Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo III.

La famiglia Degoutin. — Arrivo del De Iacobis. — Scoperta del balsamo. — Umkullu ed Arkiko. — Sulla vetta del Taranta. Hallai, Gualà. — Morte del vescovo abissino Cirillo e generoso tentativo del De Iacobis. — Mene dei protestanti ed elezione di Salama. — Esercizi spirituali e sacre ordinazioni. — Riscatto di due schiavi galla. — In una grotta. — Incomincia la persecuzione. — Per Aden. — D. Luigi Sturla. — A Zeila. — Nuovamente a Massaua e ad Aden. — Tre giorni in balia delle onde. — Ad Assab. — A Massaua un’altra volta. — Guerra tra gli Egiziani e gli Abissini. — Consacrazione di mons. De Iacobis. Al campo di ras Ubiè. — Abba Garima.

A Massaua il nostro apostolo trovò due giovani, Tekla Haimanòt e Walde Ghiorghis, quivi appunto inviati dal lazzarista signor De Iacobis (1a) dalla missione di Gualà per aspettare il suo arrivo. Il De Iacobis era entrato in Abissinia nel 1839, un anno dopo del signor Giuseppe Sapeto, pur esso lazzarista, il quale unitosi al d’Abbadie aveva con lui /24/ percorso in lungo e in largo l’Abissinia (1b). Il De Iacobis invece non intese con tutte le forze che all’apostolato, e i due sopradetti erano una sua conquista. Andate tranquilli, aveva loro detto, e vi assicuro che ritornerete con le mani piene, trovando più di quello che non pensate. (Una somma di 3 mila talleri, 15 mila lire che il Massaia aveva ricevuto dal prefetto dei lazzaristi, sig. Leroy, da rimettere al De Iacobis). Ma chi aveva avvertito il De Iacobis dell’arrivo del Massaia e dei denari che per lui recava? Non certo il Nostro, ne altri; ma i santi hanno altri mezzi che non sono i nostri per conoscere gli avvenimenti. E il presente fatto dimostra che il De Iacobis era un santo; e in parte la Chiesa l’ha già riconosciuto come tale avendolo dichiarato venerabile. Ritornati dunque questi a riportare la felice ambasciata e insieme una somma di denari, dopo quindici giorni, quanti ce ne volevano nell’andata e nel ritorno, ricomparvero a Massaua insieme col signor De Iacobis, il quale non è a dire quanto gioisse di poter abbracciare il nostro buon vescovo. Si trattennero insieme parecchi giorni ospitati dalla famiglia del console francese, signor Degoutin, tanto egli come i suoi ottimi cattolici.

/25/ Nei pochi giorni che si fermò a Massaua il nostro missionario fece non lungi da essa, in terra ferma, nella campagna di Umkullu (lo stesso che Moncullo segnato nelle carte) un’utilissima scoperta, cioè un albero che produce il balsamo, mentre prima credevasi che siffatta specie di piante non allignasse che nell’Arabia.

Stabilita frattanto ogni cosa, provveduto cioè un mulo per ciascuno ed una guida, una pelle da stendersi per terra ad uso di letto, una coperta di doppia tela abissina e un sacchetto da servire da involto per le camicie e insieme da capezzale nella notte, la mattina del 21 novembre si partì da Umkullu, villaggio non per altro notevole che per le sue fontane d’acqua dolce che fornisce a Massaua. Sull’imbrunire si giunse ad Archiko. Per la cena della numerosa carovana, in tutto 60 persone, si ammazzò un bue; cosa da non stupire, perchè s’incontrerà spesso in questa storia.

Venendo al viaggio, ora per aperte aride pianure e sotto un sole infocato, ora per istrette gole di monti, lungo il corso di torrenti fiancheggiati da alte piante, da ultimo inerpicandosi su per difficili erte, dopo sei giorni giunsero sul Taranta, magnifica montagna da cui l’occhio abbraccia tutto quanto il vasto altipiano dell’Abissinia. Per la china del Taranta scesero ad Hallai, primo villaggio abissino, dove furono ospitati da un ricco cattolico, il quale generosamente offerse alla carovana un bue che fu ammazzato, cotto e... mangiato, non diciamo con quale appetito dopo quel po’ po’ di ginnastica.

Toccati due altri villaggi, Tukunda e Zaquarò, dove ricevettero le stesse cortesi accoglienze, pervennero a Gualà, città principale dell’Agamè e resi- /26/ denza del De Iacobis; e proprio mentre la numerosa sua famiglia recitava la preghiera della sera. Erano questi una bella conquista che il buon missionario italiano aveva fatto alla fede cattolica (1c). Il quale di che spirito apostolico fosse dotato son testimoni queste generose parole che soleva ripetere al nostro Massaia: «Iddio non ci ha mandati qui per vincere, ma per combattere. La vittoria è del sovrano, la lotta del soldato. Facciamo dunque il nostro dovere da fedeli soldati, e saprà Egli raccogliere i frutti delle nostre fatiche». E coerentemente a queste sue parole aveva fatto il voto di morire sul campo delle sue fatiche, fra i suoi cari Africani.

Ma a suo riguardo, tornando addietro nella storia, a ben altre conquiste aveva rivolto l’animo, e, se non riuscì ad effettuarle, non è però meno degno di lode. Nel 1834 era morto, dicesi avvelenato da Sabagadis, re del Tigrè, il vescovo eretico di Abissinia, Cirillo, nè per cinque anni erasi pensato dai vari capi di dargli un successore; finchè il popolo, che incominciava a rumoreggiare, li obbligò a pigliare una decisione. Non potendo, secondo la legge del paese, un abissino esser nominato vescovo, si convenne di mandare una deputazione al patriarca copto del Cairo affine di domandargli un vescovo. Ma chi avrebbe guidata questa deputazione di ben trenta persone ed avrebbela tenuta d’accordo? Degiace Ubiè (2a), re del Tigrè, il quale /27/ benché eretico, grandemente stimava il signor De Iacobis, lo pregò di accettare egli l’incarico. Ma questi rispose che quando fosse per condurre la comitiva dal Papa a Roma volentieri si sarebbe sobbarcato a quella impresa, diversamente no; Ubiè acconsentì. Ma che? Giunti al Cairo, parte della deputazione si lasciò intimorire, parte corrompere dall’oro, cosicché si conchiuse col domandare il vescovo al patriarca eretico del Cairo, e questi, che a sua volta era stato comprato dall’oro dei protestanti inglesi, diede loro per vescovo una creatura dei medesimi, un mal arnese, figlio di un sensale di schiavi, che prese il nome di Salama II, vescovo di Axum. Tanto per avere un’idea di un tal vescovo, di questo giovinastro (non contava che venti anni) basti dire che dopo quattro anni di vita monacale nel convento di S. Antonio (s’intende un convento eretico, e di che fatta sieno vedremo in appresso) dopo quattro anni ne fu cacciato come autore principale di una congiura per uccidere l’abate. Eletto così fraudolentemente vescovo e contro le proteste di parecchi deputati, col favore del governo mosse tosto a prendere possesso della sua sede in Gondar, dove fece varie prodezze degne di lui, che il tacere è bello, sì da venire in abbonando presso il popolo, il quale unanimamente gridò fosse espulso. Ma egli se ne vendicò col suscitare guerre fra i varii ras, finché dopo altre vicende l’imperatore Teodoro nel 1863 lo confinò nella fortezza di Magdala, dove quattro anni dopo miseramente morì.

Rifacendoci indietro, quando i nostri missionarii giunsero in Gualà ferveva la guerra, suscitata appunto da questo audace intruso, fra Degiace Ubiè, /28/ re del Tigrè e del Semièn e ras Aly, vero capo dell’Abissinia dopo la caduta dell’impero. In conseguenza di ciò mons. Massaia trovando intercettati i passi dai due eserciti non potè spedire i missionari nel paese dei Galla secondo l’istruzione avuta dalla Propaganda. Non si passò tuttavia inutilmente quel tempo, che tutti fecero gli esercizi spirituali dettati dal De Jacobis e infine mons. Massaia ordinò, a varie riprese, parecchi minoristi, suddiaconi, diaconi e undici preti. Or non è qui inutile accennare che ad evitare molestie dal popolo si tenne l’ordinazione in segreto e che i sacerdoti latini per non destare fra essi pericolosa ammirazione celebravano sempre in segreto, meptre gli altri di rito etiopico (1d) celebravano pubblicamente secondo il rito copto, cioè coll’assistenza di due diaconi e di due altri sacerdoti. Oltre a ciò tanto il nostro vescovo quanto il De Iacobis esercitavano il ministero in alcuni paesi vicini, Alitiena, Biera, Gondagondi; non senza notevole frutto. Temporeggiando tuttavia gli eserciti nemici, si pensò di studiar intanto la lingua galla e a questo effetto si comprarono due schiavetti di quella nazione, che istruiti nella fede cattolica furono poi battezzati, rimanendo sempre costanti nella abbracciata professione e uno anzi ricevendo l’ordinazione sacerdotale ed esercitando con frutto il ministero nello Scioa.

Ritornando ai nostri, vivevano così in una discreta tranquillità, quando un giorno si sparge voce che si avvicinavano i soldati di ras Ubiè, uccidendo, saccheggiando e devastando. Si pensò pertanto a mettere in salvo le persone e le sostanze e, trovata /29/ poco discosto una grotta deserta, in essa si ammassò la piccola provvigione, e le persone parte coi loro piedi e parte facendosi tirare a funi salirono sopra un’amba (montagna), che per la sua ripidezza porgeva un sicuro rifugio. Il giorno dopo infatti arrivò in Gualà il capobanda Aragaui, il quale però avendo ivi molti parenti non fece grandi guasti. Costui, è doveroso notarlo, si convertì poi al cattolicismo e morì carcerato per la fede nel 1860 (1e). Ma finalmente la sospirata pace fu conchiusa e si /30/ sarebbe quindi ripreso immediatamente il cammino per il paese dei Galla, se non fossero stati sconsigliati dal D’Abbadie, allora giunto fra loro, il quale li avvertiva come, incominciando per quelle regioni le pioggie equatoriali, riusciva pericoloso assai, per non dire impossibile, il viaggiarvi. Di nuovo quindi un’altra sosta involontaria. Passato questo impedimento, durato ben tre mesi, la normale stagione delle pioggie per quei paesi, un altro ne sorse. (Diciamo per quei paesi, perchè per Massaua e per il litorale del continente la stagione delle pioggie, invece che da luglio a ottobre, dura da novembre a febbraio; e la stagione delle pioggie segna per quei luoghi l’inverno).

Per un’imprudenza nel carteggio era venuto all’orecchio dell’eretico Salama trovarsi in Abissinia un vescovo cattolico. Parendogli che questa fosse una menomazione della sua autorità fece pubblicare su tutti i mercati dell’Abissinia un bando con cui ammoniva niun fosse ardito di ospitare o favorire comechessia mons. Massaia o alcuno de’ suoi preti, promettendo un premio di cento talleri a chi gli portasse la testa di un di essi. Ne contento a questo subornò l’amico suo Ismail Effendi, governatore di Massaua, a obbligarlo a sfrattare. Ma prima che giungesse l’ordine mons. Massaia lasciò Gualà e col padre Felicissimo riparò in Umkullu. Senonchè risaputosi della sua nuova dimora il governatore di Massaua mandò da’ suoi soldati ad atterrare la capanna del nostro vescovo. Fu però una mossa sbagliata; perchè allora intervenne il console francese e con note diplomatiche obbligò il governatore a rifare i danni. Pur non trovandosi quivi il nostro missionario abbastanza sicuro dal- /31/ l’odio di Salama, salita una barca, portossi col padre Felicissimo in Aden. Pochi giorni dopo arrivò in questa città il sacerdote Sturla, genovese, cacciato dalla patria come gesuitante e quivi rifugiatosi per salvarsi dall’odio dei suoi nemici, i quali anche qui volevan sturbarlo. Mons. Massaia l’accolse sotto la sua protezione e, ottenute lettere di favore dal governatore di Aden, sig. Hens, potè rassicurarlo. Lasciata la costa arabica, mossero verso Zeila, dove si trattennero circa tre mesi, facendo corse qua e là e attingendo quante più potevano informazioni sulle vicine coste, sull’interno e sulla regione dei Galla in particolare.

In questo frattempo occorse loro una avventura che, curiosa nella sua sostanza, poteva riuscir loro molto dannosa. Noleggiata una barca, si erano portati ad un isolotto dove sbarcati s’eran messi a cercar addentro la terra; quand’ecco quei bravi marinai, che anch’essi eran smontati, ridiscendere in fretta nella barca e, dati dei remi in acqua, pigliare il largo, e avrebbero così lasciati in asso i nostri missionari, se il padre Sturla, che sospettava del loro tiro birbone, cacciatosi a gola nell’acqua e afferratosi alla sponda della navicella non li avesse obbligati ad arrestarsi e a ritornare a riva. Scoperti della loro frode i valentuomini cercarono scusarsi dicendo averlo fa^o per burla. Bricconi!

Dopo 20 giorni di navigazione e di esplorazioni, lasciato il padre Sturla a Zeila perchè conducesse a termine le pratiche per la compera di una casa, il nostro Monsignore col padre Felicissimo ritornò a Massaua. Quivi ricevette lettere da Roma dove gli si diceva consacrasse vescovo il De Iacobis; ma questi assolutamente non ne voleva sapere. Ve- /32/ dendo dunque continuare la riluttanza il Massaia pensò di veleggiare nuovamente verso Aden.

Salita con un giovane di nome Paolo una barchetta, nei primi tre giorni si viaggiò col vento in poppa, d’incainto; il mare pareva un olio; ma al quarto ecco un’esalazione fosforica, quasi uno splendente incendio, coprire tutta quella immensa distesa e a questa poche ore dopo seguire il soffiare dei venti, dapprima moderati, ma presto tanto violenti che percuotendo nelle vele spingevano la misera navicella a furia, a una corsa sfrenata, pazza. Nè qui fu il peggio; raddoppiando di furore i venti e rinforzando la procella, le vele caddero inutili sulla barchetta che, non potuta più governare, era fieramente sbattuta dai marosi insieme e da raffiche ed ora levata al cielo, ora sprofondata negli abissi; e in questa altalena furiosa or di qua, or di là penetrandovi l’acqua i marinai e i nostri viaggiatori avevano un bel da fare a vuotarne il fondo. E questo fu lavoro o agonia di ben tre giorni, finchè al declinare del terzo le onde e i venti cominciarono a rallentare e il giorno seguente più morti che vivi dallo spavento avuto poterono finalmente, come Dio volle, dar fondo alla spiaggia di Assab, un misero villaggio di poche catapecchie che doveva poi diventare piazzaforte della colonia italiana. Ripigliato il viaggio e ripassato lo stretto di Bab el Mandeb nella sera del secondo giorno si giunse in Aden. In questo frattempo il rettore della missione di Aden, p. Marco Gradenigo di Venezia, essendo stato richiamato in patria, la S. Sede aveva provvisoriamente unita questa missione al vicariato dei Galla. Perciò mons. Massaia accordossi tosto col padre Sturla sul modo di fare un po’ di bene a quel /33/ migliaio di cattolici che vi dimoravano mescolati ad eretici, mussulmani e pagani; e si ottennero notevoli frutti.

Lasciato qui il padre Sturla, in qualità di viceprefetto, il nostro Monsignore, salito un piroscafo sferrò un’altra volta verso Massaua, dove intendeva di consecrare vescovo il De Jacobis, avendone, come dicemmo, ricevuto ordine da Roma. In Massaua, o meglio in Umkullu, seppe dal De Jacobis, che sopravvenne alcuni giorni dopo, come il padre Giusto s’era stabilito a Tedba Mariàm, città posta al sud del Beghemeder, e che il padre Cesare, dal nostro mandato al re dello Scioa, pei maneggi di Sciaifù, zio di Menelik, aveva dovuto tornare presso il padre Giusto.

Nella casa di Umkullu conferì i sacri ordini a parecchi alunni del De Jacobis, il quale finalmente s’era piegato alle preghiere del Massaia e indotto a ricevere la consecrazione episcopale. E avendo udito che gli Abissini, sdegnati che il governatore di Massaua avesse contro i loro diritti edificato due fortezze, una a Umkullu e l’altra ad Arkico, erano per invadere quelle coste, stimò bene di accelerare la funzione. Ma non tenendosi abbastanza sicuro in terra ferma si portò a Massaua, dove il giorno dell’Epifania, alcune ore avanti l’alba, per destar meno sospetta, procedette alla consacrazione del De Jacobis.

Quale cattedrale e quale pontificale! Una camera entro cui in luogo di altare eranvi due casse sovrapposte e suvvi due candelieri; il De Jacobis inginocchiato che pregava tra le lacrime, monsignor Massaia che celebrava assistito da due preti indi- /34/ geni, che a stento sapevan leggere un po’ di latino e, inserviente e guardia ad un tempo, fra Pasquale, che con due pistole ai fianchi serviva all’altare e tratto tratto facevasi a spiare all’uscio se s’avvicinasse qualche assalto dei mussulmani, che da qualche giorno rumoreggiavano maledettamente contro i cristiani. Finita la funzione e calata ogni cosa nella barca che ormeggiava lì vicino alla sponda presso cui sorgeva la casa, si diede dei remi in acqua e via per Dahlak. Intanto sopravvennero i soldati abissini che azzuffatisi cogli egiziani si danneggiarono a vicenda, rubando, devastando, ferendo, trucidando.

Non sarà inutile un cenno sul modo di guerreggiare degli Abissini. Gli Abissini usano come arme offensive il fucile, la sciabola a lama ricurva, la spada a lama diritta e la lancia che maneggiano con tal precisione e destrezza che a cinquanta passi scagliandola colpiscono il nemico, e come arma difensiva lo scudo convesso ricoperto di pelle di bue o di bufalo o anche di ippopotamo; il quale scudo presso i popoli meridionali è tant’alto che ricopre quasi tutta la persona. Sono eccellenti pedoni tutti, per la nativa loro agilità, e dotati di un coraggio a tutta prova, ed anche eccellenti cavalieri; i Galla specialmente possono considerarsi come i migliori cavalieri del mondo; con l’imperatore Teodoro incominciarono anch essi ad adoperare i cannoni. Sogliono guerreggiare di solito dopo la stagione delle pioggie che suol finire per l’Abissinia col mese di settembre, e in qualche regione col mese di ottobre, perchè allora trovano di che foraggiare per le bestie e anche di che vettovagliare gli uomini. La loro tattica è di comparire improvvisi e quindi ritirarsi per /35/ ricomparire un’altra volta rinfrescati di forze e ril forniti di viveri.

Tornando alla guerra tra gli Abissini e gli Egiziani, tre giorni dopo lo scontro, quietate le cose, il nostro vescovo tornò a Massaua, dove poco si fermò, ripartendo tosto per l’interno dell’Abissinia a vedere co’ suoi occhi come procedessero le missioni e a cercare una via da penetrare fra i Galla. Ma come avere il passo fra quelle popolazioni? Risolse di abboccarsi addirittura con ras Ubiè e di domandare a lui stesso lettere di protezione, «Sono partito da Massaua a questa volta (così scrive da Gondar in data 25 luglio 1849 al Consiglio della Propagazione della fede in Lione), sono partito non senza forti ostacoli per parte di tutti gli amici, i quali fecero ogni sforzo per trattenermi, come quelli che erano spaventati dai pericoli della persecuzione non per anche finita. Mons. De Iacobis poi credeva sicura la mia morte; e volendo far da profeta disse ch’io andrei al martirio; cosa per altro impossibile, stante certe circostanze che io solo coram Deo posso conoscere.

Gravi pericoli nondimeno per la Missione, obbligandomi di usar molte cautele in tener nascosta la mia partenza da Massaua e il mio viaggio fecero, ch’io tagliatami la barba e deposto ogni distintivo di persona ecclesiastica, partii a piedi, colla sola compagnia di due servi fidi e di un prete indigeno, a cui potessi confessarmi in ogni occorrenza».

In tal forma adunque si presentò ad Ubiè, quel medesime che un anno e mezzo prima avealo esiliato dai suoi Stati. Il ras, ricevutolo secondo l’uso abissino, introdottolo cioè in casa e fattolo sedere su un fastello di paglia steso per terra, lo trattò /36/ molto affabilmente e gli diede anche più che non desiderava, assegnandogli una guida e mandando ordine a tutti i capi che incontrerebbe sul suo cammino che lo trattassero come persona di riguardo. Perciò dappertutto oneste accoglienze e offerte di carne, birra e miele; quello ch’è in uso nell’Abissinia. La sera del secondo giorno giunse al villaggio di Abba Garima, che doveva poi diventare così tristamente famoso per noi Italiani per la sanguinosa sconfitta che dalle truppe alleate abissine toccava il nostro esercito, come abbiamo già innanzi ricordato. La casa ove erano alloggiati apparteneva a un domestico di Salama; quindi guai se il Nostro fosse stato riconosciuto! Ma egli per il Kalatie (portatore degli ordini del re) e per la famiglia che l’ospitava era il signor Antonio, e però gli accenni punto benevoli (non però rispetto ai costumi) che quella sera si fecero sull’abuna Messias punto non lo riguardavano.

(1a) Il ven. Giustino De Iacobis nacque il 1800 in S. Fele nella Basilicata. [Torna al testo ]

(1b) Questo missionario pubblicò poi una relazione della sua missione fra i Bogos e gli Habab e dei dati da lui raccolti sulla storia naturale e sulla geografia in un libro intitolato: «Viaggio nei Bogos e negli Habab», 1857. L’on. Orazio Pedrazzi nel suo libro «Esplorazioni italiane in Africa nel secolo xix» scrive dell’opera del Sapeto: «È questa un’opera monumentale, sul paese fino ad allora ignorato dei Bogos, dei Mensa e degli Habab, opera che può stare alla pari con quelle più recenti del Monzingber e dello Sweinfurth».

Georg August Schweinfurth (Riga, Lettonia 1836 – Berlino 1925), botanico e paleontologo tedesco. Fece un primo viaggio fra il Mar Rosso e il Nilo nel 1863 e il 1866. Nel 1869-1871 partecipò ad un'importante spedizione nell’alta valle del Nilo Bianco, nel corso della quale scoprì il fiume Uelle, appartenente al bacino idrografico del Congo; fece anche importanti osservazioni etnografiche sulle popolazioni dell’Africa centrale. Nel 1873-74 esplorò il deserto della Libia. Nel 1891 visitò l’Eritrea italiana.

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(1c) Per la conoscenza delle missioni dei Lazzaristi vedi «Le Missioni estere Vincenziane», periodico mensile illustrato che si publica a Chieri. [Torna al testo ]

(2a) Degiace e Degiasmace vale principe o re. [Torna al testo ]

(1d) Il rito etiopico è semplicemente tollerato dalla Chiesa. [Torna al testo ]

(1e) Il padre Leone des Avanchéres in una lettera in data 12 marzo 1850, che dice scritta a nome del Massaia stesso (v. Annali della Propagazione della fede), narra quest’episodio in modo diverso e che torna molto più a onore del nostro eroe. Dice adunque che un europeo, non avendo potuto ottenere dal Massaia ciò che questi ragionevolmente non poteva concedergli, pensò vendicarsene con offrirsi al vescovo Salama di darglielo nelle mani. Dietro suggerimento e indicazioni di costui Salama approfittando delle scorrerie che i soldati di Ubiè eran per fare in Gualà ove il Massaia allora si trovava prezzolò alcuni facinorosi che lo dovessero catturare e darglielo in suo potere. Senonchè la cosa venuta all’orecchio di un buon cattolico, questi corse tosto ad informare il De Iacobis, il quale senza nulla dire della trama al nostro Massaia, lo fece mettere in salvo con la sua famiglia sopra un’ambo deserta. Il 13 maggio 1847 giunse in Gualà coi soldati di Ubiè quella masnada di compri assassini, ma fu delusa nella sua aspettazione. Le cose parendo quietate, monsignor Massaia co’ suoi ritornò in Gualà; ma ecco il 3 giugno seguente un’altra irruzione di soldati che sorprende i nostri missionari nella loro capanna. Urla e minaccie risuonano all’intorno. Credendosi cerchi a morte i missionari si confessano l’un l’altro. Il nostro Massaia allora pensando che tutta quella tempesta fosse diretta contro di lui fa per uscire dalla capanna e darsi in mano di quegli inferociti se a sorte gli riesca di salvare i suoi compagni. Ma fortunatamente il capo di quella masnada era un segreto amico dei nostri e fattosi in sulla soglia li rassicurò e volgendosi a’ suoi gridò: guai osassero toccare i suoi fratelli.
Questo diverso svolgimento del fatto potrebbe anche essere il vero, attesoché il padre Leone scrisse a nome del Massaia e a pochi anni di distanza dagli avvenimenti. [Torna al testo ]