Missione e Viaggi nell’Abissina
di Monsignor Guglielmo Massaia
Vescovo di Cassia e Vicario Apostolico dei Galla

1857

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Capitolo III.

Sommario

Monsignor Massaia nell’interno dell’Abissinia. — Divisione dell’antico impero abissinio. — L’Abuna persecutore. — Fuga dei missionari. — Il porto di Aden. — Spedizione di Ubiè contro Massova.

Monsignor Massaia (1a) era arrivato a Massova verso la fine d’ottobre del 1846, con tre missionari, i PP. Cesare, Giusto, Felicissimo. Questo porto dell’Abissinia non è altro che una pessima isoletta, situata a cinque minuti dal continente, e soggetta alla dominazione turca. Era un punto importante della costa ai tempi che l’impero abissinio fioriva; si veggono ancora cisterne e pozzi in gran numero, per contenervi /33/ l’acqua piovana: perchè Massova non è che un arido scoglio, ove nè un brano d’erba verdeggia, nè fonte alcuno vi scaturisce. Se non che questi monumenti preziosi dell’antichità sono al tutto in mina, dacchè i musulmani se ne impossessarono. Rimane ancora un’antica chiesa, con finestre ad arco diagonale, fabbricata dai Portoghesi; la quale fu poi voltata in moschea. È l’unico vestigio della religione cristiana.

Per recarsi da Massova sullo spianato dell’Abissinia ti sta dinanzi un pendio di tre mila metri, formato da più catene di monti, situati a modo di scala. Il viaggiatore, giunto a quella smisurata altezza, cammina attraverso altre montagne, cui il mattino scorge talora coperte di brina. Colà respiri aere purissimo; ma quantunque sotto la zona torrida si patisce del freddo. Tutte le cime, che si trapassano, fino al piede della grande spianata, sono generate da vulcani, o piuttosto sono altrettanti crateri spenti. Secondo che li discosti dal mare, la vegetazione si mostra più doviziosa e robusta; e, fra l’altre piante sconosciute in Europa, vi sono alberi che producono il balsamo e la gomma. Gl’indigeni non /34/ se ne curano, siccome quelli che, essendo tutti pastori, il principale loro sostegno sta ne’ bestiami. Altri menano vita errante, altri si stabiliscono in qualche pianura, ove possono agevolmente pascere le mandre. La religione loro è il maomettismo; ma un tempo furono cristiani, e, in memoria dell’antica fede, osservano ancora le feste di Pasqua, di Pentecoste, dell’Ascensione e dell’Assunzione. Se avviene, che loro dimandi, perchè rispettino cotali feste, risponderanno: i padri nostri facevan così.

A meglio mostrarvi la persecuzione da tre anni patita, scorreremo con rapido sguardo il paese, che Monsignor Massaia ebbe a traversare. L’antico impero dell’Abissinia, che sin dall’invasione dei Galla più non esiste, è attualmente diviso in tre regni: Tigro-Amara, ossia regno Ubiè; Choa, composto in gran parte di tribù Galla; e quello del Goiam. Si fanno sempre guerra; però i re loro abitano sotto tende, con intorno i loro soldati, sempre in procinto di movere assalto: che consiste in distruggere e fare scempio di quanto si para loro davanti. I nuovi dominatori hanno per altro serbato un’ombra dell’antico Janni, ov- /35/ vero imperatore abissinio: monarca, di nome soltanto, la cui autorità si restringe a porre leggier gabella sopra il butirro. Il suo palazzo è quello degli antichi imperatori in Gondar.

Benché i cristiani dell’Abissinia professino l’errore di Dioscoro (1b), condannato dal Concilio di Calcedonia, moltissimi si vivono in completa ignoranza su ciò, e /36/ credono che il loro Vescovo, o l’Abuna, inviato ad essi dal patriarca scismatico del Cairo, sia in comunicazione col Papa.

Giusta le leggi del paese, in Abissina non può essere che un solo vescovo, e v’ha pena la testa contro chi ne usurpasse il titolo. E questo fu motivo della persecuzione a danno di Monsig. Massaia. L’Abuna presente era, prima che fosse creato vescovo, un povero giovane, il quale altro bene non possedeva, tranne un asino, che dava a nolo ai viaggiatori. Passati due anni di studio al Cairo, essendo tenuto ammaestrato quanto bastava ad adempiere le funzioni episcopali, fu ordinalo, e poscia inviato nell’Abissinia con ministri anglicani, i quali vennero tempo dopo scacciati dal popolo. Da questo punto cercò occasione di opprimere i cattolici, perchè di giorno in giorno crescevano in numero, ed erano da lui reputati promotori della sbandizione de’ missionari protestanti. Ora, un viaggiatore europeo (di cui taccio il nome), avendo avuto a dolersi di Mons. Massaia, perchè non volle in favor suo commettere un atto d’ingiustizia, deliberò vendicarsene. Caddegli in mano lettera diretta al Vicario Apostolico: l’aperse, e /37/ recatala all’Abuna, gli disse: «Ve’, ha un altro vescovo in Abissinia. — Che di’ tu mai, interruppe colmo di sdegno l’Abuna! morrà. Ove si annida? — L’avrai. Ma che mi darai tu?». Convennero del prezzo: indi l’Abuna continuò: «M’occorrono soldati, Ubiè me ne darà». Recossi pertanto dal re e gl’intimò di fornire soldati, che pigliassero ed ammazzassero il vescovo straniero, il quale stavasi in Abissinia a dispetto delle leggi del regno. Ubiè, nonostante l’affetto, che segretamente nutre verso i cattolici, gli concesse gli uomini che richiedeva. Allora l’abissinio disse al nuovo Giuda: «Va, e mena a me l’Abuna Massaia vivo o morto. — T’affida». Così rispose l’europeo; e partì coi soldati. E questi gli domandarono: «Or, come il conosceremo noi? — Colui, il quale ha una gran barba rossa, al quale fanno saluti in chiesa, ed al quale io bacierò la mano, è l’Abuna Massaia; pigliatelo».

Ma Dio, che veglia sui servi suoi, non permise che il tradimento avesse effetto. Un fervente cattolico, che aveva spillato tutto, li precedette; e giunto a Gulla, ov’erano i missionari, svelò la trama al sig. de Jacobis, il quale, senza far motto /38/ di ciò a Monsignore, il fece immantinente partire per un’amba (1c). E il giorno appresso, tutti i missionari, seguiti da alcuni cristiani, che portavano la roba loro, si ritirarono sopra altre montagne. Era il dì 13 di maggio dell’anno 1847. L’Abuna, veduta rotta la trama, pose in opera tutta l’autorità sua in fare quanto più male si poteva ai cattolici. Pubblicò, in tutti i mercati dell’Abissinia, una sentenza di scomunica contro Monsignor Massaia ed i preti di lui; per la quale era proibito ad ogni abissinio di dar loro da bere e da mangiare, o di riceverli in casa; e promettevasi una somma di cento talleri a chiunque gli recherebbe la testa d’un missionario. Cotale strepito non valse che a far vie meglio conoscere la fede cattolica. Il nome di Monsignor Massaia fu da indi in poi nelle bocche di tutti; e dappertutto parlavasi del nuovo Abuna, inviato dal Pontefice di Roma.

Al 3 di giugno, furono di nuovo perseguiti, ed in necessità d’abbandonare /39/ quei luoghi, per cercarsi altrove un più sicuro asilo. Mentre erano tutti insieme adunati, la capanna, ove ebbero rifugio, venne improvvisamente circondata da soldati. Ciascuno di essi aspettavasi d’aver tagliata la testa, come quelli che non avevano, scampo. In tale estremo punto Monsignore volle, qual ottimo padre, dare la propria vita per salvare quella dei figli. Stava per mettersi in mano dei suoi nemici; ma i compagni di lui si opposero, dicendo: «Se si debbe morire, moriamo tutti». E si confessarono sollecitissimamente l’un l’altro; indi si misero ad orare, aspettando con rassegnazione il martirio. Frattanto grida da barbari si udivano intorno della capanna; ma nessuno soldato ardì entrare. Indi a poco s’intese più orrendo trambusto, quasi di un combattimento. La porta della capanna venne abbattuta; e ciascuno degli apostoli credette la sua ultima fine essere giunta. Un guerriero stava sopra la soglia, brandendo la lancia, e minacciando chiunque ardisse avanzare. O protezione della Provvidenza! Costui era un capo, amico dei cattolici, quivi accorso colla sua tribù per liberare i missionari. La sua presenza intimorì gli assalitori, /40/ che, disperando vincere colla forza, si sbarattarono e si dileguarono da ogni banda. Il vicario apostolico colse il destro, per avvicinarsi al mar Rosso; e persuaso, che il suo carattere episcopale fosse la cagione precipua di quella persecuzione; ed avvisando, ch’essa verrebbe ad estinguersi quando egli fosse lontano, deliberò di lasciare per qualche tempo l’Abissinia, e movere alla volta di Aden (1d).

/41/ Mentre scostavasi con rammarico della sua Missione, nuova tempesta assalse a Guolla i confratelli di lui. Era la sera dell’Immacolata Concezione, ed avevano finito il rosario, quando udirono improvviso alte grida di fuori. S’apre la porta, ed alquanti cattolici entrano precipitosi nella capanna, e gridano: «Fuggite, fuggite: i soldati sono qui: hanno ordine di trucidarvi». Ciascuno pigliò ciò che aveva di più prezioso, e si affrettò di correre alla montagna per trovarvi rifugio. I soldati giunsero poco appresso: tolsero quanto rimaneva nella casa, e se ne impossessarono in nome del re Ubiè.

/42/ Essendo notte, ed il cielo coperto di nuvoli, i nostri fuggitivi si smarrirono in mezzo ai boschi. A guidarsi gli uni dietro agli altri fra quelle tenebre non avevano altro indizio che lo stormire dei cespugli che rompevano nel camminare, ed il rombolare de’ sassi, che si staccavano sotto il piede di quelli che aprivano la via; e passavano sopra le teste de’ loro compagni posti più basso. E finalmente una dirottissima pioggia venne a’ togliere loro la poca lena che ancora serbavano. Così giunsero l’uno appresso dell’altro sull’opposta pendice della montagna, ove un vento freddissimo era sottentrato alla pioggia. Gelati, infranti dalla fatica, stimolati dalla fame, dalla sete, dal sonno, si risolvettero, ad onta del timore d’essere ancora perseguiti, di fermarsi e di riposarsi un istante. Uno di essi avendo scorto da lungi alcune capanne, andò a chiedere fuoco, mentre gli altri raccoglievano rami da accendere al ritorno di quello. Ma non venne lor fatto, le legna essendo troppo pregne di acqua. Allora, a ristorare alquanto le forze smarrite, intrisero un po’di farina, e fattane una specie di pasta, se la spartirono: indi ciascuno si coricò sull’umido /43/ suolo. Un’ora appresso spuntava l’alba: e tosto deliberarono di separarsi, per giungere più facilmente nell’Altiena, ove il sig. de Jacobis erasi già recato. È una contrada indipendente, nella quale sta numerosa e povera tribù di pastori, divenuti cattolici: il fiore della cristianità abissiniana. Il paese è misero, tutto di aride rupi o di pianure infeconde; ma i missionari vi gustano vere consolazioni. Quivi infatti si compie appunto quella parola del nostro divino Maestro: Pauperibus evangelizare misit me (Dominus) (1e). I fuggitivi poterono finalmente riposarvisi in pace.

Verso la fine di ottobre dell’anno 1848 Monsignore ed il Padre Felicissimo approdarono di nuovo a Massova. Quest’isola, che fino allora era stata in perfetta quiete, fu ad un tratto colmata di terrore: e la cagione fu questa. L’antico governatore era, a dispetto del diritto delle genti, disceso improvvisamente sul territorio abissinio, ed erasi impadronito della città d’Arkico, dopo averla manomessa. Vi piantò un fortino, vi lasciò un presidio, presso il quale vennero a fon- /44/ darsi nuove capanne, e nominò un capo, posciachè ebbe posto in ferri quello che era tributario del re Ubiè. Tenne dapprima questo principe celato il suo risentimento, la stagione essendo troppo avanzata per discendere sulla costa ne’ dintorni di Massova, che tutto il mese di giugno, di luglio e di agosto non sono altro che sabbione ardente. Ma nel novembre del 1848, raccolti improvviso i suoi cavalieri, in numero di tre mila, irruppe a guisa di fulmine sopra le rive del mar Rosso, incendiando tutto ciò che incontrava, tagliando a pezzi gli uomini, menando schiave le donne ed i fanciulli, e pigliandosi tutto il bestiame in cui s’abbatteva. Così fu incendiato il villaggio di Montecullo, e con esso la cappella della Missione. Il console francese, il quale aveva una casa sul continente, inalberò indarno la sua bandiera, che fu abbattuta, trascinata nel fango, ed ignominiosamenle bruciata. Anzi non trovò egli stesso scampo che nella fuga, e nella devozione de’ suoi servitori.

Gli Abissini giunsero dirimpetto Massova, facendo caracollare i loro focosi destrieri, mandando gridi selvaggi, e brandendo le loro lancie e le loro sciabole /45/ contro della città; ma perchè non avevano barche, nè conoscevano i bassi fondi, non poterono arrivare all’isola, che frattanto stavasene piena di ambascia. Se la presenza dei nemici fosse durata ancora un poco sopra le coste, gl’isolani correvano pericolo di morire di sete e di fame, stantechè l’acqua ed il grano vi traggono dal continente. Un altro pericolo mostravasi nell’interno. Il segretario del divano, turco fanatico assai, macchinò di far massacro, per diritto di rappresaglia, di tutti i cristiani che trovavansi in Massova. Se non che il governatore Cally bey, amico sincero de’ bianchi, significò ai congiurati, che metterebbe il fuoco alla città, ove torcessero pure un capello ad un europeo. Ciò nonostante fece, a maggior sicurezza, avvisare Monsignor Massaia e gli altri forestieri, che buon consiglio sarebbe si ritirassero alcuni dì a Dalac, isola non discosto da Massova.

(1a) Narrazione desunta dalla lettera del R. P. degli Avanchers, religioso cappuccino, scritta da Massova, costa dell’Abissinia, il 12 di marzo 1850. [Torna al testo ]

(1b) Dioscoro succedette nella cattedra patriarcale di Alessandria (d’Egitto) a S. Cirillo nel 445. Fu uomo ambizioso e prepotente. Tolse a proteggere le dottrine di Eutiche, già condannate nel Concilio di Costantinopoli nel 448, il quale insegnava che nell’incarnazione del divin Verbo eransi insieme confuse le due nature, divina ed umana; talchè, come havvi in G. C. una sola persona, cosi pure vi si dee riconoscere una sala natura. È celebre nella storia ecclesiastica il latrocinio d’Efeso, cioè a dire il Conciliabolo, in cui per opera di Dioscoro fu condannato, e maltrattato S. Flaviano, patriarca di Costantinopoli. Ricusò Dioscoro di comparire al Concilio generale di Calcedonia, a cui era stato citato, e da cui furono quindi condannate le di lui dottrine. Giunse a tal segno di temerità, che scomunicò il Pontefice S. Leone, il quale nella celebratissima sua lettera a S. Flaviano l’aveva confutato. Rilegato dall’imperatore a Gangri, nella Paflagonia, vi mori miserabilmente nell’anno 438. (V. Feller, Biographie univ. art. Dioscore. — Massini, Vita di S. Flaviano, sotto il 17 di febbraio.) [Torna al testo ]

(1c) Chiamano amba, in Abissinia, alle montagne coperte di verdura, ed al tutto inaccessibili. Vi si monta per mezzo di funi. [Torna al testo ]

(1d) Aden è città di 45,000 anime sulla costa dell’Arabia, a venti miglia, a scirocco, da Babelmandel. È come una penisola, con porto magnifico, atto a ricevere più di cento vascelli. La penisola è circondata da una catena di monti vulcanici, e la città è come assisa in mezzo del cratere. Prima del 1835 era la capitale d’un principato indipendente, e la residenza d’un sultano. Allorchè la Compagnia delle Indie stabilì la sua linea delle patascie a vapore, chiese permesso di farvi, provvisoriamente, un deposito di carbone; ma non tardò poi ad impadronirsi del terreno imprestatole, ed a confinare il sultano nell’interno del paese, mercè di un dono annuale. Oggi Aden è divenuta rôcca formidabile, che con ragione si chiama il Gibraltar dell’Oriente, e che non sarà mai presa per forza.

Ha d’ordinario in Aden 2,000 soldati, de’ quali 600 Inglesi od Irlandesi; gli altri, Indiani. Di questi il terzo, o poco meno, è cattolico: il rimanente, idolatra; e fra questi si fanno pur molte conversioni. Il numero de’ fanciulli cattolici nella città è di cento al più; ed è doloroso il vederli costretti di frequentare la scuola protestante, perchè è l’unica nel luogo. A toglierli da tale pericolo gioverebbe chiamarvi i Fratelli della Dottrina Cristiana e Religiose; ma lo stabilirvisi sarebbe cosa piena di ostacoli.

Il clima è poco salubre: il terreno non produce vegetazione di sorta: e lo spazio vi manca per fare un po’ d’esercizio: però i missionari, appena rimasti colà due o tre anni, ci perdono la salute o la vita. E non pertanto la Missione di Aden è per ora il solo punto della costiera, ove si goda di una qualche tranquillità, ed ove si possano gettare alquanto solidi fondamenti. [Torna al testo ]

(1e) Il Signore m’inviò ad evangelizzare i poveri. [Torna al testo ]