Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo IV.

Il Takkazè. — II Semièn. — Prigionia e liberazione. — Doqquà, Gondar. — Passaggio del Bascilò. — Tedba Mariàm. — Festa della S. Croce. — Il ponte del Diavolo. — Arrestati e condotti a Berrù Lubò. — La corona del fiat voluntas tua. — Al campo di ras Uandiè. — Quarata: bel panorama! — Nel Goggiàm. — A Dembecià. — Al Santuario di Devra Work. — Da ras Aly. — Le grandi feste di Dima Ghiorghis. — Monsignor Massaia in viaggio verso l’Europa. — Ponte di nuovo genere. — Nel Beghemeder. — Presso il monaco Abba Desta. — Fra i Zellàn. — Una spia di Salama. — Nel Tigrè. — Improvvisa trasformazione. — In casa dei pastori di Salama. — Un terribile incontro. — Una pianura in fiamme. — Una piena. — Pastori cortesi. — A Umkullu e a Massaua. Una conversione.

Ritornando all’esposizione del viaggio, da Abba Garima, traversato il fiume Takkazè, i nostri si spinsero sulle montagne del Semièn, le più alte dell’Abissinia, che trovarono biancheggiare di grandine. Su queste alture non allignano gli alberi, solo vi crescono licheni ed erbe aromatiche, onde si può mantenere molto bestiame, e gran quantità di api che sono la principale ricchezza del paese. Ancora vi seminano l’orzo che è l’unico prodotto che possa /38/ dare questo terreno. Procedendo nel viaggio giunsero alla capitale del Semièn, a Maitalo, dove furono ospitati in casa dello stesso Ubiè e trattati con ogni larghezza. L’altipiano del Semièn varia dai due ai tre mila metri; vi si cammina molto più agevolmente che nelle valli; anche vi si respira un’aria balsamica, profumata da una bella vegetazione. Nel Semièn s’innalza la più alta montagna dell’Abissinia, il Dagiàn, che raggiunge i 4600 metri. Giunti al limite dell’altipiano ecco presentarsi all’occhio una incantevole prospettiva; dappresso il Waggarà, ondulato e ricco di vegetazione; più lungi, quasi perduta nelle nuvole, la città di Gondar; e tra ponente e mezzogiorno qualche lembo del lago Tsana.

Sceso un rapido pendio di ben 500 metri, pervennero fra deliziose colline al villaggio di Doqquà, dove ammirarono una chiesa ormai cadente, fabbricata trecent’anni prima dai Portoghesi, i quali erano accorsi in aiuto degli Abissini contro le irruzioni dei Mussulmani. Da Doqquà in una giornata di cammino si pervenne a Gondar, divenuta la capitale dell’Abissinia dopo la caduta di Axum e la fusione della razza etiopica coll’amarica, venuta dalla costa asiatica del Mar Rosso, e che trasformò la famiglia imperiale etiopica in amarica. La città di Gondar, posta alle falde di verdeggianti colline, fu già la capitale dell’impero ai tempi di Prete Gianni o imperatore Claudio Atanàf Sagàd, e allora aveva una grande estensione, come si può vedere dalle ruine che tuttora si scorgono nei dintorni. In Gondar vi si ammirano ancora due palazzi reali fabbricati dai Portoghesi. Qui, per opera dell’eretico Salama, mons. Massaia con un futile pretesto venne legato, ne potè essere sciolto se non pagando /39/ duecento talleri, che poi furono costretti a rimborsargli.

Da Gondar in compagnia del padre Stella, lazzarista, che qui aveva ritrovato, prese il cammino verso Tedba Mariàm, facendo parecchie soste nei varii villaggi che s’incontrano sul percorso. La prima breve sosta fu a Devra Tabor, dove ricevettero cortese accoglienza dalla moglie del ras, figlia di Ubiè. Di qui avanzarono verso Guradit, residenza del degiace Bescir, zio materno di ras Aly, il quale, sebbene mussulmano fanatico, per rispetto al nipote, trattò bene il Massaia e la sua comitiva assegnando loro una capanna dove ebbero alloggio e vitto per oltre un mese, cioè fino al termine della stagione delle pioggie. Finalmente verso la metà di settembre, essendosi abbassate le acque dei fiumi, ottennero dal degiace di proseguire. Giunti in riva al Bascilò, lo tragittarono in modo proprio singolare. Preparate le tanque, cioè una specie di assiti formati di tanti legni legati accosto l’uno all’altro, e stesavi sopra dell’erba, vi fecero sedere i missionari; indi, dopo aver lanciati una quantità di sassi nel fiume e per un pezzo emesso delle grida selvagge per ispaventare i coccodrilli che infestano quelle acque, si posero quattro uomini, uno per canto, alle estremità delle tanque e spingendo ciascuno per la parte sua, tragittarono i missionari all’altra sponda.

Traversata la valle del Bascilò, dove si trovano dei grossi pezzi di cristallo di rocca e talora anche delle pietre preziose, si giunse verso sera a Tedba Mariàm, che è città forte posta su una montagna dello stesso nome. Misura questa tre chilometri di circonferenza e tutto intorno è tagliata a picco, /40/ onde per questo si rende un luogo inespugnabile, ed ivi risiedeva il principe Tokò Brillè. Tedba Mariàm è anche riguardata come santuario e vi si venerano un rotolo, al dire degli abitanti, disceso dal cielo e un tabot o pietra, essa pure discesa dal cielo. Ma il padre Cesare che li potè vedere disse che quello era una carta-gloria stampata a Venezia e questa una pietra sacra di altare! Il principato di Saint, di cui Tedba Mariàm è il centro, poteva allora riguardarsi come il territorio più fertile di tutta l’Abissinia; le merci si avevano a vilissimo prezzo; con uno scudo si compravano 18 pecore e pure con uno scudo dodici sacchi di grano, e ancora con uno scudo si potevano avere 5 grandi vasi di miele e tre di burro. Così almeno era allora. Celebrata il 14 settembre in Tedba Mariàm la festa dell’Esaltazione della Croce, che per gli Abissini è più una cerimonia civile che religiosa, riguardandosi come il principio della state, presero la via verso lo Scioa e, passato a un certo punto il cosidetto ponte del Diavolo (formato dall’acqua che corrodendo la terra s’aprì un varco interno, lasciando di sopra come ponte un gran masso), e, toccati i villaggi di Totala, Ainamba, giunsero ai confini dello Scioa. Traversato un fiume che serve di confine s’inoltrarono nella terra; ma ecco che a un certo punto sopravviene una turba di soldati o diavoli in carne, gente dissoluta e sudicia, che li arresta e li obbliga a ritornare ad Ainamba da Berrù Lubò.

Furono quattro giorni di vera agonia morale, per non parlare dei patimenti esterni; unico conforto in tanta afflizione la preghiera, la corona, come dice mons. Massaia, del fiat voluntas tua, che consisteva /41/ nel recitare cinque Pater, soggiungendo dopo ciascun Pater dieci volte la giaculatoria suddetta. Trattamento un po’ più umano ebbero in Horrò Haimanò da Aly Babola, a cui furono rimessi da Berrù Lubò. Continuando il cammino toccarono il villaggio di Daùnt e pervennero a Betlièm, che è città di rifugio e di immunità perchè appartenente all’Eccecchè o capo dei Monaci. Di qui mossero verso il campo di Degiace Bellòh, di religione mezzo cristiano e mezzo mussulmano, perchè e cingeva il Matev, cordone azzurro, distintivo dei cristiani, e s’accomunava poi nelle preghiere coi mussulmani; cosa però da non stupirne in questa gente. Lasciato il campo di Bellòh, si portarono a quello di Degiace Bescìr, dove cessarono finalmente tutte le vessazioni e ricevettero cortese ospitalità. Di qui fecero una corsa a Guradìt, dove battezzarono un fanciullo galla chiamato Morka, che troveremo spesso più avanti col nome di Abba o prete Ioannes. Dopo qualche giorno seguiti, come da scorta d’onore, da tutto il campo di Ghebrù Uandiè, un seicento persone fra uomini e donne, avanzarono verso Quarata.

E qui non è inutile un breve cenno sulla formazione del campo di Ghebrù Uandiè e in generale dei ras abissini. A un ordine del capo tutti si fermano; si stende una pelle per terra ove deve posare il capo; indi un fanciullo gli apre dinanzi il salterio che quegli insieme col confessore, che sempre si conduce seco, si mette a recitare con certa affettata gravità, che non gli impedisce di impartire ordini a destra e a sinistra e di vedere e sentire quel che avviene attorno a lui. Indi si ammazza un bue, lo si scuoia, lo si squarta, lo si /42/ sminuzza, e pezzo per pezzo dal giovane che ne grida il nome, viene presentato al signore, il quale dice a chi debbano portarlo. Di notte poi si dorme sotto tende innalzate lì per lì dai soldati che a quest’uopo tagliano, distruggono quanto dà loro nelle mani, senza riguardo alcuno.

La sera del terzo giorno pervennero a Quarata, città di un migliaio di abitanti, che sorge in posizione incantevole. A ponente ha le vicine rive del lago Tsana che si sperde nel lontano orizzonte, mentre dalle altre parti guarda dappresso un piano leggermente ondulato che a certa distanza va salendo in belle montagne, quasi a modo d’anfiteatro. Il clima vi è dolce, il suolo fertilissimo; spontanei vi crescono i limoni, gli aranci, il pesco, il caffè, la vite; specie svariatissime d’uccelli svolazzano fra gli alberi, pesci in gran copia si cavan dal lago; è senza esagerazione, il più bel sito dell’Abissinia. Da Quarata, proseguendo il cammino, si giunge in riva all’Abbai o Nilo azzurro, così detto dal colore delle sue acque. Discesi una rapidissima china di cento metri, lo tragittarono sopra un ponte a cinque arcate, uno dei tanti monumenti lasciativi dai Portoghesi.

Entrati in una bella pianura del Goggiam fecero una prima tappa presso una chiesa detta Devra Neghest, dove i soldati, avendo trovato dei bei campi di fave mature (si era in novembre), li saccheggiarono completamente; invano protestando i proprietarii, e pur invano richiamandosi presso Ghebru Uandiè; egli era intento a recitare il suo salterio e non voleva distrarsi.

Di qui passarono a Dembecià, città principale della provincia del Damòt, celebre pel suo san- /43/ tuario di San Michele, dove si fermarono parecchi giorni ben trattati e regalati, e dove altro inconveniente non si ebbe se non che di notte avevano del continuo le orecchie rintronate dalle urla delle iene che in quei luoghi vi sono come in loro regno. È questo animale per indole sua pauroso assai, nè mai, se non raramente, assale l’uomo, sì i muli e gli asini che gli vengono a tiro.

Da Dembecià mossero verso Devra-Work, colle rotondo, tutto intorno lungo le pendici sparso di capanne e coronato in cima da una chiesa, la quale, secondo il giudizio del Deftèra che la reggeva, era la più bella del mondo: figurarsi, un gran capannone di paglia! Ma là fra quei popoli ignoranti e boriosi tutto è grande; anche i loro ras sono i più grandi, i più potenti di qualsiasi re o imperatore d’Europa; così la pensava il maggiore fra essi, ras Aly. Trovavasi allora questi non lungi da Devra-Work a campo contro Berrù Gosciò, degiace del Goggiàm, che se gli era ribellato. Com’ebbe sentito dell’arrivo di mons. Massaia, mandò pel signor Bel, maltese, avvertirlo andasse a lui. Lo ricevette con grande cortesia e solennità attorniato dai grandi della sua corte e volle dimorasse nella sua casa; dove, tra parentesi, abitavano anche dei cavalli ed una numerosa famiglia di gatti e scimmie. Ma dopo dieci giorni monsignor Massaia infastidito, più che di tal sorta di abitatori quadrupedi, dell’immoralità delle persone che vi bazzicavano, chiese una tenda a parte che gli fu subito concessa e che si ebbe molto cara perchè ivi era libero di celebrare la S. Messa e di pregare.

Ad invito di ras Aly intervenne ad una festa religiosa che celebravasi in Dima Ghiorghis, vi- /44/ laggio non molto lontano. La festa incominciava verso notte; gente d’ogni età, d’ogni sesso s’aggirava per la chiesa, come sopra una piazza; chi mangiava, chi beveva, chi litigava, chi giuocava, mentre un dei sacerdoti eretici fra quel baccano leggeva la vita d’un famoso santo, Tekla Alfa, un santo di quelli a modo degli Abissini, su cui è molto da dubitare se sieno in cielo. Verso le tre del mattino incominciò la Messa celebrata nel Sancta Sanctorum che sorge in mezzo alla chiesa (un gran capannone che misurava 400 passi di circonferenza) e che è tutto chiuso all’intorno sicché nulla si vede dagli assistenti. Fuori del Sancta Sanctorum in veste sfarzosa e con gran turbanti in capo stava una cinquantina di defteri, che cantavano, nessuno avrebbe saputo dir che, e colle voci più sguaiate del mondo, ma che tuttavia erano applauditi da una turba di giovinastre sfacciate. A un certo punto i famosi preti in abito di velluto e broccato d’oro e con in capo corone d’argento dorato uscirono dal Sancta Sanctorum e con gran sussiego si misero a girare attorno al medesimo incensando. Si sarebbe detta una commedia sacrilega, ma da eretici e da eretici corrotti fino al midollo dai vizi non è da aspettarsi di meglio. Altro che onorare Iddio e propiziarselo! dovrebbe il Signore scendere dal cielo e con una fune percuoterli di santa ragione.

Intanto eran trascorsi due mesi ne si vedeva modo di passare fra i Galla; ras Aly per non procurare disturbi a sè e pericoli al Massaia non gliel concedeva. Gli consigliava invece di recarsi in Europa e rivolgersi al governo francese perchè lo appoggiasse nelle sue imprese; egli in compenso avrebbe mandato a spasso tutti gli abuna eretici. /45/ Il nostro Massaia, ponderate le cose, credette di aderire al consiglio di ras Aly ed in compagnia del padre Giusto e del fratello Filippini, lazzarista, il 30 gennaio 1850 si dispose alla partenza. Si passò per Nazareth, Mota, paesi montuosi, dappertutto trovando cortese accoglienza per avere con sé una scorta d’onore assegnata loro per sicurezza da ras Aly.

Presso Mota si doveva tragittare l’Abbai ed essendo inservibile il ponte (anch’esso monumento dei Portoghesi), che lo cavalca, si dovette ricorrere ad un altro mezzo, inaudito per noi, ma comune per quei luoghi.

A un certo punto il fiume corre incassato tra due alte ripe con un letto molto ristretto, un sette od otto metri. Ed ecco che cosa fecero: legarono uno con una fune sotto le ascelle e indi tragittatisi prima alcuni a nuoto all’altra sponda a poco a poco da una parte allentando e dall’altra tirando a molte braccia lo trasportarono all’altra riva. E così a mano a mano fecero passare gli altri con molta tremarella sì, ma senza danno.

Entrati nel Beghemèder ebbero ad incontrare molte avventure, certo non tutte liete. La prima notte postisi a dormire in una casa mezzo rovinata dovettero presto sloggiare perchè assaliti da un esercito di cimici e pulci, onde furono costretti a riposare alla bella diana sulle loro pelli. Altra avventura fu l’aver potuto conoscere il monaco Abba Desta, il monaco più perfetto dell’Abissinia; lo diceva egli stesso, e imponeva a quei di casa lo credessero, obbligandoli a bere l’acqua in cui s’era lavate le mani. Da questo po’ po’ di umiltà si può /46/ argomentare delle altre virtù: trattò però i nostri cortesemente.

Lasciato questo monaco, si portarono fra i Zellàn, ricchi pastori mezzo pagani, dove monsignor Massaia scoperse una cosa singolare delle costumanze eretiche; ragionando con alcuni diaconi (eretici, s’intende) apprese che si comunicavano di molto spesso, ma non si confessavano mai, perchè, dicevano, i giovani, nemmanco in punto di morte, non sono obbligati a confessarsi; e altre cosette intese della loro vita punto edificanti. A questo punto per evitare le insidie di Salama stimò bene di seguire altra via da quella convenuta con ras Aly. Lasciato pertanto che il padre Giusto continuasse con la carovana verso Gondar, egli, provvedutosi di un asino pel trasporto dei bagagli e di due servi accaparrati lì per lì e che nulla sapevano della condizione sua, prese altra direzione, tenendosi sempre a prudente distanza da Gondar. In cinque altre giornate di cammino, sempre in discesa per l’Hammamò, giunsero a Doqquà, e di qui a Waggarà e, dopo altri due giorni di orribile strada, a Waldubbà, monastero e santuario famoso in tutta l’Abissinia. Fecer sosta in un villaggio vicino presso un buon uomo, il quale attaccando discorso col nostro mons. Massaia, disse come il vescovo Salama fosse molto adirato con l’Abuna Messias (così con felice storpiatura era chiamato il Nostro). Ci volle tutto il suo sangue freddo per non tradirsi.

Ma il più bello venne in seguito; passato il fiume Takkazè, si doveva pagar la dogana a un certo Agirisch, tutta creatura di Salama, quindi per monsignor Massaia persona pericolosissima. Come cavarsela? Tagliossi la barba, s’annerì ad arte il volto e, /47/ vestiti un paio di pantaloni e una camicia tanto sbricia, che, come dice argutamente egli stesso, neppure un rigattiere ebreo li avrebbe comperati, indettati prima i servi di quel che dovessero fare, disposesi ad affrontare la terribile prova. Pagata una tenue moneta, già eran passati oltre, quando furono richiamati e fu domandato un dei servi chi si fosse quel forestiero che avevan con loro. È un povero matto, gli rispose questi con cert’aria di compassione. A queste parole i doganieri si allontanarono e così i nostri poterono seguitare tranquilli.

Ma che? Passato questo pericolo, si doveva incappare in un altro anche maggiore. Sostati a rifocillarsi presso un pastore s’accorsero che costui era proprio un dipendente dell’abuna Salama! Perciò più che in fretta, simulando un altro motivo, levaron le tende prendendo via verso Massaua.

Ma pareva proprio che tutto congiurasse contro il nostro apostolo. Partiti innanzi l’alba al chiaror della luna presero per un bosco, quand’ecco il nostro vescovo che camminava alcuni passi indietro cantando a mezza voce le litanie della Madonna sente qualcosa moversi tra i folti cespugli; si fa a guardare: oh Dio! un leopardo passava. Che fare? Si copre la persona fino al capo con una tela e stringendosi al petto il Crocifisso si mette in silenzio, rattenendo financo il respiro, a guardare colla coda dell’occhio. La fiera, volto uno sguardo anch’essa intorno e fermatasi un istante, riprese poi il suo cammino. Il povero Monsignore era salvo, ma l’impressione dello spavento, anche passato il pericolo, gli durò un pezzo.

Usciti dal bosco entrarono in una gran pianura /48/ coperta di alta erba secca a cui in certi punti i servi ebbero appiccato il fuoco. Poco stante sorto il vento faceva divampare a gran tratti le fiamme, talché i nostri pellegrini ebbero a raccomandarsi alle gambe per mettersi in salvo; il povero asinello però, che, portando le provviste di un po’ d’orzo e di farina, non poteva correre, non se la passò così liscia; che ebbe parecchie scottature e la coda strinata. Ma molto peggio ebbero gli animali che trovavansi in mezzo; volpi, lepri si vedevan fuggire disperatamente di qua e di là; serpenti di smisurata grandezza sibilando acutamente lanciavano salti a più riprese, divincolandosi morbosamente nell’aria, ma poi ricadendo rimanevano inceneriti. Era una scena d’orrore.

Rifocillatisi alquanto, continuando il viaggio giunsero al villaggio di Gondet (ora uno dei primi villaggi di frontiera appartenenti all’Italia), dove intesero temersi in quei luoghi scorrerie dai soldati di degiace Escetù. E si sa che cosa avviene in tali frangenti in quei luoghi; non avendo i soldati alcun rispetto nè alla roba nè alle persone, gli abitanti abbandonano le loro capanne e fuggono trascinandosi dietro il bestiame e quanto altro posseggono.

Dopo tre giorni di cammino forzato, sempre in discesa, traversato il villaggio di Kaiakeur, si giunse in una valle stretta e profonda entro cui scorreva un torrente. Osservala nel mezzo di esso un’isoletta, quivi, come in luogo più sicuro, si tragittarono per passare la notte. Fatta adunque una magra cena e preparato per mons. Massaia sopra un banco di sabbia un bel letto, bello e morbido come può esserlo sopra la sabbia e le pietre (ma già le comodità son tutte relative), fatto questo dunque, si po- /49/ sero a dormire, rimanendo uno a far la veglia e a mantenere il fuoco acceso per allontanare le fiere che, non appena calate le tenebre, presero ad urlare da varie parti in varii suoni facendo sinistramente echeggiare quella valle deserta. Il nostro Massaia s’era indugiato a prender sonno avendo ancor da finire le sue preghiere; e fu fortuna, poichè la scolta s’era bravamente addormentata.

Monsignore allora svegliando un altro servo perchè facesse la guardia si pose a giacere per riposare; ma che? non aveva appena velato gli occhi al sonno che è desto da un rumore che viene appressando, e mentre pensa che possa essere, ecco un fiotto d’acqua bagnargli il giaciglio. Sveglia in fretta i servi, i quali, scorto il pericolo, lesti, legato l’asino al tronco d’un alto sicomoro, che sorgeva vicino e, fatto fagotto d’ogni cosa e mandatala sopra la pianta, vi salirono tutti fra i rami. Avevano appena fatto in tempo che la fiumana giunse inondando l’isola ad una grande altezza, talché la povera bestiola nuotava nell’acqua colla sola testa fuori. Dopo un quarto d’ora finalmente quella piena andò scemando, cosicché assicuratisi bene con funi sull’albero per non cadere presero, così fracidi e su quel letto di nuovo genere, un po’ di sonno.

In compenso di tante male avventure la Provvidenza disponeva che nei giorni seguenti capitassero fra due famiglie di pastori che fecero loro le più cortesi accoglienze, regalandoli di latte, di un agnello e d’altre cose mangerecce. Due giorni dopo arrivarono ad Umkullu, dove, informati dell’arrivo di mons. Massaia, vennero ad incontrarlo il sacerdote indigeno D. Gabriele, il padre Leone des Avanchères, cappuccino savoiardo giunto allora allora /59/ in Massaua, e l’agente consolare inglese, un greco scismatico di nome Stefano, che in segno di affezione verso il Massaia volle recargli egli stesso la cena da Massaua. Quest’atto di riconoscenza verso il missionario che l’aveva tempo addietro catechizzato gli valse dalla misericordia divina la grazia della conversione, poichè caduto il giorno dopo malato, vincendo tutte le difficoltà, riuscì ad avere presso di sé monsignor Massaia ed, emessa la sua abiura e ricevuti tutti i sacramenti, fece una buona morte.