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Capo VIII.
A Gassàn.

1. Partenza; scheletri umani; torme di elefanti. — 2. Vigliaccherie ed oscenità. — 3. Il soldato dell’Alto Egitto. — 4. Trattamento e paghe dei soldati. — 5. Conseguenze per le colonie egiziane. — 6. Compatimento ed augurio. — 7. A Gassàn. — 8. Le miniere di Gassàn. — 9. Visita alle miniere ed alle macchine del Tòmat. — 10. Quanto rendevano in principio queste miniere. — 11. Abbondanza di oro in quei paesi. — 12. Perchè si abbandonarono quelle miniere. — 13. Disegni di Mohammed-Aly sopra il Fazògl e l’Africa Orientale. — 14. L’origine delle miniere. — 15. Due mercanti uccisi a Fadàssi. — 16. Informazioni sulla strada ai Galla. — 17. Proposta di accompagnarmi con soldati. — 18. Altra risoluzione e penose perplessità. — 19. Patto di amicizia e partenza.

Essendo pronti i soldati e la carovana, si partì, dopo di aver dato una stretta di mano al Comandante, che mi aveva reso tanti onori e colmato di favori. Il giorno si camminò senza notevoli incidenti, e verso sera cominciarono a vedersi lungo la strada ossa umane, sparse qua e là; sicchè i soldati marciavano più guardinghi e con maggior cautela. La sera si fece sosta in una pianura per passarvi la notte: i soldati, formato un circolo, vi collocarono in mezzo, per essere più al sicuro, le donne ed i ragazzi, ed io mi attendai accanto al Capo della compagnia. Dopo la mezzanotte, appena affacciata la luna, ci rimettemmo in cammino; poichè non si ardiva viaggiare all’oscuro, per paura di qualche sorpresa di quegl’intrepidi Negri. Già per la via seguitavamo ad incontrare scheletri ed ossa umane in gran numero: e mi faceva meraviglia come quei soldati /85/ sapessero distinguere i cranj degli Egiziani da quelli de’ Tâbi: e veramente, osservandoli con attenzione, trovai che lo sviluppo occipetale di questi ultimi era più largo di quello dei primi. Si vedeva inoltre, un po’ lontano dalla via che tenevamo, una grande quantità di elefanti, che da soli ed a torme pascolavano in quelle pianure: non si scorgeva un albero intero, ma quasi tutti venivano rotti ed abbattuti da quei grandi colossi, per mangiarne le frondi. I soldati, cammin facendo, sparavano a quando a quando i loro fucili all’aria, ed avendo domandato perché non dirizzassero quei colpi piuttosto agli elefanti, di cui ne avrebbero potuto ritrarre qualche utile: mi risposero che non conveniva disturbarli; perché altrimenti, irritandosi, si sarebbero avventati su di loro, e sarebbe stato difficile per l’avvenire il passaggio delle carovane in quei deserti. — Mandiamo invece, soggiunsero, continui e replicati colpi in aria, per ispaventarli e tenerli lontani, ed anche per metter paura ai Tâbi. —

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2. Seguendo il nostro cammino, le montagne dei Tâbi si delineavano più al Nord-Ovest: e verso mezzogiorno del dì seguente, giunti ad un piccolo torrente, ci fermammo per desinare. Alcuni mi fecero osservare, poco distante di là, un mucchio di ossa umane, ed erano di una compagnia di soldati, sorpresi e trucidati cinque anni addietro da una banda di Tâbi. Dopo pranzo si parti, procedendo quei vigliacchi con tanta paura in corpo, e così guardinghi, che mi facevano nel tempo stesso pietà e stizza. La sera eravamo già ad una gran distanza da quelle montagne, ed una sorpresa sarebbe stata difficile; onde ci fermammo: ed i soldati, deposto il timore, si diedero a cantare, a danzare e ad ogni sorta di oscene allegrie. Passai una notte penosissima, per le brutali turpitudini cui si lasciarono andare quei figli di Maometto, senza che io potessi dir parola e far loro qualche rimprovero. Quanto si erano mostrati vili al solo timore d’incontrare i nemici, altrettanto poi divennero schifosamente coraggiosi dopo il pericolo!

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3. Al vedere tanta viltà ed insieme tanta corruzione in quei soldati, un sentimento di compassione misto a sdegno agitava l’animo mio. « Che meraviglia adunque se i Tâbi, diceva tra me stesso, li tengono in tanta soggezione, e riuscito il colpo, ne fanno si crudele strazio! » E per verità studiando l’ordinamento militare dell’Egitto, e per poco che si consideri il metodo che là si tiene nell’arrolare le milizie, ed il modo con cui vengono educate e trattate, si è costretti a concludere che quei militari di soldato non hanno che il nome. Il soldato del Sudan è per lo più uno schiavo di razza negra, cui si mette in mano una lancia od un fucile, senza poi pensare a dargli quell’educazione e quell’istruzione, che ad un corpo /86/ militare sono necessarie. Ogni ricco proprietario di quei luoghi, ed anche gli uffiziali civili e militari sogliono comprare giovani schiavi per i servizj delle loro case, e per altri usi più ignobili: e dopo alquanti anni, non trovandoli più di loro genio, li vendono al Governo, per essere arrolati nella milizia, e col denaro ricevuto fanno altre compre, per seguitare il medesimo mestiere, e poi il medesimo traffico. Con questo modo di coscrizione è impossibile arrolare giovani scelti e di sana costituzione, ma bensì si avrà una raccolta di gente snervata, corrotta e di niun valore. Gli stessi soldati presi in guerra ai nemici, o arrolati dal Governo presso altre tribù e nazioni, che non sono deturpati dalla corruzione turca, se piacciono ai capi ed ai signori privati, vengono cambiati con altri, già corrotti nelle particolari famiglie. Che valore adunque potrà sperarsi da questa razza di militari?

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4. Inoltre nessuna educazione, non dico religiosa, ma neppur militare loro vien data; e poichè si arrolano come le bestie, come un branco di bestie si continuano a tenere. Se almeno fossero ben trattati, e regolarmente pagati, si potrebbe loro imporre un po’ di disciplina, mercè la quale imparerebbero ad esser più sottomessi ed ubbidienti alle leggi ed ai Superiori; acquisterebbero un po’ di amore all’onore ed alla gloria della bandiera, e nei cimenti potrebbero dar prova di fedeltà e di abnegazione. Ma tutto ciò è inutile sperarlo; poichè in quanto a mantenimento ed a paghe son trattati quasi come i soldati abissini, ed anche peggio, che almeno a questi non si deve e non si dà nulla, laddove a quelli egiziani si promette, il Governo sborsa, ed i capi e gli amministratori rubano ed arricchiscono alle spalle loro. Di fatto il Governo annualmente assegna le paghe corrispondenti; ma il denaro non esce dalla tesoreria che uno o due anni dopo: poscia passa successivamente nelle mani delle Autorità subalterne, e vi resta spesso a tempo illimitato, fruttando s’intende a loro vantaggio, e restando nelle loro casse quello, che sarebbe toccato ai soldati morti o disertati in quello scorcio di tempo. Finalmente giunto nelle mani degli ultimi capi, questi danno ai poveri soldati quello che vogliono. E guai se qualcuno ardisse lamentarsi, o muovere ricorso! Ed a chi ricorrere se dai primi agli ultimi dei Superiori è tutta una lega di truffatori? Pertanto così mal trattati, mal pagati e mal vestiti, pieni di vizj e di brutali abitudini, senz’ombra di educazione e di moralità, insensibili a qualunque più piccolo sentimento di onore e di dovere, qual disciplina militare potrà trovarsi in essi, qual coraggio in faccia al nemico, qual valore nei cimenti? Essi quindi son da per tutto un motivo di disordine; /87/ Ill. a piena pagina Pel deserto. || /88/ senza ritegno si gettano sulle misere popolazioni, per rubare e far violenze a giovani, a donne, a tutti. E poi se accada di doversi battere, o fuggono, o passano, senza sentirne vergogna, con armi e bagaglio ai nemici.

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5. Da ciò adunque principalmente proviene che gli acquisti dell’Egitto nell’Alto Nilo non furono mai sicuri, e le colonie stabilite nel Fazògl e sul fiume Bianco non fiorirono giammai. Gl’indigeni, vessati continuamente dalle violenze e dalle ruberie dei soldati e dei loro capi, tiranneggiati dalle altre Autorità con turchesco dispotismo e con ogni sorta di soperchierie, abbandonavano i loro villaggi, ed andavano a cercare un asilo ed una esistenza più tranquilla in mezzo ad altri popoli selvaggi come loro, ma certo meno barbari dei conquistatori. Ed ecco la causa, onde quelle popolate regioni divennero deserti. Le tribù limitrofe poi, assalite giornalmente da quelle orde indisciplinate, per far bottino non solo di viveri, ma di schiavi e di schiave, furono costrette stare sempre in armi, per difendere le loro famiglie ed i loro averi. E quindi il Governo invece di trovare in esse buoni vicini, per lo scambio delle merci e per la sicurezza delle frontiere, ha dovuto combattere dal primo giorno a tutt’oggi nemici accaniti ed implacabili, che presto o tardi lo costringeranno a ritirarsi da quelle regioni. E questo disordine ancora fa sì che i viaggiatori trovino si forti ostacoli per penetrare fra quelle tribù; poichè esse, giustamente irritate dalle prepotenze di tal sorta d’invasori, odiano ed avversano qualunque forestiere, che volesse varcare i loro confini.

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6. « Povero Governo! diceva io allora tra me, che tanti uomini sacrificasti per conquistare questi paesi e rendere soggette queste selvagge popolazioni: e tanto denaro consumi per mantenere un esercito che ti custodisca la preda! Se invece di soldati, di fucili, di polvere e di cannoni avessi mandato in queste parti un drappello di buoni e zelanti Missionarj, che, col Crocifisso in mano e con la carità di Gesù Cristo in petto, avessero evangelizzato queste povere e semplici popolazioni, quanta maggiore utilità non ne avresti ricavato? e con quanta più facilità non sarebbe entrata fra di loro la vera civiltà? Poveri Tâbi! indi soggiungeva, che Iddio vi mandi un buon sacerdote; esso sarebbe il vostro conforto, il vostro educatore, ed il sicuro maestro del vostro incivilimento. Una casa di Missionari sopra le vostre salubri montagne basterebbe a rendere felici, prima voi, e poi i molti popoli che vagano raminghi in questi immensi deserti, per capitare un giorno negli agguati, tesi loro dai figli di Maometto, a fin di riempiere i vuoti fatti dal turpe codice del Corano! » Io in verità non poteva trattenermi dall’ammirare l’eroismo di quelle /89/ alpestre popolazioni, che, per conservare la loro indipendenza ed i loro costumi, soffrivano stenti e pericoli di ogni sorta, ed indomiti facevano prodigi di valore; e con tutto il cuore desiderai loro di tenersi sempre lontani dalla tabe di Maometto.

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7. Ritornando al mio viaggio, partiti la mattina di buon’ora, prima di mezzogiorno si giunse a Gassàn, posta sul pendio Sud di una collina, circondata di alte montagne, e quasi sulla sponda destra del Tòmat, fiume, che va a scaricarsi nel Nilo Azzurro, non molto lungi da Fàmaqua. Fui tosto condotto al Comandante della guarnigione, il quale volle assolutamente ospitarmi in casa sua, benchè più volte lo pregassi di trovarmi una casa a parte, per non essere di disturbo a lui, e per aver maggior libertà nei miei affari. Poscia fui visitato da Mohammed Effendi, Direttore generale delle miniere, ed uno dei compagni di quel Bey, che io aveva conosciuto a Kartùm. Già prima del mio arrivo gli erano giunte lettere di raccomandazione per me, speditegli dal suo antico collega, e fece il possibile, ma inutilmente, di avermi in casa sua; dove certamente avrei trovato più libera e più civile ospitalità; perchè, avendo ricevuto educazione europea, conservava ancora quelle maniere di fare e di trattare che a noi son proprie. Ma il Comandante, di origine albanese, e molto amante dei forestieri, non volle cedere: tuttavia mi promise di assegnarmi una capanna a parte, per dormire ed attendere liberamente ai miei affari, a condizione però di andare a pranzo da lui. Fui visitato inoltre da tutti gli Ufficiali militari e delle miniere.

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8. Tutta l’importanza di Gassàn le veniva dalle miniere di oro, che ivi si trovavano, scoperte o meglio scavate da Mohammed-Aly. Vi si teneva piazza militare con trecento soldati, duecento dei quali vi stavano sempre fissi, e cento accompagnavano a turno le carovane dirette a Kiri. Inoltre vi era l’amministrazione delle miniere con otto ufficiali superiori: tre di questi dirigevano ed invigilavano i lavori sul fiume Tòmat, dove con macchine si purgavano le sabbie, per cavarne l’oro, cui erano mescolate; gli altri attendevano agli scavi della miniera aurifera, posta là vicino, con circa cento operai addetti a quei lavori. Un Direttore generale mandava al Cairo a tempo stabilito i conti dell’amministrazione; verificati prima da un sopraintendente, che aveva residenza in Gassàn. Vi era poi un’altra amministrazione particolare, che si occupava della compra dell’oro portato dagli indigeni, e scambiato a conto del Governo, in gran parte con conterie ed altre merci di simil valore.

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9. Rimanendo sempre sconosciuto, tutta quella gente era persuasa che /90/ io fossi andato là con qualche missione segreta del Governo; e quindi era un andare e venire di Superiori e subalterni, per dirmi cose, che io avea tutt’altra voglia che di sapere: talmentechè non vi era imbroglio ed intrigo in quell’amministrazione che non mi si fossero fatti conoscere. Il Governo egiziano, vedendo il poco frutto, che si ricavava da quell’impresa, scriveva lettere di fuoco all’amministrazione, e minacciava di chiudere le miniere e richiamare tutti in Egitto; poichè quello che davano non era sufficiente per le spese della guarnigione e degli addetti ai lavori. L’amministrazione dal canto suo se ne scusava col dire che la miniera aperta era quasi esaurita, e che le sabbie portavano pochissimo oro: e temendo che il Governo prendesse veramente la risoluzione di chiuderle, gli proponeva di accrescere la guarnigione con altri duecento soldati, per inoltrarsi nell’interno, dove si era certi di trovare altre miniere, che avrebbero fruttato grandemente. Io, come ho detto, non voleva entrare in simili questioni, e quindi non voleva saperne punto delle loro querimonie: ma che! era un bel dire e protestare; fui costretto a sentir tutto e veder tutto. Assolutamente mi vollero condurre alla miniera ed al Tòmat, ed ivi mi fecero osservare minutamente gli scavi ed i lavori delle macchine. In verità, da quanto potei vedere e sentire, il Governo non poteva esser contento di quell’impresa; poichè, a dir le cose come stavano, l’amministrazione cercava più gl’interessi proprj, che quelli del Governo, che la pagava; e le miniere, anzichè per esso, fruttavano per quei bravi amministratori! Con quella persuasione sempre che io avessi qualche autorità presso il Governo egiziano, mi si offrirono alcune libbre di oro per segnare certi conti ed atti, che avrebbero loro servito di giustificazione: ma mi negai tanto all’una quanto all’altra cosa, dicendo di non potermene immischiare.

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10. Son già passati trent’anni che visitai quelle miniere, e venti dalla loro chiusura, per ordine di Abbas Pascià, e posso quindi dire qualche cosa intorno ad esse. Mohammed-Aly, che imprese quelle operazioni, era un grand’uomo, aveva tatto, sapeva scegliere le persone, ordinare le amministrazioni, e perciò poteva star sicuro che le cose sarebbero andate bene; e di fatto dalla miniera principale ricavava annualmente di bei milioni. Era questa in un piccolo monticello a forma rotonda, spoglio di alberi, e quasi interamente staccato dalle altre colline; scavando, vi si trovavano non solamente le solite sabbie e pietre aurifere, ma anche, dei pezzi di oro puro. Quando la vidi io, il monte era già quasi tutto scavato, e non dava che pezzi di quarzo misto a sabbia giallastra. Il /91/ fiume Tòmat poi, per mezzo delle macchine che purgavano le sabbie, da principio rendeva almeno un milione all’anno, ed io era certo che anche allora un tal frutto non doveva essere molto inferiore. L’oro inoltre che veniva dal Sennàar e da altre contrade, e che si scambiava in Gassàn con conterie ed altre merci, poteva calcolarsi a più migliaja di libbre, anche negli ultimi anni di Mohammed-Aly.

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11. Nel 1855 trovandomi in Gudrù, potei osservare l’abbondanza di questo minerale prezioso, proveniente da quei paesi. Di fatto nel mercato di Asàndabo n’entravano ogni anno parecchie migliaja di libbre; ed assai più ne veniva portato direttamente in Goggiàm ed a Matàmma da quei popoli, che non volevano entrare nei paesi galla. Da informazioni prese conobbi che quest’oro, tanto dalla parte del Fazògl e di Gassàn, quanto dall’interno dei paesi galla, era raccolto dagl’indigeni con poca fatica e con pochissima industria; poichè non si faceva altro, se non purgare semplicemente le sabbie, che, nelle grandi piogge, gli alluvioni strascinavano in tutta quella estensione, che si trova tra i paesi galla e Gassàn; distanza, che, in linea retta, non arriva ad un grado geografico. Or se gli alluvioni superficiali scoprivano e portavano tant’oro, bisogna dire che tutto quel terreno n’era sì ricco, che un Governo qualunque, attivandovi con giudizio ed arte i necessarj scavi, come fece Mohammed-Aly, ne avrebbe dovuto ricavare grandi tesori.

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12. Questi lavori furono continuati ancora alcuni altri anni a Gassàn: ma finalmente il Vicerè Abbas Pascià, vedendo che il frutto non bastava a pagare le spese, chiuse le miniere e richiamò le amministrazioni. Il Governo certamente avea ragione di dare questo passo; poichè là, come ho detto, invece degl’ interessi suoi, gli ufficiali superiori ed inferiori facevano i proprj. Che se essi avessero adempito fedelmente il loro dovere, l’utile non sarebbe mancato, essendo quei terreni ancora ricchi di oro. Invece gli operai, o passavano le lunghe giornate in ozio, oppure venivano occupati a coltivare i giardini degli ufficiali superiori sulle rive del Tòmat, o a cercare legna ed erba per le loro famiglie e pel loro bestiame. Gli ufficiali superiori poi, anzichè attendere al proprio ufficio, se la passavano in divertimenti e libertà mussulmane, ed a molestare i popoli circonvicini. Tuttavia se quel poco che si ricavava, fedelmente lo avessero consegnato, il Governo di certo non sarebbe venuto ad una tale determinazione. Lo stesso commercio di compra e di scambio con gl’indigeni era quasi cessato; perché invece di attirare con buone maniere quelle povere popolazioni, si facevano loro tante soperchierie, che amarono /92/ meglio prendere un’altra strada. Nel 1879, uscendo io dall’Abissinia esiliato dall’imperatore Giovanni, giunto a Matàmma, trovai un vecchio, antico allievo di Clot Bey, il quale era stato a Gassàn in qualità di medico: ed egli, parlando delle miniere, dolevasi dell’abbandono di quei lavori, perchè, senza far parte dell’amministrazione, aveva guadagnato circa mezzo milione, solo per prezzo del suo silenzio su ciò che dagli ufficiali si operava! Per tutti questi motivi, certamente ragionevoli, il Governo egiziano si ritirò da un’impresa, che tanto avea fruttato a Mohammed-Aly, e che avrebbe ancora reso buoni guadagni, se fosse stata tenuta da un’operosa e fedele amministrazione. Ma, a mio avviso, fu un grande sbaglio; poichè il guadagno ci sarebbe stato sempre, se, tolta quell’amministrazione infedele, vi si fossero mandate persone, se non di coscienza, almeno onorate e di morale condotta; o non volendo più oltre occuparsene, invece di chiudere le miniere, sarebbe stato meglio cederle a qualche Compagnia particolare, con vantaggio di entrambi. Ma è proprio dei Governi deboli aver paura di tutto, ed Abbas Pascià non era Mohammed-Aly!

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13. Per meglio conoscere che grande uomo fosse Mohammed-Aly, voglio qui riferire alcune confidenze che mi fece a Kiri il custode di quell’arsenale, rispetto ai disegni, che il Vicerè accarezzava nella sua mente su l’Africa Orientale e Centrale. Questo custode faceva parte della guardia particolare del Vicerè quando, prima di muover guerra alla Porta Ottomana, detta la guerra della Siria, visitò il Fazògl ed il Sennàar; e perciò egli dovea essere bene informato di ciò che meditava il suo signore. — « Se nella guerra, che sto per imprendere, diceva Mohammed-Aly, sarò vinto dalla Porta, mi ritirerò per la via del Nilo e del Sennàar in queste provincie, ed allora il Fazògl diventerà la mia residenza principale, ed il centro delle mie operazioni. Da qui poi partirò per la conquista dell’Abissinia, dei paesi galla e di tutti questi immensi spazj, che son bagnati dai fiumi Bianco ed Azzurro. » E sin d’allora, soggiunse il custode, il Vicerè ideò e diede principio alla costruzione di questo grande arsenale, che in breve fu edificato e fornito abbondantemente di tutte le provviste necessarie. —

E veramente quel custode non diceva fandonie, poichè quand’io vi passai, cioè nel 1852, venti anni dopo ch’era stato inalzato, lo trovai ancora in buona condizione, ed anche con molto materiale da guerra, non ostante l’indolenza e le depredazioni degli uffiziali e soldati, i quali erano giunti fino a vendere e scambiare per vilissimo prezzo i fucili agli Abissini; e /93/ se io avessi voluto comprare con poche somme oggetti di gran valore, non mi sarebbe stato difficile di ottenerli, anzi avrei fatto loro un piacere.

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14. È vero pertanto che l’attuazione di questi disegni del Vicerè dipendeva dalle future eventualità: ma però è sempre degno di ammirazione chi li concepiva; e basta gettare uno sguardo sulla posizione del Fazògl e dei suoi dintorni, per far ragione alle grandi idee di Mohammed-Aly. — Egli un giorno, soggiungeva il vecchio custode, additando i paesi del Sud-Est, diceva: « Vedete, questo territorio? a tutti sembra povero: ma pure mi darà l’oro necessario, per farmi seguire da mezzo mondo Ill. Ritratto di Mohammed-Aly || nell’ideata conquista. » E fu allora che decretò ed imprese l’operazione delle miniere, le quali, finché egli regnò, fruttarono grandemente. In un tentativo di conquista che volle fare, si spinse sino a Gondar, vincendo con somma facilità ogni ostacolo: e se le Potenze europee non l’avessero impedito, oggi sarebbe padrone dell’Abissinia. — E quel custode diceva il vero. Quarant’anni dopo, suo nipote Ismail Pascià volle tentare la medesima conquista: ma non riuscì che a fare una campagna di ricordevole obbrobrio, tanto sotto l’aspetto militare, quanto sotto quello civile e morale. E la ragione sta appunto in questo, che Mohammed-Aly era un gigante, ed il nipote un pigmeo!

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/94/ 15. Ritornando ora a ciò che veramente m’interessava, sin dal mio arrivo in Gassàn, anzichè delle miniere, mi era piuttosto occupato del viaggio che doveva fare, per raggiungere i paesi galla. E manifestando al Direttore generale il desiderio di recarmi a Fadàssi, si mostrò assolutamente contrario. — Nessuna difficoltà, mi diceva, vi sarebbe stata s’ella fosse venuto qualche tempo prima, ma ora è impossibile; poichè, essendo stati uccisi pochi giorni sono in quel mercato due negozianti egiziani; per questo deplorabile fatto, tra quei popoli e noi si mantiene una specie di guerra. Laonde andando là, la sua vita correrebbe pericolo; e noi non vogliamo renderci garanti dinanzi al Governo di quello che le potrà accadere. Piuttosto, soggiungeva, faremo venire qui tante persone che voglia, affinchè possa prendere tutte quelle notizie ed informazioni che desidera. — In verità quel Direttore si avea ragione di temere; poichè neppure i negozianti di Kartùm, venuti con me dal Fazògl e diretti al mercato di Fadàssi, ardivano andarvi dopo quel massacro: ma aspettavano a Gassàn i trafficanti del Sud per iscambiare le loro merci.

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16. Questi mercanti, che dal Sud portavano oro, muschio e schiavi, per venderli o scambiarli con i negozianti di Kartùm, non erano propriamente dei paesi galla, ma del Fazògl stabiliti a Fadàssi, per commerciare con i Galla; quindi da loro non avrei potuto avere che notizie vaghe ed indirette. Essi mi dicevano che una carovana, per giungere da Fadàssi alle prime frontiere galla, v’impiegava da sette ad otto giorni; ma che un corriere in quattro o cinque giorni vi sarebbe arrivato comodamente. Avendo chiesto se essi andavano nei paesi galla, mi risposero di no; ma che si fermavano ai mercati di frontiera, dove i Galla portavano le loro merci. Addetti al servizio di questi mercanti vi erano due schiavi galla, ed interrogatili del loro paese, mi risposero non esser molto lontano: uno era di Baccarè, e l’altro di Nonno; paesi che io per relazione avea conosciuto trovandomi nel Goggiàm. Da queste ed altre informazioni prese, due cose apparivano; una favorevole, ed era che i paesi galla, dove voleva andare, non erano molto lontani da Gassàn, confinando Baccarè con Leka, e Nonno con Ennèrea: l’altra contraria, cioè che i Galla non lasciavano varcare le loro frontiere ai mercanti venuti da paesi turchi od egiziani. Nè i Galla solamente, ma neppure le altre tribù negre, poste di là di Fadàssi, permettevano ad un Bianco, da essi chiamato e creduto un Turco, di penetrare nei loro paesi. Di fatto i due egiziani trucidati nel mercato di Fadàssi, non erano stati uccisi dagli abitanti di quel paese, il quale viveva col commercio di Gassàn, ma da gente negra venuta al mercato.

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/95/ 17. Tuttavia il Comandante ed il Direttore si offrirono di farmi accompagnare da un centinajo di soldati, qualora avessi voluto assolutamente veder Fadàssi. — Ma l’assicuriamo, dicevano, che al loro arrivo, eccetto i pochi abitanti del paese, che sono sempre in comunicazione con noi, tutti fuggiranno con i loro schiavi e con le loro mercanzie, avendo paura di rappresaglie; poichè, dopo l’ultimo misfatto, temono che noi ci recassimo là per vendicarci. — Quei signori mi facevano una tal proposta, e tenevano questo linguaggio per isgravarsi di ogni malleveria col Governo, in caso che mi fosse accaduta qualche disgrazia: ma in cuor loro, credendomi una spia, forse desideravano che fossi piuttosto partito per quelle parti, poco curandosi della mia sorte. Anzi chi sa se non sarebbero stati contenti che mi fosse accaduto qualche sinistro accidente, sapendo bene che già era a conoscenza di molte loro magagne!

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18. Finalmente vedendo che tanti ostacoli m’impedivano un’entrata ai Galla per la parte di Fadàssi, risolvetti di ritornare a Kiri, e prender là ulteriori risoluzioni. Questa mia determinazione intanto mise quella gente in gran pensiero; e, tenuto consiglio, mi offrirono confidenzialmente varj regali, coll’intento di cattivarsi maggiormente la mia amicizia, ed assicurarsi che nulla avrei manifestato di quei segreti, che li avrebbero certamente esposti a severi castighi da parte del Governo. Questa inaspettata generosità mi mise in grande impiccio; poichè accettare i loro doni, era lo stesso che entrare a parte di quelle ruberie, o almeno far vista di approvare le loro infedeltà; cosa per me niente onorevole, ed anche poco coscienziosa. D’altra parte il rifiutarli, mi avrebbe maggiormente messo in sospetto presso di loro; e dovendo ritornare a Kiri, non sarebbe stato punto difficile di esser fatto segno a qualche loro brutto tiro, anche schivando ogni pericolo di doverne rendere conto al Governo. Quella gente simili cose le sa fare, e bene! Mi venne in mente di aprire il mio segreto, e manifestare la mia qualità di Missionario, per assicurarli che mal si apponevano, credendomi una spia, e che quindi da me nulla potevano temere: ma questa manifestazione a gente che, quanto a mantener segreti, è peggio delle donne, mi esponeva a molte e gravi difficoltà; poichè, trovandosi in Gassàn alcuni mercanti di Gadàref e di Matàmma, e venendo questi a sapere chi foss’io, non avrebbero mancato certamente, al loro ritorno in paese, di spargere la notizia della mia nuova entrata in Abissinia: e quindi il partito copto si sarebbe messo in allarme, ed ecco ricominciata la persecuzione! E già il mio contegno grave e riservato, l’avermi veduto qualche volta recitare il Breviario e le solite /95/ preghiere (quantunque avessi cercato di nascondermi), l’avere talvolta sgridato alcuni, che alla mia presenza si permettevano illeciti atti; per tutte queste cose la mia persona era divenuta un po’ sospetta di pretismo: e varj discorsi si facevano su questo punto, per me meno piacevoli di quelli, che mi riputavano una spia.

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19. In fine replicai la protesta di non avere ingerenza alcuna con i loro affari; di non esser che un semplice viaggiatore, intento solo ad esplorare il Nilo e le sue adiacenze; e che nessuna missione pubblica o segreta mi aveva avuto dal Governo egiziano. Ma che! era un bel dire; queste dichiarazioni li confermavano maggiormente nei loro sospetti: sicchè per contentarla fui costretto di accettare qualche piccolo regalo, e prometter loro con giuramento un’eterna amicizia. Allora si acquetarono, e mi colmarono di maggiori gentilezze. Vollero fare un pranzo a mio onore; ed ivi, in mezzo a quell’abbondanza di carne e di altri intingoli, gli evviva al signor Bartorelli si sprecavano ed echeggiavano per tutta la sala. Giunto il giorno della partenza della carovana, vennero tutti ad accompagnarmi per un tratto di strada, dandomi profusamente quante dimostrazioni più potessero di ossequio e di amicizia.