbracciare per quei giorni l’islamismo, o meglio di adattarsi in qualche maniera ai suoi turpi usi: (e molti di questi ne ho conosciuti ed incontrati nella mia lunga dimora in Africa) ma io non era tale; e quindi, ringraziati quei mercanti, li accomiatai. In verità non sapeva che risolvere: se almeno in quella carovana si fosse trovato un numero di vecchi e di uomini assennati, anche mussulmani, mi sarei azzardato, senza però fare il menomo segno di abbrac- /110/ ciare la loro religione, a partire con essi, con la speranza d’indurli lungo la strada a buoni consigli: ma essi erano tutti giovani, cominciando dal capo, che non contava più di trent’anni, e giovani impertinenti, sfrenati e senz’ombra di senno e di educazione. Inoltre se avessi avuto perfetta conoscenza della lingua, ch’essi parlavano, pure mi avrei potuto ajutare con ragioni, consigli, preghiere ed altri mezzi di persuasione: ma non sapendo che appena balbettare un po’ di arabo e di abissino, tanto quanto bastasse per farmi intendere nelle cose essenziali, ed essi non parlando che i loro dialetti particolari, a me totalmente ignoti, certamente sarei stato il loro zimbello di notte e di giorno per tutta la via. Sicchè fui costretto smettere il pensiero di partire con quella carovana.

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21. Finalmente lo Scièk alla presenza dei due soldati, che non erano ancora partiti, rinnovò la protesta, che persistendo io a Voler proseguire il viaggio per Dabbo, egli non intendeva rendersi mallevadore della mia sorte. — Tuttavia, disse, voglio fare un ultimo tentativo. — E mi condusse da quei della carovana, proponendo loro di far la pace. Alcuni si mostrarono indifferenti, altri mi esortarono a farmi mussulmano, ed altri dichiararono di accettare la pace, a patto che mi fossi adattato ai loro usi.... Allora vedendo che la musica era sempre la stessa, mi ritirai nella capanna, e risolvetti di fare ritorno a Matàmma con la prima carovana che sarebbe partita. Qualche giorno dopo di fatto essa era pronta; metà apparteneva alla carovana venuta con me da Matàmma, tra cui il mio buon vecchio; e l’altra metà erano mercanti venuti dal Sud, ed alcuni da Dabbo. Lo Scièk mi diede una guida particolare, affinchè mi accompagnasse, e nulla mi accadesse in contrario, e con ordine di riferire ogni cosa allo Scièk Hibraim di Matàmma. E così in questo viaggio fui lasciato tranquillo, e nulla ebbi a soffrire.

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[Nota a pag. 102]

(1) Questa formola di giuramento, comune alla razza semitica, si ode sempre dalla bocca dei servi e dipendenti di un Re, di un Capo, e di qualunque altra persona grande e facoltosa, e non solo mentre questi si trovano in vita, ma anche dopo morte. Io però nol permisi mai ai miei servi e familiari. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 106]

(1) In quei paesi tutti i Bianchi venivano chiamati indistintamente Turchi. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 109]

(1) Santi mussulmani, che hanno fatto il pellegrinaggio della Mecca. [Torna al testo ]