→ Latino Eginardo
Vita di Carlo Magno

Da Alessandro Cutolo, Tre cronache medievali, Bompiani 1943, con alcuni adattamenti redazionali, tra cui l’aggiunta dei titoli dei singoli capitoli.
Questa versione è da considerarsi semplice ausilio alla lettura del testo latino.

  1. Per molto tempo i Merovingi governarono sui Franchi col vano nome di “Re”
  2. Il Maestro di Palazzo Carlo (Martello)
    — I figli di Carlo: Pipino e Carlomanno
  3. Pipino diventa Re dopo l’estromissione di Childerico. Durata del suo regno, sua morte, e divisione del regno fra i figli Carlo e Carlomanno
    — Morte di Carlomanno ed inizio del regno di Carlo
  4. [Nessuna notizia su nascita e infanzia]
  5. La fine della guerra in Aquitania
  6. La guerra contro i Longobardi, cause e conclusione
  7. Difficoltà, durata e conclusione della guerra contro i Sassoni
  8. Costanza e magnanimità di Carlo
  9. Imprese in Spagna, e sconfitta inflitta dai Baschi al suo esercito
  10. Sottomissione dei Bretoni e dei Beneventani
  11. Agevole conclusione della guerra in Baviera
  12. Come furono sottomessi i Vilzi
  13. Atterrata la superbia degli Unni. Morte dei duchi Enrico e Geroldo
  14. Inizio e conclusione della guerra contro i Normanni
  15. Di quanto Carlo incrementò il regno dei Franchi
  16. Politica di alleanze con le nazioni straniere
  17. Attività edilizia per il decoro e la sicurezza del regno
  18. [Introduzione alla parte successiva dell’opera]
    — La vita privata di Carlo. Mogli e concubine; figli e figlie, e loro istruzione; la madre e le sorelle
  19. [Educazione dei figli e delle figlie]
    — I figli morti prima di lui; cura nell’educazione dei figli e delle figlie di Pipino e dei suoi
  20. Due congiure fatte contro di lui rapidamente e felicemente sedate
  21. [Amore per gli stranieri]
  22. Il suo aspetto fisico
    — I suoi svaghi
  23. I suoi abiti
  24. Come si regolava col mangiare, il bere, il dormire, e di cosa si occupava a pranzo
  25. L’ammirevole interesse per gli studi
  26. Come arricchì il decoro delle chiese
  27. La sua generosità nelle elemosine
    — Il suo amore per la chiesa romana, e l’elevazione alla dignità imperiale
  28. [Carlo eletto imperatore]
  29. La riforma delle leggi
    — I nuovi nomi dei mesi e dei dodici venti
  30. La nomina del figlio Ludovico a Imperatore e suo erede
    — Morte e sepoltura dell’Imperatore Carlo Magno
  31. [Sepolcro di Carlo Magno]
  32. I prodigi che preannunciavano la sua morte
  33. La divisione del suo tesoro
    — Il lascito di due parti dell’eredità ai luoghi santi
    — Il lascito della terza parte
    — Sue disposizioni relative alla cappella e ai suoi libri
    — Delle tre mense d’argento e della quarta d’oro

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→ Latino Prefazione

Quando deliberai di narrare la vita ed i costumi e le principali gesta dell’illustrissimo e tanto giustamente famoso re Carlo, signore e mecenate mio, stabilii di farlo nella maniera più breve possibile, pur badando a non dimenticare nulla di quel che fosse stato a mia conoscenza. Ma mi proposi, nel contempo, di non aduggiare, con una narrazione prolissa, quanti hanno a noia tutto ciò che sa di novità. È possibile, però, mai non dispiacere, con un nuovo scritto, a quelle persone che non sopportano più nemmeno le opere antiche, ancorché dovute ad uomini dotti ed accorti?

Son certo che molte persone, vaghe di lettere, non stimano tanto disprezzabile il tempo in cui noi viviamo da condannare al silenzio ed all’oblio quasi tutto quanto in esso si svolga, reputandolo non degno di memoria alcuna; ma per mettersi in evidenza esse narrano, come che sia, i fatti memorabili degli altri, tutte tese a non lasciare nella penna nulla di quanto valga ad affidare il loro nome alla posterità. Ciononostante, non ho creduto, per varie ragioni, di rinunziare a questo lavoro; ero convinto, infatti, che nessuno potesse essere più di me nel vero per narrare avvenimenti ai quali intervenni di persona, che vidi, come si dice, coi miei stessi occhi; non giunsi, poi, a sapere se v’era chi si assumesse l’incarico di questa narrazione. Credetti perciò, che fosse meglio correre il rischio di tramandare con altri alla posterità i medesimi avvenimenti, piuttosto che far coprire dalle tenebre dell’oblio la nobilissima vita di un grandissimo re, il più grande uomo certo della sua età, e le sue gesta inimitabili da parte di qualsiasi individuo dell’età moderna.

Ma un’altra causa (e molto ragionevole mi pare) sarebbe, anche da sola, sufficiente per indurmi a scrivere la presente narrazione: la riconoscenza che provo verso chi m’ha dato il sostentamento, e l’amicizia eterna, annodata con lui e con i suoi figli, da quando cominciai a vivere in quella corte. Essa mi attaccò tanto a lui, e tanto verso di lui mi pose in debito, che mi reputerei il più ingrato degli uomini se, immemore di tutti i benefici ricevuti, circondassi di silenzio le gloriosissime gesta di un uomo (cui ripeto, tanto debbo) e quella vita; se tollerassi che una simile esistenza rimanesse senza illustrazione alcuna e priva di una lode tanto giustamente dovutale, quasi egli non fosse mai vissuto.

Vero è che, per illustrarla degnamente, occorrerebbe l’eloquenza di un Cicerone e non il povero ingegno mio, meschino e modesto tanto da parer nullo. Pur tuttavia eccoti, o lettore, questa narrazione scritta in memoria di tale grandissimo e degnissimo uomo. In essa, oltre agli avvenimenti di quella esistenza, tu null’altro avrai da ammirare se non la circostanza che io, uomo barbaro e persona appena esercitata a fraseggiare nella lingua di Roma, abbia osato, con enorme impudenza, disprezzare l’ammonimento di Cicerone. Questi, nel primo libro delle Tusculane, là dove parla degli scrittori latini, così dice: «Tramandare per iscritto i propri pensieri quando non si sappia né esporli con ordine, né illustrarli, né suscitare un qualsiasi interesse nel lettore, è solo degno di un uomo che voglia fare cattivo uso delle lettere e del tempo». La massima di quel grande oratore mi avrebbe certo distolto dallo scrivere, se non avessi chiaramente deliberato che meglio valeva affrontare il giudizio degli uomini e, scrivendo, fare il danno dell’ingegnuccio mio, che non, per il mio interesse, trascurare la memoria di una tanto illustre persona.

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→ Latino 1

Per molto tempo i Merovingi governarono sui Franchi col vano nome di “Re”

Pare che la famiglia dei Merovingi, dalla quale i Franchi erano usi trarre i loro sovrani, sia durata sino a re Childerico. Questi, per ordine del romano pontefice Stefano, ebbe tagliati i capelli e venne rinchiuso in un monastero. Ma, quantunque sembri che la casata finisca con lui, essa già da lungo tempo aveva perduto ogni suo vigore: non v’era nessuno, infatti, in quella famiglia, che avesse in sé qualcosa di notevole tranne quel vano appellativo di re. La ricchezza e la potenza del regno, erano, di fatto, nelle mani dei prefetti di palazzo chiamati «i maggiordomi», che detenevano tutto il potere supremo. Il sovrano, pago del suo appellativo regio, della sua lunga capellatura, della sua prolissa barba, doveva solo sedere in trono, atteggiandosi a dominatore, ricevere gli ambasciatori, che gli venivano d’ogni parte, e consegnar loro, alla partenza, quelle risposte che o già conosceva o gli erano letteralmente imposte. Oltre a questo vano titolo di re e ad un precario appannaggio che gli passava (quando gli pareva) il prefetto di palazzo, il re non possedeva in proprio che una campagna, di modestissimo reddito, in cui era una casa con un piccolo numero di servi che badavano a lui e gli fornivano il necessario. Quando doveva spostarsi, si serviva di un carro tirato da buoi e condotto, alla maniera paesana, da un bovaro. In tale guisa si recava al palazzo alla pubblica assemblea popolare che si riuniva ogni anno per la trattazione della cosa pubblica; così ritornava a casa. Il prefetto di palazzo, invece, curava l’amministrazione del regno e prendeva tutte le disposizioni necessarie sia all’interno che all’esterno.

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→ Latino 2

Il maestro di palazzo Carlo (Martello)

Tale ufficio, quando Childerico fu deposto, era affidato al padre di re Carlo, Pipino, in virtù di un diritto ereditario. Il genitore di costui, infatti, chiamato anche egli Carlo, prima vinse quei tiranni che cercavano, in tutta la Francia, di avocare a loro il potere, poi sconfisse, in maniera definitiva, in due grandi battaglie (l’una in Aquitania, presso Poitiers, l’altra vicino Narbonne, lungo il fiume Berre) i Saraceni mentre tentavano di occupare la Francia, e li costrinse a ritornare in Ispagna, tenne, infine, egregiamente, una magistratura trasmessagli dal proprio padre, Pipino. Il popolo, si noti, aveva consuetudine di non tributare un simile onore se non a coloro che nascessero d’illustre famiglia ed emergessero tra gli altri per le loro ricchezze.

→ Latino I figli di Carlo: Pipino e Carlomanno

Il padre di re Carlo, Pipino, aveva ricoperto per vari anni, ai tempi di Childerico, questa carica (trasmessa dall’avo e dal padre a lui ed al fratello Carlomanno) dividendola con costui in piena concordia. Poi questo fratello, non si sa per quale ragione, ma pare perché attirato dalla vita contemplativa, aveva abbandonato l’onerosa amministrazione di un regno temporale, era andato, per riposarsi, a Roma, ed ivi, mutato l’abito, si era fatto monaco. Costruito un monastero sul monte Soratte, presso la chiesa del beato Silvestro, vi aveva goduto per vari anni la desiderata quiete nella compagnia dei frati che lo avevano seguito, ma molti nobili, che giungevano a Roma dalla Francia per compiere solennemente certi loro voti, non volevano partire senza salutare il loro antico signore e disturbavano, perciò, con queste frequenti visite, la pace alla quale Carlomanno teneva sopra ogni cosa, tanto che lo costrinsero a mutare residenza. Per evitare il disturbo di tali omaggi, abbandonò il monte e si ritirò nel Sannio, nel monastero di San Benedetto, in Cassino, ed ivi terminò, nella vita religiosa, la sua esistenza temporale.

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→ Latino 3

Pipino diventa re dopo l’estromissione di Childerico. Durata del suo regno, sua morte, e divisione del regno fra i figli Carlo e Carlomanno

Pipino, elevato dal pontefice, da prefetto di palazzo che era, all’autorità regia, regnò da solo sui Franchi per quindici anni o poco più, condusse a termine, dopo nove, la guerra aquitanica, che aveva mosso al duca di Aquitania, Waiferio, e morì, infine, di idropisia presso Parigi, lasciando due figli, Carlo e Carlomanno. Ad essi pervenne, per diritto divino, la successione al regno. I Franchi, infatti, in un solenne concilio generale, scelsero entrambi per loro re, ma a questa condizione, che dividessero tra loro, in parti eguali, l’intero territorio del regno. Carlo doveva reggere la parte toccata al padre loro, Pipino, e Carlomanno l’altra, sulla quale aveva regnato lo zio Carlomanno.

Tali condizioni furono accettate: ognuno d’essi ricevette quanto gli spettava del reame e, non senza molte difficoltà, i fratelli rimasero in buoni rapporti. Molti, però, dei cortigiani di Carlomanno tentarono di separarli e qualcuno meditò persino di spingerli alla guerra. Ma il corso degli avvenimenti doveva provare che essa era molto meno pericolosa di quanto non si credesse. Quando Carlomanno, infatti, venne a morte, la moglie di lui, con i figli e qualche primate della corte, senza nessuna causa apparente, solo per disprezzo verso il fratello del marito, fuggì in Italia e pose sé stessa ed i suoi nati sotto la protezione del re dei Longobardi, Desiderio.

→ Latino Morte di Carlomanno ed inizio del regno di Carlo

Carlomanno, dopo aver amministrato per un biennio il regno in comune con il fratello, morì di malattia; Carlo, dopo la scomparsa del suo germano, fu riconosciuto re col consenso di tutti i Franchi.

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→ Latino 4

[Nessuna notizia su nascita e infanzia]

Mi è parso sciocco, da parte mia, narrare qualcosa sulla nascita, l’infanzia ed anche la puerizia di Carlo, perché di esse non v’è notizia in nessun scritto, né è possibile rinvenire qualcuno che possa esserne a giorno. Ho stabilito perciò, omettendo queste incognite di tale vita, di passare ad esporre ed illustrare le azioni, i costumi di lui, e gli altri aspetti di quell’esistenza. Per essere più preciso, dirò che mi occuperò, prima d’ogni altra cosa, di quanto egli ha compiuto all’interno e fuori di patria, poi dei suoi studi e dei suoi costumi, ed infine dell’amministrazione del regno. Starò ben attento a non dimenticare nulla di quanto mi parrà necessario sia conosciuto.

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→ Latino 5

La fine della guerra in Aquitania

La guerra di Aquitania fu la prima di quelle che Carlo combatté. Essa era stata iniziata e non finita dal padre suo, ed egli stimò di poterne venire a capo sollecitamente. Allora il fratello viveva ancora e Carlo ne richiese l’aiuto, che fu promesso ma non dato. Purtuttavia, il re condusse a termine, con ogni energia, l’iniziata spedizione, e non volle desistere dall’intrapresa fatica, prima di aver concluso con la vittoria quanto aveva stabilito di compiere con la sua continua perseveranza. Unoldo aveva tentato, dopo la morte del padre Waiferio, di rioccupare l’Aquitania e ravvivare una guerra quasi finita: Carlo lo costrinse ad abbandonare la terra ed a riparare in Guascogna. Poi non sopportò nemmeno che si fermasse colà: traversò la Garonna ed intimò, per mezzo dei suoi ambasciatori, a Lupo, duca dei Guasconi, di consegnargli il fuggiasco, minacciandolo di guerra se non l’avesse fatto al più presto. Lupo, con molto accorgimento, non solo consegnò Unoldo, ma si diede in potere di Carlo con tutta la provincia che gli apparteneva.

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→ Latino 6

La guerra contro i Longobardi, cause e conclusione

Carlo, col condurre a termine questa guerra, aveva sistemato le cose in Aquitania, e già colui che gli era associato al trono aveva lasciato le fatiche degli umani, quando, annuendo alle supplici richieste del vescovo di Roma, Adriano, iniziò la lotta contro i Longobardi.

Le ostilità erano state già aperte, tempo innanzi, dal padre di lui, per aderire alle preghiere di papa Stefano; ma erano sorte grandi difficoltà, perché alcuni dei capi Franchi, coi quali Pipino soleva consultarsi, s’erano mostrati tanto avversi alla volontà di lui, da affermare, senza esitazione, che, in caso di divergenza, avrebbero abbandonato il re e fatto ritorno alle proprie case. Ciononostante c’era stata una spedizione contro re Astolfo.

Ma se le due guerre scoppiarono per cause simili (meglio ancora, per la stessa causa), non per questo gli sforzi per condurle a termine furono pari e pari furono i risultati che se ne conseguirono. Pipino, dopo aver stretto di assedio Astolfo in Pavia per soli pochi giorni, lo aveva costretto a consegnare ostaggi, a restituire ai Romani quei castelli e quei luoghi fortificati che aveva loro strappato, non solo, ma a promettere anche, e con giuramento, che non avrebbe cercato di riprendere quanto allora riconsegnava; Carlo, invece, iniziata che ebbe la guerra, non smise di combattere se non dopo aver costretto alla resa il re Desiderio (messo allo stremo delle forze da un lungo assedio), aver forzato il figlio di lui Adelchi (l’uomo sul quale riposavano le speranze di tutti) a fuggire non solo dal regno, ma dall’Italia, aver fatto restituire ai Romani quanto era stato loro tolto, aver domato Rodgaudo, prefetto del Friuli, che non voleva accettare il nuovo stato di cose, dopo aver, infine, ridotto in suo potere tutt’intera l’Italia, cui impose come re suo figlio Pipino.

A questo punto della narrazione dovrei descrivere quanto difficile sia stato il transito delle Alpi, e quanta fatica abbia richiesto ai Franchi il superare gli impervi gioghi dei monti, ed i picchi che s’ergono verso il cielo, e le aspre montagne; ma ho stabilito di tramandare, con la presente opera, alla posterità, solo la vita di Carlo e non anche il racconto delle vicende delle guerre da lui combattute.

Quest’ultima impresa vide la sottomissione dell’Italia a Carlo, e il re Desiderio condannato ad un esilio perpetuo, e il figlio di lui, Adelchi, espulso dall’Italia; vide restituito al capo della Chiesa di Roma, Adriano, quanto gli era stato indebitamente sottratto dai re longobardi.

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→ Latino 7

Difficoltà, durata e conclusione della guerra contro i Sassoni

Era appena terminata tale guerra, che Carlo riprendeva l’altra di Sassonia, anche essa interrotta. Nessuna lotta fu, per i Franchi, più lunga, più atroce e più faticosa di questa, perché i Sassoni, come, in genere, quasi tutti i Germani, feroci per natura, dediti al culto dei demoni, e nemici, quindi, della nostra religione, non rispettavano né i precetti umani né quelli divini e reputavano lecito l’illecito. Vi erano, inoltre, altre cause che turbavano, quasi quotidianamente, la pace. I confini nostri ed i loro erano contigui e situati quasi dovunque in pianura. Solo in poche località alcune imponenti selve o i frapposti gioghi dei monti separavano nettamente i due territori. In quei posti, quasi ogni giorno, era un alternarsi di stragi, di rapine, di incendi. Tanto ne furono esasperati i Franchi, che parve loro miglior consiglio non più restituire offesa a offesa, ma affrontare quella gente in una lotta campale.

Scoppiò, cosi, la guerra contro i Sassoni.

Essa fu condotta con ogni animosità da una parte e dall’altra (ma con danni molto maggiori per i Sassoni che non per i Franchi), e durò trentatré lunghi anni. Avrebbe potuto, beninteso, finire anche più presto se non ci fosse stata di mezzo la perfidia dei Sassoni. Chi può dire, infatti, quante volte, dopo essere stati vinti, essi si siano arresi al re, obbligandosi a qualsiasi condizione fosse stata loro imposta, quante volte abbiano consegnato, senza por tempo in mezzo, gli ostaggi richiesti, quante volte abbiano ricevuto gli ambasciatori che erano stati loro mandati, quante volte si siano sentiti tanto domati e stanchi da promettere di abbandonare il culto dei demoni per la religione cristiana? Ma tanto si mostrarono pronti a sottostare a queste condizioni, quanto solleciti a tradirle; sicché non è facile capire quale delle due cose avessero stabilito con maggior trasporto. Non trascorse mai un anno, in questa guerra, senza un tradimento da parte loro.

Ma la magnanimità di re Carlo e la sua costanza, sia nell’avversa che nella prospera fortuna, non furono vinte mai da tanta doppiezza, né mai essa riuscì a fargli abbandonare, per stanchezza, i piani stabiliti. Carlo non tollerò mai di sopportare passivamente che essi osassero tanto, ma si vendicò sempre della perfidia loro, sottoponendoli a un giusto castigo, con quell’esercito che o conduceva personalmente o faceva comandare dai suoi conti. Questa linea di condotta durò fin quando ebbe abbattuto o ridotto in sua potestà quanti gli resistevano. Allora prelevò diecimila uomini che abitavano le due rive dell’Elba, e li sparpagliò con le mogli e i figli per la Gallia e la Germania. Noi sappiamo inoltre che la guerra, durata tanti anni, non ebbe fine se non quando essi accettarono la seguente condizione imposta loro dal re: avrebbero abbandonato l’abbietto culto dei demoni e le cerimonie patrie; avrebbero accettato i sacramenti della fede e della religione cristiana; si sarebbero, infine, fusi coi Franchi per formare, con loro, un unico popolo.

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→ Latino 8

Costanza e magnanimità di Carlo

Nonostante, però, la lunghezza di questa lotta, Carlo si batté personalmente solo due volte col nemico: la prima presso il monte Osning, in una località detta Detmold, la seconda presso il fiume Hase. Le due battaglie ebbero luogo nello stesso mese e con un intervallo di pochi giorni. I nemici furono tanto rotti e schiacciati in questi due scontri, che non osarono più provocare il re, né resistere all’avanzata di lui, se non in qualche località ben fortificata. Molti, però, caddero nella lotta, sia della nobiltà franca, sia di quella sassone e perirono anche personaggi di grandissima fama. Alla fine, però, dopo trentatré anni, la contesa ebbe termine. Contemporaneamente erano scoppiate, contro i Franchi, guerre gravissime e in località diversissime; ma il re le condusse tutte tanto accortamente, che, a pensarci su, noi non sappiamo se ammirare di più la costanza o la fortuna di lui.

La guerra di Sassonia, iniziata due anni prima di quella d’Italia, era stata condotta senza nessuna pausa; eppure, nessuna di quelle scoppiate altrove subì mai un arresto, né si cessò mai in altre terre dal combattere e spesso anche duramente.

Bisogna proprio dire che re Carlo superava tutti i capi suoi contemporanei per saggezza e per grandezza d’animo, e convenire che né per fatica, né per pericolo alcuno, si ritirava mai dal compiere quanto aveva stabilito. Sapeva adattarsi meravigliosamente alle circostanze: non si avviliva innanzi alla fortuna, se avversa, né si compiaceva dei miraggi di essa quando gli era amica.

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→ Latino 9

Imprese in Spagna, e sconfitta inflitta dai Baschi al suo esercito

Mentre combatteva, quasi senza interruzione, questa lunga guerra contro i Sassoni, aveva disposto vari presidi nei posti adatti dei confini, ed aveva attaccato la Spagna con il maggior spiegamento di forze possibile. Passò la catena dei Pirenei, ricevette la sottomissione di tutti i castelli e le piazzeforti che incontrò sul suo cammino, rientrò, alla fine, in patria, con un esercito incolume. Però, nel viaggio di ritorno, ripassando il giogo dei Pirenei, fu provato dalla perfidia dei Baschi; profittando del fatto che l’esercito, data la strettezza del passaggio, era obbligato a muoversi in lunghe file, apparecchiarono essi un’imboscata sulla cima di un monte, aiutati dalla circostanza che il luogo pareva creato per le insidie, ricco com’era di oscure selve. Si precipitarono dall’alto; gettarono nella sottostante valle gli ultimi carri e quei soldati che coprivano la retroguardia e li massacrarono, infine, fino all’ultimo. Poi saccheggiarono i carriaggi e, protetti dalla sopravveniente notte, si dispersero con ogni celerità. I Baschi si trovavano in netto vantaggio, sia perché provvisti di armi leggere, sia per la configurazione del terreno, mentre i Franchi erano loro nettamente inferiori per la pesantezza del loro armamento e le posizioni che occupavano. Caddero in questa battaglia, con molti altri, il siniscalco Eggiardo, il conte palatino Anselmo e Orlando, conte della Bretagna. E non fu nemmeno possibile vendicarli subito, perché i nemici, dopo aver perpetrato questo colpo di mano, si dispersero in modo da non lasciare alcuna traccia.

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→ Latino 10

Sottomissione dei Bretoni e dei Beneventani

Carlo, in seguito, domò i Bretoni che abitavano sul lido dell’oceano, ad occidente, in una delle parti estreme della Gallia. Si mostravano essi ribelli ai comandi, ma una spedizione, mandata contro di loro, li obbligò a consegnare vari ostaggi ed a promettere che avrebbero rispettato tutto quanto fosse stato loro imposto. Il re, poi, alla testa del suo esercito, entrò in Italia e, passando per Roma, giunse a Capua, città della Campania. Qui pose gli accampamenti e minacciò di guerra i Beneventani se non gli si fossero sottomessi. Il loro duca, Arichi, prevenne la minaccia, mandando incontro al re i suoi figli, Romualdo e Grimoaldo, pregandolo di riceverli come ostaggi e promettendo che, con la sua gente, avrebbe eseguito quanto fosse stato comandato. Solo chiese di essere dispensato dal comparire innanzi al sovrano. Re Carlo tenne presente più l’utile della sua gente che questa ostinazione dell’animo di Arichi. Accettò gli ostaggi che gli erano stati offerti, concesse, come speciale favore, ad Arichi, di non presentarglisi, poi trattenne il minore dei due ragazzi e rimandò l’altro al padre. Dopo aver lasciato presso Arichi alcuni suoi legati per esigere e ricevere dai Beneventani il giuramento di fedeltà, ritornò a Roma. Vi trascorse alcuni giorni per venerare i luoghi santi e fece ritorno in Francia.

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→ Latino 11

Agevole conclusione della guerra in Baviera

Poi fu la volta della Baviera: ma la guerra, improvvisamente scoppiata, rapidamente ebbe termine. La causa di tale lotta va ricercata nella superbia e nella stoltezza insieme del duca Tassilone. Per consiglio della moglie, che, figlia del re Desiderio, sperava di vendicare, con l’opera del marito, l’esilio del padre, Tassilone si alleò con gli Unni, confinanti a oriente con i Bavaresi, e non solo cercò di non eseguire quanto gli era stato comandato, ma osò persino provocare a guerra re Carlo. La dignità del re non poteva sopportare una simile arroganza. Raccolse dunque milizie e, alla testa di un enorme esercito, si incamminò verso la Baviera, raggiungendo il fiume Lech che separa i Bavaresi dagli Alemanni. Si accampò sulla riva di esso, e, prima di invadere la provincia, volle saggiare, servendosi di alcuni ambasciatori, l’animo del Duca. Quest’ultimo comprese che, agendo con tanta albagia, non faceva né il bene suo né quello del suo popolo; si presentò allora, supplice, a re Carlo, consegnò gli ostaggi che erano stati domandati (v’era tra costoro il suo figliolo Teodone) e promise, poi, con giuramento, di non ascoltare mai più qualsiasi incitamento alla defezione. Finì, quindi, in un lampo, una guerra che sembrava dovesse essere particolarmente grave.

Ciononostante, però, poco tempo dopo, Tassilone fu chiamato dal re che non solo non gli permise di ritornare più in patria, ma gli tolse anche il comando della provincia, affidandola non più a un duca ma ad alcuni conti.

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→ Latino 12

Come furono sottomessi i Vilzi

Dopo aver liquidato cosi questi moti, Carlo mosse guerra contro gli Slavi che noi chiamiamo comunemente Vilzi, mentre il loro vero nome è Velatabi. Tra le varie nazioni che seguivano i vessilli del re, militavano, come ausiliari, i Sassoni, ma la loro ubbidienza era molto dubbia e tutt’altro che devota. Questa guerra scoppiò per il fatto che i Velatabi provocavano con continue incursioni gli Abodriti, che erano stati federati con i Franchi, e nessun veto aveva potuto, fino a quel giorno, contenerli.

Dal lato occidentale dell’Oceano, si stende, verso oriente, un golfo di incerta lunghezza e di una larghezza che non supera mai i centomila passi, quantunque molti sostengano che sia più stretto. Lungo esso vivono molte nazioni: i Danesi e gli Svedesi, che noi chiamiamo comunemente Normanni, vi occupano il litorale settentrionale e tutte le isole. Le rive orientali, invece, sono abitate da Slavi, Esti e altri popoli, dei quali i più importanti sono proprio quei Velatabi contro i quali re Carlo si accingeva a muovere guerra. Una sola spedizione, comandata da lui in persona, colpi quella gente in maniera tale che essa stimò prudente non azzadarsi mai più a trasgredire gli ordini ricevuti.

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→ Latino 13

Atterrata la superbia degli Unni. Morte dei duchi Erico e Geroldo

A questa lotta successe la guerra più importante che mai fosse stata combattuta da re Carlo, solo eccettuando quella diretta contro i Sassoni: le ostilità ingaggiate contro gli Avari e gli Unni. Il sovrano condusse la campagna con molto più ardore che non le altre e con un apparato di forze molto maggiore. Diresse di persona solo le ostilità in Pannonia (era questa la provincia che quel popolo abitava): le altre azioni le commise a suo figlio Pipino, ai prefetti delle provincie e persino ai conti ed ai suoi legati. Tutti condussero la guerra con ogni energia e la portarono a termine in otto anni. Quante battaglie si siano combattute, quanto sangue sia scorso, sono lì ad attestarlo la Pannonia, vuota di ogni abitante, e la località nella quale sorgeva la reggia del Khagan, divenuta un deserto, in cui non è più possibile nemmeno scorgere i vestigi di quel che era un’abitazione umana. Tutt’intera la nobiltà degli Unni perì in questa guerra: tutta la loro gloria vi fu annientata. Furono messi a sacco tutto il loro danaro e tutti quei tesori che da tempo avevano ammassato: la memoria degli umani non ricorda nessuna guerra combattuta dai Franchi che li abbia arricchiti e colmati di dovizie più di questa. Essi, che fino a quel giorno sembravano quasi poveri, trovarono tanto oro e argento in quella reggia, tante preziose spoglie catturarono in battaglia, da potersi affermare che i Franchi giustamente conquistarono agli Unni quanto ingiustamente era stato dagli Unni precedentemente strappato alle altre genti.

Due soli tra i magnati dei Franchi perirono in questa guerra: Erico, duca del Friuli, che cadde in Liburnia, presso la città marittima di Tersatto, in un’imboscata di quegli abitanti, e Geroldo, prefetto della Baviera, che perì in Pannonia e fu ucciso da uno sconosciuto, mentre, dopo aver disposto le schiere per combattere contro gli Unni, accompagnato da due soli uomini, che cavalcavano con lui, esortava alla lotta i soldati. La guerra si svolse per i Franchi quasi incruentemente ed ebbe un esito felicissimo, ma, per la proporzione che assunse, richiese un tempo maggiore del previsto.

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→ Latino 14

Inizio e conclusione della guerra contro i Normanni

Terminata che fu questa campagna, anche l’altra contro i Sassoni ebbe una fine che compensò la sua durata. Poi ci furono le lotte contro i Boemi e contro i Linoni, ma non durarono a lungo. Ambedue furono condotte celermente a termine da Carlo il giovane.

L’ultima guerra fu diretta contro quei Normanni che sono detti Danesi. Dopo aver praticato, in un primo tempo, la pirateria, essi impresero, con una flotta più ampia, a devastare le coste della Francia e della Germania. Il loro re, Godifredo, aveva concepito la folle speranza di imporre la propria autorità a tutta la Germania, e già trattava la Frisia e la Sassonia come fossero sue provincie, già aveva ridotto in suo potere gli Abodriti suoi vicini, già questi gli pagavano un tributo, già pensava di raggiungere, con una grande quantità di truppe, Aquisgrana, dove risiedeva re Carlo con la sua corte. Quantunque tali piani fossero assolutamente stolti, pure qualcuno dava a essi qualche credito e pensava che quegli avrebbe osato certo qualcosa se una morte improvvisa non lo avesse colto. Uno dei suoi accoliti lo uccise infatti, e la fine di lui accelerò quella della guerra iniziata.

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→ Latino 15

Di quanto Carlo incrementò il regno dei Franchi

Sono queste le campagne che per quarantasei anni (quanti ne regnò) quel potentissimo re condusse in tante diverse parti della terra con sommo accorgimento e pari fortuna. In grazia ad esse poté tanto ampliare quel regno dei Franchi, che aveva già ricevuto grande e forte da suo padre Pipino, da raddoppiarlo quasi. Prima, infatti, lo stato di lui occupava della Francia la parte che si estende tra il Reno, la Loira, l’Oceano e il mare delle Baleari, e della Germania, quella abitata dai Franchi detti orientali, situata tra la Sassonia, il Danubio, il Reno ed il fiume Saal che divide i Turingi dai Sorabi.

Oltre a tali territori, erano soggetti al regno dei Franchi anche gli Alemanni e i Bavaresi. A seguito delle guerre che abbiamo descritte, Carlo ridusse in suo potere molte altre terre. Anzi tutto l’Aquitania e la Guascogna; poi tutto il giogo dei Pirenei fino al fiume Ebro che nasce in Navarra, percorre le terre più fertili della Spagna, bagna le mura di Tortosa e si getta nel mare delle Baleari; poi fu la volta dell’Italia tutta, che si estende per una lunghezza di un milione di passi, e forse anche di più, da Aosta fino alla Calabria inferiore, là dove sono i confini dei Greci e dei Beneventani; vi aggiunse ancora la Sassonia, parte non piccola della Germania, larga due volte il territorio che occupano i Franchi e pari, per lunghezza, ad esso. Occupò, poi, ambedue le Pannonie, la Dacia, situata sull’altra riva del Danubio, l’Istria, la Liburnia, la Dalmazia, eccettuate le città marittime. Permise, infatti, che queste ultime obbedissero all’imperatore di Costantinopoli per l’amicizia e l’alleanza che aveva con lui. Dopo di che, domò in maniera decisiva tutte quelle genti barbare e selvagge che vivono in Germania tra il Reno, la Vistola, l’Oceano e il Danubio. Esse sono simili agli altri Germani per il linguaggio, ma se ne allontanano enormemente per i costumi e il modo di vivere, e Carlo le ridusse a sue tributarie. I principali tra questi popoli erano i Velatabi, i Sorabi, gli Abodriti e i Boemi e fu ad essi che Carlo mosse guerra, mentre ricevette gli altri (che erano in numero maggiore) in volontaria sottomissione.

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→ Latino 16

Politica di alleanze con le nazioni straniere

Re Carlo aumentò anche la gloria del suo regno con il trarre amichevolmente a lui parecchi re e parecchie genti. Legò, per esempio, strettamente a sé Alfonso, re di Galizia e di Asturia, al punto tale che quando questi gli mandava o lettere o ambasciatori, ordinava che, nominandolo presso di lui, lo definissero semplicemente «l’uomo di re Carlo». E non basta ancora: con la sua munificenza ridusse talmente alla propria volontà i re della Scozia, che questi ultimi non lo chiamavano altrimenti che loro padrone e si professavano suoi sudditi e suoi schiavi.

Si conservano ancora le lettere indirizzategli da questi re, testimonianze dell’immenso affetto che essi gli portavano.

Strinse altresì, sì forte amicizia con Aarone, re dei Persiani (un uomo dal quale, eccettuata l’India, dipendeva quasi tutto l’Oriente) che questi preferiva i buoni rapporti con lui all’amicizia di tutti i re e di tutti i principi che fossero sulla terra, e solo a lui stimava doveroso rendere onori e tributi. Fu cosi che, quando gli ambasciatori di re Carlo (mandati, con le offerte regie, al Santissimo Sepolcro del nostro Signore e Salvatore ed ai luoghi della Resurrezione) vennero ad Aarone e gli espressero la volontà del loro re, non solo quegli assentì a tutte le loro richieste, ma volle porre sotto la potestà di Carlo quei luoghi sacri e apportatori di salvezza. Fece poi accompagnare da suoi messi personali i legati nel viaggio di ritorno e offri ricchi doni per il re, consistenti in vesti, profumi ed altre ricchezze di quei paesi di Oriente; e questi presenti venivano ad aggiungersi ad un altro regalo che gli aveva fatto qualche anno prima per venire incontro ad un desiderio di Carlo, ossia al dono dell’unico elefante che egli possedesse.

Gli imperatori di Costantinopoli, inoltre, Niceforo, Michele e Leone, spontaneamente gli richiesero amicizia e alleanza e gli mandarono, a questo scopo, molti legati. Era avvenuto con questi ultimi (a causa di quel titolo di imperatore assunto da Carlo) che essi sospettassero il nostro re di voler strappar loro L’impero; ma Carlo, per togliere di mezzo ogni occasione di conflitto, strinse con loro un solidissimo trattato di alleanza.

Pur tuttavia, la potenza dei Franchi inquietava sempre i Romani e i Greci, ed è per questo che ancora corre presso i Greci il seguente proverbio: «Se hai come amico il Franco vuol dire che non lo hai come vicino».

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→ Latino 17

Attività edilizia per il decoro e la sicurezza del regno

Quantunque Carlo sia stato cosi occupato nell’ampliare il regno e nel sottomettere tanti popoli stranieri, pure iniziò in diversi luoghi molti lavori di pubblica utilità o di abbellimento, e parecchi ne condusse a termine.

I più importanti possono essere ritenuti la meravigliosa costruzione della basilica della Santa Madre di Dio in Aquisgrana e il ponte sul Reno presso Magonza, lungo cinquecento passi, quanto, cioè, è la larghezza del fiume. Purtroppo, un anno prima della sua morte, un incendio bruciò questo ponte e, proprio perché re Carlo mori, esso non poté essere ricostruito; e si che il sovrano aveva divisato di rifarlo adoperando la pietra al posto del legno.

Incominciò altresì la costruzione di alcuni palazzi di bellissima fattura, uno non lungi da Magonza, sul Waal, il fiume che bagna la parte meridionale dell’isola dei Batavi. Ma soprattutto, ordinò ai vescovi e ai prelati, che ne avevano cura, di restaurare dovunque, nel regno, i templi che cadevano per vecchiaia e sorvegliò, per mezzo dei propri legati, che i suoi ordini venissero rispettati.

Creò, inoltre, una flotta per combattere i Normanni e fece costruire, a questo scopo, varie navi presso i fiumi che sboccano nell’Oceano dalla Francia e dalla Germania settentrionale. Dato che i Normanni compivano frequenti scorrerie sul litorale francese e germanico, Carlo pose sentinelle e posti di guardia in tutti i porti e in tutte le foci dei fiumi, nei quali sembrava potessero penetrare le navi, e fece sì, con queste fortificazioni, che il nemico non riuscisse più a compirvi incursioni. Le stesse precauzioni prese nel Mezzogiorno, sulle coste del litorale Narbonese e Settimanio e su quelle dell’Italia, fino a Roma, contro i Mori che avevano cominciato ad esercitare la pirateria. Grazie ad esse, durante la vita di lui, nessun grave danno potettero arrecare i Mori in Italia e i Normanni in Gallia e in Germania. Solo Centocelle, una città dell’Etruria, fu presa col tradimento dai Mori e devastata, ed in Frisia furono depredate, dai Normanni, alcune isole presso il litorale germanico.

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→ Latino 18

[Introduzione alla parte successiva dell’opera]

Queste le imprese che egli compi per tutelare, ampliare ed ornare il proprio regno.

Ed ora incomincerò a raccontare quali furono le doti di quell’animo e la straordinaria costanza di lui in qualsiasi evento, sia prospero che avverso, e narrerò tutto quanto si riferisce alla vita intima e domestica di lui.

→ Latino La vita privata di Carlo. Mogli e concubine; figli e figlie, e loro istruzione; la madre e le sorelle

Quando, morto il padre, Carlo divise il regno col fratello, sopportò con tanta pazienza le simulazioni e l’invidia di quest’ultimo, che tutti si meravigliarono altamente nel constatare come quegli non fosse mai riuscito a farlo irritare. Trascorso alcun tempo, dopo aver sposato, per consiglio della madre, la figlia di Desiderio, re dei Longobardi, non si sa per quale causa, dopo un anno appena di convivenza, la ripudiò, e sposò Ildegarda, una donna che apparteneva all’alta nobiltà sveva. Ne ebbe tre figli: Carlo, Pipino e Ludovico ed un egual numero di figlie, Rotruda, Berta e Gisla. Ebbe, inoltre, tre altre figlie: Teodrada, Hiltrude e Ruodaida, due dalla moglie Fastrada, appartenente alla razza dei Franchi orientali, ossia Germani, e la terza da una concubina della quale non ricordo il nome. Quando anche Fastrada venne a morte, sposò l’alemanna Liutgarda, che non gli diede prole. Morta che fu quest’ultima, tenne con sé quattro concubine, Madelgarda, dalla quale ebbe una figlia a nome Ruotilde, la sassone Gervinda, che gli diede un’altra figlia, a nome Adaltruda, Regina, che gli procreò Drogone e Ugo, e Adalinda dalla quale nacque il figlio Teoderico.

La madre di lui, Bertrada, gli invecchiò accanto, circondata da grande onore. Carlo le professava ogni reverenza, tanto che non vi fu mai tra loro due il più piccolo malinteso, salvo quando divorziò dalla figlia di Desiderio che aveva tolto in moglie proprio per consiglio di lei. Ella uscì di vita dopo la morte di Ildegarda, e dopo aver visto nella casa del proprio figlio tre nipoti maschi e tre femmine. Re Carlo la fece seppellire, con grande onore, nella stessa basilica di San Dionigi in cui già riposava il proprio padre.

Aveva una sola sorella, a nome Gisla, datasi alla vita religiosa dalla più tenera età. Carlo la circondò della stessa affettuosa premura che aveva professato alla propria madre. Morì, pochi anni prima di lui, in quello stesso convento nel quale aveva preso il velo.

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→ Latino 19

[Educazione dei figli e delle figlie]

Volle il re che i propri figli, maschi e femmine, fossero, prima di tutto, iniziati in quelle arti liberali che egli stesso professava. Fece poi esercitare i maschi, non appena l’età lo consentì, secondo il costume dei Franchi, nel cavalcare, nel maneggio delle armi e nella caccia: in quanto alle figlie, volle che non si intorpidissero nell’ozio, ma si impratichissero, invece, a tessere la lana, al fuso ed alla spola. Tutto quanto concorre a formare un onesto abito morale, stabilì fosse loro insegnato.

→ Latino I figli morti prima di lui; cura nell’educazione dei figli e delle figlie di Pipino e dei suoi

Perse due figli ed una figlia: Carlo, il maggiore di tutti, Pipino, che aveva già creato re d’Italia, e Rotruda, la primogenita delle figlie femmine, già fidanzata a Costantino, l’imperatore dei Greci. Di essi, Pipino lasciò un figlio, Bernardo e cinque figlie: Adelaide, Atula, Gondrada, Bertaida e Teodora. A tutti re Carlo mostrò chiaramente il proprio affetto, sia stabilendo, dopo la morte del figlio, che il nipote succedesse al padre, sia facendo educare le nipoti tra le proprie figlie. Sopportò egli queste morti con minore fermezza di quel che avrebbe fatto supporre la sua forza d’animo; lo costrinse a piangere, la tenerezza, che aveva pari a quella.

Similmente, quando gli fu annunciato il decesso del pontefice Adriano, che annoverava tra gli amici suoi più cari, pianse come se avesse perduto un fratello o un figlio carissimo. Carlo dimostrava un magnifico equilibrio anche nelle relazioni: facilmente stringeva amicizia con la gente; conservava poi con grande costanza tale sentimento e votava un affetto quasi sacro a quanti s’era unito con simile legame.

Tanto ebbe a cuore l’educazione dei figli, che non pranzò mai senza di loro quando era nella propria casa e non si pose mai in viaggio senza la loro compagnia. I figli gli cavalcavano accanto e le figlie lo seguivano nella retroguardia; un certo numero di guardie del corpo, a ciò espressamente comandate, vegliava su di esse. Dato che queste figlie erano bellissime e che molto egli le amava, non ne volle dare nessuna in moglie (stranissima cosa) né ad alcuno dei suoi, né a qualche straniero. Le tenne, invece, presso di sé, nella sua casa, fino alla morte, dicendo che non poteva fare a meno della loro compagnia. Ma, a questo riguardo, se fu felice da un lato, dovette anche provare, dall’altro, la malignità della avversa fortuna. Dissimulò, però, le proprie pene tanto che parve non avesse avuto mai sentore di alcun suo disonore.

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→ Latino 20

Due congiure fatte contro di lui rapidamente e felicemente sedate

Gli era nato da una concubina un figlio, a nome Pipino, bello di faccia ma gobbo, che ho dimenticato di ricordare tra i suoi nati. Questi, mentre il padre, in guerra con gli Unni, svernava in Baviera, simulando una malattia, congiurò contro di lui insieme con alcuni nobili Franchi che lo avevano sedotto con la vana promessa della corona. Quando la trama fu scoperta e furono condannati gli altri congiurati, il padre permise a lui di ricevere la tonsura nel convento di Prüm, e di consacrarsi, cosa che quegli già desiderava, alla vita religiosa.

Un’altra pericolosa congiura era stata organizzata, prima di questa, in Germania, contro re Carlo. Di essa gli attori parte furono accecati, parte non ebbero pene corporali, ma vennero inviati in esilio. Nessuno, però, venne condannato a morte, fatta eccezione di tre che si difesero con la spada per non essere presi e fecero anche qualche vittima. Questi ultimi furono uccisi, perché non era possibile in nessuna maniera catturarli.

Pare che causa ed origine di tali sedizioni sia stata, tutte e due le volte, la crudeltà della regina Fastrada. La congiura contro il re venne, infatti, ordita perché sembrò che Carlo, per soddisfare la malvagità della moglie avesse ripudiato decisamente la propria natura benigna e la propria mansuetudine.

A parte tale episodio, Carlo seppe vivere, per tutto il resto di sua vita, circondato da tale amore e da tale consenso generale, in casa e fuori, che mai nessuno poté imputargli la più piccola ed ingiusta crudeltà.

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→ Latino 21

[Amore per gli stranieri]

Amava egli i pellegrini e poneva molta cura nel riceverli, tanto che, ad un certo punto, quella folla parve di peso non solo al palazzo del sovrano, ma all’intero regno. Pur tuttavia, nella sua grandezza d’animo, mostrava di sentire molto poco questo gravame e trovava un compenso agli enormi scomodi che sopportava nella lode che riceveva la sua liberalità, e nella fama che acquistava il suo buon nome.

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→ Latino 22

Il suo aspetto fisico

Era, re Carlo, di corporatura massiccia e robusta, di statura alta che, pur tuttavia, non eccedeva una giusta misura, dato che misurava sette volte la lunghezza del suo piede. Aveva testa tonda, occhi grandissimi e vivaci, il naso un po’ più lungo del normale, bei capelli bianchi, volto sereno e gioviale che gli conferiva, seduto che fosse o dritto in piedi, una grandissima autorità e pari dignità di aspetto. Quantunque avesse un collo grasso e troppo corto ed il ventre un po’ sporgente, purtuttavia l’armoniosità delle altre membra celava questi difetti. Sicuro nell’incedere, emanava da tutto il corpo un fascino virile: aveva una voce chiara che non aderiva, pur tuttavia, al suo corpo. La salute era eccellente ma, negli ultimi quattro anni di vita, andò frequentemente soggetto alle febbri, ed infine finì con lo zoppicare da un piede. Ma faceva a testa sua e non si curava del parere dei medici che aveva preso in grande uggia, perché gli consigliavano di abbandonare, per le carni lesse, gli arrosti ai quali era, invece, abituato.

→ Latino I suoi svaghi

Si esercitava di frequente all’equitazione ed alla caccia, ed era questa una passione che aveva fin dalla nascita, perchè non è possibile trovare al mondo chi possa paragonarsi ai Franchi in tali esercizi fisici. Amava anche molto i bagni minerali e spesso si esercitava al nuoto. Eccelleva talmente in quest’esercizio che nessuno riusciva a sorpassarlo. Per tale ragione costruì una reggia in Aquisgrana: ivi trascorse gli ultimi anni di sua vita abitandovi in permanenza. Invitava al bagno con lui non solo i figli, ma anche i grandi del regno e gli amici e talora persino tutte le proprie guardie del corpo. Avveniva cosi che, qualche volta, scendessero in acqua con lui oltre cento uomini.

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→ Latino 23

I suoi abiti

Vestiva sempre col costume nazionale dei Franchi: sul corpo indossava una camicia ed un paio di mutande di lino; su di esse poneva una tunica orlata di seta e i pantaloni. Portava fascie alle gambe e calzari ai piedi: d’inverno proteggeva le spalle ed il petto con un indumento confezionato in pelli di lontra o di topo. S’avviluppava in un mantello color verdognolo e portava sempre al fianco una spada con il pomo ed il fodero d’oro o di argento. Qualche volta faceva uso di un’altra spada dall’elsa gemmata, ma l’adoperava solo nelle grandi festività o quando riceveva gli ambasciatori stranieri. Rifuggiva dai costumi d’altri paesi, ancorché bellissimi, e non amò mai indossarli, meno che a Roma, una prima volta su richiesta di papa Adriano ed una seconda per preghiera del successore di lui, Leone. Allora acconsenti a portare una lunga tunica e la clamide ed i sandali alla moda dei Romani. Nelle festività incedeva in una veste tessuta d’oro, con calzature decorate di gemme; una fibbia d’oro gli fermava il mantello, e s’ornava di una corona anch’essa d’oro e sfolgorante di gemme. Negli altri giorni, invece, il suo abito differiva poco da quello che usava il popolo.

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→ Latino 24

Come si regolava col mangiare, il bere, il dormire, e di cosa si occupava a pranzo

Era assai sobrio nel mangiare e nel bere; nel bere soprattutto. Detestava l’ubbriachezza in qualsiasi uomo e massimamente in sé e nei suoi. Del cibo, però, faceva poco volentieri a meno e spesso si lagnava dicendo che il suo corpo sopportava male i digiuni. Banchettava molto di rado e solo nelle grandi festività; ma allora con numerosi convitati. Il suo pranzo quotidiano si componeva di sole quattro portate, non contando l’arrosto che i cacciatori solevano presentargli sugli spiedi e che egli mangiava più volentieri di qualsiasi altro cibo. Mentre cenava gli piaceva udire qualche musico o qualche lettore. Gli leggevano le storie degli antichi, ma amava ascoltare anche le opere di Sant’Agostino e specie quella intitolata «De civitate Dei». Era talmente sobrio di vino e di qualsiasi altra bevanda che raramente, mentre pranzava, beveva più di tre volte. D’estate, dopo il pasto del mezzodì, mangiava qualche mela e beveva una sola volta; dopo di che si toglieva vesti e calzature, cosi come era solito fare la notte, e riposava due o tre ore. Di notte, durante il sonno, si svegliava dalle quattro alle cinque volte, non solo, ma si levava anche in piedi. Mentre si vestiva e si calzava, riceveva, d’abitudine, i propri amici; ma se il conte palatino gli riferiva che v’era una lite impossibile a comporre, ordinava di introdurre subito i litiganti e, come se fosse stato in tribunale, ascoltava le parti e pronunciava la sentenza. Né si limitava a questo: ma in quelle ore regolava tutto il lavoro che nel giorno dovevano esplicare i vari uffici ed ordinava a ciascun ministro cosa dovesse fare.

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→ Latino 25

L’ammirevole interesse per gli studi

Aveva facile e copioso l’eloquio e sapeva esprimere con molta chiarezza il suo pensiero. Non contento di conoscere la sola lingua patria, si diede ad apprendere anche le straniere, e tra queste imparò tanto bene il latino che era solito esprimersi in quell’idioma con la stessa facilità che nel proprio; il greco lo comprendeva meglio di quanto non lo parlasse; tutto sommato, era tanto facondo da sembrare persino prolisso. Coltivò con ogni cura le arti liberali e, pieno di rispetto per quelli che le insegnavano, li colmò di onori. Per imparare la grammatica ascoltò le lezioni del vecchio diacono Pietro Pisano: nelle altre discipline ebbe a maestro Alcuino, detto Al bino (diacono anche egli), un britanno di origine sassone, l’uomo più dotto che allora ci fosse. Presso di lui dedicò molto tempo e molta fatica ad imparare la rettorica, la dialettica e, principalmente, l’astronomia. Apprese il calcolo e si applicò con attenzione sagace e con ogni interesse a studiare il cammino degli astri. Tentò anche di scrivere, e, a questo scopo, aveva l’abitudine di tenere sotto i cuscini del letto alcune tavolette e alcuni fogli di pergamena, per esercitarsi, quando ne aveva il tempo, a tracciare, di propria mano, varie lettere. Ma poco gli fruttò questo lavoro disordinato e iniziato troppo tardi.

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→ Latino 26

Come arricchì il decoro delle chiese

Praticò sempre, e con ogni reverente devozione, quella religione cristiana nella quale era stato allevato sin dall’infanzia. Essa lo indusse a costruire la basilica di Aquisgrana, opera di stupenda bellezza, ad ornarla d’oro, di argento, di candelabri, di cancelli e di porte forgiate in bronzo massiccio. E, dato che non era possibile ricevere da altra parte le colonne e i marmi necessari alla costruzione, li fece venire da Ravenna e da Roma.

Frequentava assiduamente la chiesa al mattino, alla sera, ed anche di notte, finché glielo permise la salute, per assistere alle funzioni divine. Vegliava, inoltre, con ogni zelo, a che tutte le funzioni si svolgessero con la maggiore dignità possibile e molto spesso ammoniva i custodi dei templi di non permettere che si portasse in essi cosa alcuna non adatta o sudicia e che vi rimanesse. Fornì le chiese di vasi sacri di oro e di argento e di una tal quantità di paramenti sacerdotali che nemmeno gli ostiarii, gli ultimi della gerarchia ecclesiastica, furono mai costretti a celebrare gli uffici divini con i propri abiti privati. Si occupò anche moltissimo di correggere la maniera di leggere e di salmodiare. Era molto esperto in ambedue le cose, quantunque non leggesse in pubblico e non cantasse se non a bassa voce e in coro con gli altri.

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→ Latino 27

La sua generosità nelle elemosine

Soccorse molto i poveri ed esercitò quella disinteressata liberalità che i Greci chiamano «elemosina», agendo in siffatta maniera non soltanto nella propria patria e nel proprio regno. Soleva, infatti, mandare soccorsi in denaro anche oltremare, in Siria, in Egitto, in Africa, a Gerusalemme, ad Alessandria, a Cartagine, dovunque veniva a conoscere che vivevano in povertà alcuni cristiani, tanto aveva pietà della miseria loro. Fu per questa considerazione, più che per altre, che ricercò l’amicizia dei re d’oltremare; proprio perché venisse qualche conforto e qualche sollievo ai correligionari che stavano in sudditanza di quelli.

→ Latino Il suo amore per la chiesa romana, e l’elevazione alla dignità imperiale

Faceva oggetto di particolare considerazione, fra tutti i luoghi sacri e venerabili, la chiesa del beato Pietro apostolo, presso Roma. Le fece ricchissime offerte d’oro, d’argento e di gemme; mandò innumerevoli doni ai pontefici e, durante tutto il suo regno, di niente si occupò più alacremente che di ridare, con tutti i mezzi a sua disposizione e con tutte le sue forze, l’antica autorità alla città di Roma e di rendere la chiesa di san Pietro non solo sicura e ben difesa, ma altresì la più in vista fra tutte le chiese, per gli ornamenti e le ricchezze. Purtuttavia, quantunque la venerasse tanto, in quarantasette anni di regno non la visitò che quattro volte solo per assolvere qualche voto o impetrare qualche grazia.

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→ Latino 28

[Carlo eletto imperatore]

Non furono, però, unicamente queste le cause dell’ultima visita.

I Romani avevano ingiuriato, in ogni maniera, il pontefice Leone, ed erano giunti sino a strappargli la lingua e a cavargli gli occhi, tanto da costringerlo a invocare l’aiuto del re. Venne Carlo a Roma per mettere un po’ d’ordine nello stato della Chiesa, che troppo appariva turbato, e vi passò tutto l’inverno.

Fu allora che ricevette il titolo di imperatore e di augusto.

In un primo tempo, però, si mostrò tanto malcontento di quel che era avvenuto, da affermare che quel giorno, quantunque ricorresse una grande festività, non sarebbe entrato in chiesa se solo avesse potuto prevedere il disegno del pontefice. Tuttavia, dopo aver accettato questa qualifica, sopportò con grande pazienza l’invidia degli altri imperatori romani, che sembravano molto indignati dell’accaduto. Non solo; ma seppe anche vincere tanta arroganza con la magnanimità che possedeva, fuor di dubbio, in misura molto maggiore della loro, mandando ad essi molte ambasciate e chiamandoli «fratelli» nelle proprie lettere.

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→ Latino 29

La riforma delle leggi

Dopo aver assunto la dignità imperiale, pose mente alla circostanza che i suoi popoli difettavano di leggi (i Franchi avevano, infatti, due sole leggi e molto differenti in vari passi) e pensò di aggiungere quelle che mancavano, di renderle omogenee e di correggere quelle disposizioni che erano errate o malamente esposte. Ma di tale opera sono rimasti solo pochi articoli, e per di più imperfetti, aggiunti da lui. Però ebbe cura di ordinare a tutte le nazioni venute in suo dominio di raccogliere le leggi non scritte e di tramandarle per iscritto. Inoltre trascrisse, perché ne rimanesse memoria, quei poemi barbari e antichissimi che cantavano la storia e le guerre degli antichi re ed iniziò anche una grammatica della lingua nazionale.

→ Latino I nuovi nomi dei mesi e dei dodici venti

Diede, inoltre, ai vari mesi nominativi diversi nella propria lingua, laddove, per l’innanzi, presso i Franchi, essi erano designati parte con la denominazione latina, parte con nomi barbarici. Anche per i dodici venti scelse nomi appropriati; prima di lui, infatti, appena quattro di essi erano designati con i loro appellativi. Li chiamò con i seguenti nomi: gennaio, wintarmanoth; febbraio, hornung; marzo, lentzinmanoth; aprile, ostarmanoth; maggio, winnemanoth; giugno, brachmanoth; luglio, heuvimanoth; agosto, aranmanoth; settembre, witumanoth; ottobre, windumemanoth; novembre, herbistmanoth; dicembre, heìlagmanoth. Ai venti diede questi altri nomi: il levante lo chiamò estroniwint; l’euro, ostsundroni; l’ostro-scirocco, sundostroni; l’austro, sundrom; l’austro-africano, sundwestroni; l’africo, westsundroni; lo zefiro, westroni; il nord-ovest, westnordroni; il maestrale, nordwestroni; la tramontana, nordroni; l’aquilone, nordostroni; il greco, ostnordroni.

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→ Latino 30

La nomina del figlio Ludovico a Imperatore e suo erede

Negli ultimi tempi di sua vita, già oppresso dalla malattia e della vecchiaia, chiamò a sé il figlio Ludovico, re d’Aquitania, l’unico che gli fosse rimasto dei figli di Ildegarda. Radunò solennemente i grandi del regno dei Franchi, associò al governo il figlio, col parere favorevole di tutti, lo nominò erede della dignità imperiale, e, dopo avergli posto sul capo la corona, ordinò che lo si chiamasse imperatore e augusto.

Questa sua decisione fu accolta da tutti con gran trasporto, che ognuno la ritenne ispirata da Dio per il bene della nazione. Il suo splendore fu accresciuto e le nazioni straniere ne provarono un gran terrore. Dopo tale cerimonia, rimandò il figlio in Aquitania, ed egli, secondo il costume e nonostante la vecchiaia, se ne andò a caccia, non lontano dalla reggia di Aix. In siffatto modo passò il resto dell’autunno, e, verso le calende di novembre, ritornò ad Aquisgrana.

→ Latino Morte e sepoltura dell'Imperatore Carlo Magno

Mentre vi svernava, nel gennaio dovette porsi a letto, assalito da una forte febbre. Allora, come soleva fare quando era ammalato, si mise a dieta, credendo di poter cosi debellare la malattia o, per lo meno, mitigarla. Alla febbre segui quel dolore ad un fianco che i Greci chiamano pleurite, ma il re continuò ad osservare la dieta e non sosteneva il corpo altro che con qualche rara bevanda. Trascorsi sette giorni da quando s’era messo a letto, dopo aver ricevuto la sacra comunione, venne a morte. Aveva settantadue anni di età e si iniziava il quarantasettesimo del suo regno. Mancavano cinque giorni alle calende di febbraio ed era la terza ora del giorno.

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→ Latino 31

[Sepolcro di Carlo Magno]

Il corpo di lui venne lavato e composto con solenne rito; poi, fra la generale desolazione, fu portato in chiesa, ed ivi venne sepolto. Non si sapeva, in un primo tempo, dove collocarlo, perché non aveva precisato nulla al riguardo. Alla fine furono tutti d’accordo nel ritenere che in nessun luogo potesse essere meglio inumato che nella basilica, costruita a proprie spese, in quella città, per l’amore di Dio e di Nostro Signore Gesù Cristo ed in onore della madre di lui, la santa ed eterna Vergine. Vi fu sepolto lo stesso giorno della morte e la tomba fu collocata sotto un arco dorato decorato con il ritratto di lui e la seguente iscrizione: Sotto questa pietra riposa il corpo di Carlo grande ed ortodosso imperatore

che magnìficamente estese il regno dei Franchi e felicemente lo resse per quarantasette anni. Mori settuagenario Vanno del Signore 814 nella settima indizione il giorno quinto delle colende di febbraio

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→ Latino 32

I prodigi che preannunciavano la sua morte

Molti furono i presagi che segnarono l’approssimarsi della fine di lui, tanto che, non solo gli altri, ma egli stesso sentì quella minaccia. Per tre anni di seguito, negli ultimi tempi di quella vita, furono frequentissime le ecclissi di sole e di luna, e nel sole, per sette giorni, fu scorta una macchia nera. Ruinò fino alle fondamenta, il giorno dell’Ascensione, un portico di gran mole che il re aveva fatto costruire tra la basilica e la reggia. Un incendio fortuito bruciò in tre ore il ponte di legno sul Reno presso Magonza, fatto costruire da Carlo in dieci anni, con ingente fatica e tale magnifico lavoro che sembrava dovesse durare in eterno. Bruciò talmente, che salvo quelle coperte dall’acqua, non fu risparmiata neppure una tavola. Lo stesso Carlo, al tempo dell’ultima sua spedizione in Sassonia, contro Goffredo, il re dei Danesi, era uscito un giorno dall’accampamento prima del levarsi del sole e, mentre si metteva in cammino, vide d’improvviso, nel cielo sereno, staccarsi una face ardente e luminosissima e percorrerlo dalla destra alla sinistra. Mentre tutti, pieni di meraviglia, si domandavano cosa volesse significare questo segno, il cavallo che re Carlo montava abbassò bruscamente la testa, cadde giù, e gettò in terra con tale violenza il sovrano, che a questo si ruppe la fibbia del mantello e si spezzò la cintura della spada. I servi accorsi trovarono Carlo senz’armi e senza mantello: il giavellotto, inoltre, che il re stringeva in pugno, fu proiettato tanto lontano, da venire raccolto a più di venti passi di distanza. Aggiungi a ciò il frequente tremare del palazzo in Aix e i continui scricchiolii dei soffitti di legno nelle camere dove il monarca si tratteneva. Inoltre la basilica, nella quale Carlo doveva poi venire sepolto, fu colpita dal fulmine e la violenza della folgore strappò la palla d’oro dalla cima del tetto e la proiettò sulla casa del vescovo contigua alla basilica.

In quell’edificio poi, nel margine della cornice che divideva, dalla parte interna, gli archi inferiori dai superiori, era un’iscrizione in rosso con il nome del fondatore del tempio. Essa finiva con le parole Karolus Princeps. Orbene, parecchi mesi prima della morte di lui, le lettere della parola Princeps erano cosi sbiadite che a mala pena si potevano leggere. Ma re Carlo o mostrò di non comprendere o disprezzò tutti questi presagi, come se essi non lo riguardassero affatto.

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→ Latino 33

La divisione del suo tesoro

Aveva stabilito di redigere un testamento che contemplasse le figlie ed inoltre i figliuoli avuti dalle sue concubine; ma l’iniziò troppo tardi e non poté terminarlo. Però, tre anni prima di venire a morte aveva provveduto, davanti ai suoi amici e ai suoi ministri, a dividere il tesoro, il denaro, le vesti e le suppellettili che gli appartenevano: raccomandò loro di curare, dopo la sua morte, che questa ripartizione fosse mantenuta e pose per iscritto le proprie decisioni a tale riguardo.

Ecco le disposizioni e il testo delle sue volontà:

«In nome del Signore, Dio onnipotente, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Eecco la descrizione e la divisione che il gloriosissimo e piissimo signore, Carlo imperatore augusto, nell’anno 811 dell’Incarnazione di Nostro. Signore Gesù Cristo, anno 43° del suo regno in Francia, 36° del suo regno in Italia e 11° dell’Impero, nella 4ª indizione, con pio e saggio consiglio stabilì di fare e, con la grazia di Dio, fece, dei suoi tesori e del suo denaro rinvenuti in quel giorno nella sua camera.

Egli ha voluto, prima d’ogni cosa, non solo provvedere, secondo la tradizione cristiana, ad un’erogazione metodica e razionale di parte della sua fortuna, sotto forma di elemosine, ma mettere anche i suoi eredi in condizione di conoscere, rimosso ogni malinteso, quel che loro tocca dell’eredità, in modo che si possa venire a una giusta divisione, senza che nasca tra di loro lite o contestazione alcuna.

→ Latino Il lascito di due parti dell’eredità ai luoghi santi

Con questa intenzione e questo proposito, ha cominciato col fare tre parti di tutte le somme e le suppellettili che, in oro, in argento, in gemme o in ornamenti regi, fu dato rinvenire, come e stato detto, quel giorno in quella camera, poi ha suddivisi questi blocchi e di due ha fatto ventuno divisioni mentre ha conservato integro il terzo, he ventuno divisioni delle due parti rispondono a questo criterio, dato che nel suo regno, come e noto, vi sono ventuno città metropolitane, egli ha deciso che ognuna di queste parti sia data a ciascuna metropoli come elemosina dai suoi eredi e dai suoi amici, e gli arcivescovi, che governeranno in quel tempo tali metropoli, dovranno, dopo aver avuto consegna del proprio lotto, dividerlo, a loro volta, con i propri suffraganei, nella seguente maniera: conservare un terzo per le loro chiese e dividere tra i suffraganei gli altri due terzi.

Queste suddivisioni delle prime due parti, in ventuno lotti, secondo le ventuno città metropolitane, sono state accuratamente separate le une dalle altre e collocate in una stanza appartata con l’indicazione, su ciascuna di esse, delle città alle quali dovranno essere consegnate. Ecco i nomi delle metropoli che dovranno ricevere tale elemosina o elargizione: Roma, Ravenna, Milano, Cividale del Friuli, Grado, Colonia, Magonza, Iuvavo, o, con altro nome, Salisburgo, Treviri, Sens, Besangon, Lione, Rouen, Reims, Arles, Vienne, Tarantasia, Embrun, Bordeaux, Tours, Bourges.

→ Latino Il lascito della terza parte

Ed ecco quanto ha deciso di quella terza parte che ha voluto conservare intera. Mentre le due precedenti sono state suddivise, come è stato detto, e riposte sigillate, questa terza, comprendente beni dei quali nessuna clausola ha tolto la libera disponibilità al suo possessore, sarà assegnata ai bisogni della sua vita quotidiana fin quando egli sarà in vita e giudicherà necessario disporne. Alla sua morte, o alla volontaria sua rinunzia ai beni di questo mondo, tale porzione sarà suddivisa in quattro parti: una sarà aggiunta alle ventuno precedentemente indicate; una seconda sarà rimessa ai suoi figli, alle sue figlie e ai figli e alle figlie dei suoi figli per essere divisa tra di loro in maniera giusta e ragionevole, una terza, secondo il costume cristiano, sarà ripartita tra i poveri; una quarta, infine, verrà divisa, sotto forma di elemosina, per i bisogni dei servi e delle ancelle del real palazzo.

A questa terza porzione dell’intera somma, composta come le altre di oro e di argento, volle aggiungere tutti i vasi e gli utensili di bronzo, di ferro e di altri metalli, e le armi e le vesti e le suppellettili, preziose o di uso: tali, per esempio, le cortine, le coperte da letto, i tappeti, i feltri, le pelli, le bardature e tutto quanto in quel giorno fu trovato nella sua camera e nel suo vestiario per accrescere i vari lotti di questa porzione e permettere l’erogazione di tale elemosina a un numero maggiore di persone.

→ Latino Sue disposizioni relative alla cappella e ai suoi libri

Ordinò, inoltre, per quel che riguardava la cappella, ossia il servizio ecclesiastico, che rimanesse integro e non potesse essere soggetto a divisione alcuna, sia tutto quanto aveva egli donato o radunato, sia quanto gli perveniva dall’eredità paterna. Se si rinvengono o vasi o libri o altri ornamenti che chiaramente risultino non essere stati donati da lui alla predetta cappella, allora sia lecito acquistarli a chi voglia, purché se ne dia un prezzo giusto. Per quel che riguarda i libri, dei quali ha raccolto una gran quantità nella sua biblioteca, ha stabilito che chi li desideri li paghi al loro giusto prezzo, e che il ricavato sia erogato in beneficio dei poveri.

→ Latino Delle tre mense d’argento e della quarta d’oro

Tra gli altri tesori e le altre sue ricchezze figurano tre tavole di argento e una d’oro di grandissima bellezza e di peso considerevole. Nei riguardi di esse ha stabilito ed ordinato quanto segue: quella di forma quadrangolare, sulla quale è tracciata la pianta della città di Costantinopoli sia portata, insieme con gli altri doni già stabiliti, a Roma, alla basilica del beato Pietro apostolo: l’altra, rotonda, sulla quale è rappresentata la città di Roma, sia consegnata al vescovo di Ravenna: la terza, molto più bella e pesante delle altre, sulla quale e tratteggiata con tratti sottili e minuti, la figura di tutto il mondo, sotto forma di tre cerchi concentrici, e la tavola d’oro che abbiamo indicata come la quarta di questa serie, dovranno essere aggiunte in aumento di quella terza parte di eredità da spartire tra gli eredi e le elemosine.

Questa decisione e questi ordini sono stati presi e dati in presenza dei vescovi, degli abati e dei conti che potettero assistervi di persona. Eccone i nomi. Vescovi: Oldebaldo, Ricolfo, Arn, Wolfario, Bernoino, Laidrado, Giovanni, Teodulfo, Iesse, Heitone, Walgaudo. Abati: Fridugiso, Adalungo, Engilberto, Irminone. Conti: Walah, Meginerio, Otulfo, Stefano, Unruoco, Burchard, Meginardo, Attone, Ricuino, Edo, Ercangario, Geroldo, Bero, Ildigerno, Roccolfo.

Il figlio di lui, Ludovico, che gli successe per volontà divina, dopo che ebbe letto quest’atto, curò di eseguire, subito dopo la morte di re Carlo, tali disposizioni, con tutta la sua devozione e nel più breve tempo possibile.

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