Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo VI.

Nove giorni sul Nilo. — Assiùt. — Antichità. — La diga colossale di Assuàn. — A Korosko. — Pel deserto. — La Nubia. — Il Mahdì. — Un temporale di sabbia. — Un’oasi. — A Berber; impertinenze e complimenti. — A Scendy. — A Kartùm tra i padri gesuiti. — Conversazioni con un Bey. — Le febbri malariche. — A pranzo dal governatore. — Fatalla Mardrùs riconosce il Massaia. — Rossères. — Le formiche bianche. — Per Gassàm. — I soldati egiziani. — A Kiri. — A Gadaref. — Abba Daàd. — Matomma — Un vescovo mercante. — Salvo per miracolo. — Attraverso il regno delle bestie feroci. — Tempesta d’acqua e di fichi. Libertà a prezzo di talleri. — Ad Ifàg. — Disinteresse di un prete eretico. — Fra i Zellàn.

Tornando al viaggio del nostro apostolo, imbarcatisi al villaggio donde eran partiti per la visita al convento di S. Antonio in nove giorni di viaggio giunsero ad Assiùt, trovando lungo tutto il percorso una quantità innumerevole di coccodrilli che addirittura mettevan spavento. Ad Assiùt si scontrarono in due Europei, uno italiano, mercante, l’altro di altra nazione, medico, tutti e due ottime persone che fecero al Nostro la più cortese accoglienza. In Assiùt, essendovi una missione cattolica, il Nostro potè confessarsi e celebrar Messa, come da lungo /62/ tempo desiderava, e quindi continuò il suo viaggio, osservando lungo le sponde gli avanzi dell’antica Tebe, rovine di palazzi e di templi, capitelli e colonne infrante, sfingi mezzo sepolte nella sabbia e dal tempo maltrattate; sole traccie di una famosa civiltà trascorsa, immagine eloquente della vanità delle grandezze terrene.

Seguitando a rimontare il Nilo giunsero ad Assuàn dove incontrasi la prima cateratta e dove da poco gli Anglo-Egiziani hanno compita un’opera veramente gigantesca. Hanno cioè costruita attraverso il fiume una diga colossale, spessa alla base 24 metri e alla sommità 7, provveduta di 120 porte di ferro. Il bacino delle acque si stende per 250 chilometri e contiene da un miliardo e 180 milioni di metri cubi d’acqua. La profondità dell’acqua nel bacino è di 28 metri con un’eccedenza sul livello ordinario del fiume di 14 metri. Quest’opera che costò una spesa favolosa fu incominciata nel 1892 e finita nel 1899 impiegandovi in maggior parte operai italiani. Con questo mezzo l’Egitto non avrà più a soffrire gli effetti disastrosi della magra del Nilo, che suol ripetersi quasi costantemente ogni dieci anni; aprendosi le porte della diga si mandan le acque ad irrigare le terre circostanti. Forse anche per questo, come per essere luogo salubre, Assuàn è diventata una città alla europea, con bei palazzi, sontuosi alberghi ritrovo nei mesi d’inverno di molti ricchi egiziani e stranieri.

Ripigliando la nostra narrazione, il Massaia sempre seguitando il suo viaggio, dopo una breve sosta ad un villaggio cattolico dove si fermò a celebrare la Santa Messa, in altri tre giorni giunse a Korosko, piccolo centro di commercio per le caro- /63/ vane che vanno e vengono da Berber e per le barche che giungono dal Cairo e da Dongola. A questo punto cessava il contratto col conduttore della barca e a questo punto ancora occorre scegliere tra due vie per chi voglia come il nostro apostolo recarsi nel Sudan: una che prendendo pel Nilo riesce lunghissima e anche fastidiosissima; l’altra che pel deserto mena direttamente a Berber, e da Berber a Kartùm dove intendeva recarsi il nostro missionario. Portatosi dunque, come colà è d’uso, dal comandante, stipulò il contratto del viaggio, tre persone, tre cammelli, due pel trasporto dei viaggiatori e uno pel trasporto di un po’ di provvisione, cioè due casse piene di oggetti suoi particolari, due ceste pei viveri, alcune otri d’acqua e le tende e le pelli necessarie per ripararsi di giorno dal sole e riposarvi sopra la notte. Saliti dunque in groppa al paziente animale si prese il cammino, ma a un certo punto uno dei cammelli, che è che non è, si pone a giacere nè vuol più saperne di tirar avanti. Il poveretto non avendo inteso bene il segno del cammelliere, che prima della partenza l’aveva condotto ad abbeverare, non aveva fatto sufficiente provvista di acqua, che, come si sa, esso conserva in una specie di borsa, da cui secondo il bisogno attinge per refrigerarsi, facendo d’averne fino a un’altra oasi dove potrà farne un’altra provvista. Meraviglioso, o meglio, provvidenziale istinto di quella bestia!

Da Korosko proseguendo si stende a perdita d’occhio un immenso deserto di arida sabbia, non rallegrato che raramente da qualche sterile arbusto e anche più raramente da qualche meschina oasi.

È questo il grande deserto della Nubia, che, /64/ quasi una continuazione di quel della Libia che si spazia di là della sinistra del Nilo, stendesi alla destra di questo fiume fino alle sponde del Mar Rosso. La Nubia confina a settentrione con l’Egitto, a levante col Mar Rosso, a mezzodì con l’Abissinia, a ponente col Sudan o Nigrizia orientale. Appartenne al Kedivè d’Egitto fino al 1881 in cui il sudanese Mohammèd-Ahmèd proclamatosi Mahdì o profeta e fattosi capo di una squadra di ribelli sottomise questa regione e gran parte del Sudan fondando il regno dei Mahdisti o Dervisci e stabilendo la sua sede prima ad El Obeid, città principale del Kordofàn, e poscia ad Ondurmàn, da lui stesso edificata.

Continuando le sue conquiste, questo avventuriere nel 1885 si impadroniva di Kàssala e nel 1886 di Kartùm, la quale metteva a sacco, parte uccidendo, e parte facendo schiavi gli abitanti. In quella disperata lotta vi perdeva la vita anche il governatore del Sudan, Gordon pascià. La posizione di Kartùm e la città di Ondurmàn che le sorge di fronte venivan riprese dalle truppe angloegiziane il 2 settembre 1898 in cui queste infliggevano ai Dervisci nella pianura di Kerreri una terribile rotta facendone restare sul campo ben 15 mila.

La Nubia unitamente all’Egitto è ora sotto la protezione dell’Inghilterra da cui pure dipende il Sudan orientale, mentre l’occidentale e il centrale dipendono dalla Francia.

Ripigliando il filo del nostro racconto, per quelle infuocate lande si viaggia d’ordinario di notte, perchè più fresco, e di giorno invece si posa sotto le tende per evitare i raggi cocenti del sole, spesse /65/ volte micidiali. Eran tre giorni che trottavano, nè nulla fin qui era loro occorso di spiacevole, salvo quella tristezza che ordinariamente incute quel profondo silenzio in cui pare morta la natura, quando verso sera ecco apparire da tramontana densi nuvoloni; ma pioggia non poteva essere, perchè nei deserti non piove; tuttavia non erano segni rassicuranti: che indicavano? I cammellieri, più esperti, tosto argomentarono avvicinarsi l’hubub, un uragano di sabbia, non meno anzi assai più terribile di quelli d’acqua. Presto presto smontano dai cammelli, mettono a terra i carichi e, collocate a certa distanza le due casse, avvertono il nostro missionario di coprirsi ben bene colle pelli e mettersi al riparo fra di esse. S’erano appena prese queste precauzioni, quando il temuto temporale giunge; è un vento gagliardo che involge nella sua rapina non una, più colonne immense di sabbia che rammulina vorticosamente per l’atmosfera, quindi spaglia variamente a terra, e in tal copia che in pochi momenti il nostro missionario se la sente gravare sulle spalle, se la vede crescere tra i piedi, e di sopra e di sotto venendo, par debba soffocarlo. Ma finalmente vien rallentando, onde ha agio di scuotersela a poco a poco di dosso, finchè, cessato ai suoi orecchi quel rammulinìo, quel fischio, quello stordimento, può sviluppare la faccia dalle pelli e arrischiarsi a mirare la scena. Spavento! la sabbia aveva quasi sepolte le casse ed ogni cosa. Dovette reputare a miracolo se non era rimasto vittima, se non era accaduto a lui ciò che qualche tempo prima era accaduto a trenta soldati egiziani che da un simile uragano erano rimasti soffocati. E veramente nel tragitto avevano incontrato scheletri di uomini /66/ e d’animali, vittime certo di quegli uragani di sabbia.

Il sole tramontava e preso un po’ di cibo si risalì sui cammelli; e via fino a giorno. Così era intenzione; ma a mezzanotte, sentendosi stracchi morti, fecero un po’ di sosta e si rifocillarono con un po’ di cacio, di datteri e di biscotto, e riposarono. La mattina innanzi l’alba, sorseggiato un po’ di caffè, si riprese il viaggio smontando verso sera in una oasi presso una capanna di beduini (alcuni pali su cui era stesa una pelle di vacca). Riposati sè stessi e gli animali a certa ora di notte si rimisero in via verso Berber, non brutta e importante città del Sudan che sorge sulla sponda orientale del Nilo e che da parecchi anni possiede una missione cattolica fondata da un altro grande apostolo dell’Africa, mons. Daniele Comboni. Non lungi da essa si osservano ancora le rovine dell’antica famosa Meroe. Qui finiva il contratto dei cammellieri, che perciò il Nostro soddisfece regalandoli, di più, di una mancia che in verità se l’eran meritata. Il figlio di uno di essi, un bravo ragazzo in sui quindici anni, non sapeva staccarsi dal nostro missionario, avrebbe voluto accompagnarlo, tanto se gli era affezionato! È l’istinto delle anime non ancor guaste dal vizio, l’affezione, la simpatia verso il ministro di Dio; veramente non era all’esterno che un secolare il signor Bartorelli, ma certe cose senza vederle si sentono, e come potentemente!

A Berber gli accadde un incidente che non va passato sotto silenzio; il modir o governatore, un apostata copto, avendolo fatto chiamare gli rovesciò addosso un mondo d’impertinenze; ma il Massaia o signor Bartorelli, mostratogli il firmano del vi- /67/ cerè, lo fece tosto cagliare e lo ridusse un mite agnellino, sicché dopo quella grande intemerata la dimane il modir tutto raumiliato fu a trovarlo e a pregarlo che gradisse pranzare in casa sua.

Ripartiti per la via di terra in sette giorni arrivarono a Scendy, paese diviso pel mezzo dal Nilo, talmente qui ripieno di coccodrilli ch’è uno spavento a vedere. Somma cautela è da adoperarsi nell’accostarsi al fiume, perchè, insidiosi quali sono, ti possono impensatamente sorprendere. Nel 1880 un missionario del Comboni essendo sceso al fiume per rinfrescarsi non ebbe appena messo un piede nell’acqua, che fu addentato da un coccodrillo e divorato. A Scendy il Massaia trovò con suo gran piacere il giovane Mardrùs che nel 1846 avevagli prestato un buon servizio; lo riconobbe tosto, ma da lui, per essere vestito all’araba ed aver la barba accorciata, non fu riconosciuto.

Da Scendy a Kartùm chi piglia, siccome meno insalubre, la via di terra, trova lungo il corso del Nilo qualche raro villaggio e frequenti stagni popolati da enormi coccodrilli, che all’avvicinarsi del viaggiatore, lasciate le sponde, o gli isolotti ove stanno pigramente al sole, si tuffano nelle acque per ricomparire magari e scomparire ancora. E questa fu appunto la via che tenne il nostro missionario, impiegandovi sette giorni, sette giorni monotoni e noiosi, ad arrivare a Kartùm, ora grande e importante città del Sudan, ma pericolosa pei miasmi prodotti dalle acque del Nilo Bianco e dell’Azzurro fra cui è posta.

Il Nilo Azzurro nasce su a ponente del lago Tsana ed è anche conosciuto col nome di Abbai, finchè non è uscito dai confini dell’Abissinia, e il /68/ Nilo Bianco scaturisce dal lago equatoriale Victoria o meglio dai fiumi che formano questo lago, tocca il lago Alberto e seguitando diritto nel suo corso maestoso, man mano accresciuto dalle acque di altri fiumi minori, s’incontra col Nilo Azzurro a Kartùm, donde continuando traversa pel lungo tutto l’Egitto, formando poco oltre il Cairo il famoso delta, un meandro di fiumi, i quali poi, riunitisi in due, vanno per due foci, l’una presso Rosetta, l’altro presso Damietta, a scaricarsi nel Mediterraneo.

Rifacendoci al nostro racconto, a Kartùm furono ad accogliere il Massaia il padre Pedemonte, gesuita, e il caro Mardrùs, e con loro si andò alla casa della Missione, dove il Nostro prese ospizio. Il giorno dopo fu a far visita al governatore; il quale, com’ebbe viste le lettere commendatizie, non vi fu complimento che non gli facesse, con meraviglia di quanti erano presenti. Un gran personaggio deve essere costui se così è trattato dal governatore, sussurravasi da tutti, ma neppur questi sapeva il netto. Nè mancava chi a voce bassa dicevalo un inviato segreto dell’Inghilterra, o della Francia, o dell’Austria, o della Sublime Porta; insomma le più strane e onorifiche supposizioni. Al padre Pedemonte però quella sera stessa il signor G. Bartorelli manifestò ch’egli era monsignor Massaia e quindi lo pregava gli desse l’occorrente per poter celebrare la Messa nella sua camera senza essere veduto da persona, perchè non voleva essere scoperto. La dimane fioccarono le visite al signor Bartorelli, e visite ragguardevoli e in gran gala, primo il governatore stesso, poi le altre autorità e i più cospicui fra i greci, gli arabi e i mussulmani.

/69/ Nè basta; il governatore volle dare un pranzo in onore del signor Bartorelli invitando a festeggiarlo gli ambasciatori, i ministri ed altri principali della città. A tavola il Nostro fece conoscenza con un Bey, il quale si mostrava molto istruito ed anche ammiratore della religione cattolica, che però non si sentiva di abbracciare, per l’educazione lubrica, confessava egli stesso, che aveva ricevuta nell’islamismo, intorno al quale gli svelò misteri d’iniquità, che fanno fremere. Tra i commensali vi era anche il modir di Scendy, il quale non volendo parer da meno del governatore di Kartùm anch’egli volle imbandire un pranzo al signor Bartorelli collo stesso sfoggio di portate e di invitati.

Abbiamo accennato di sopra alla casa della missione tenuta dai Gesuiti; or è da sapere che veramente questi stavano per cederla a una missione tedesca, condotta dal padre Knobleker; la quale però per essersi un po’ imprudentemente lasciata rimorchiare dal governo austriaco e quindi avendo suscitate le gelosie dei cristiani delle altre nazionalità (che ve n’erano di diverse), finì con ispegnersi senza frutto.

Fu proposto al Massaia di aggregare la missione centrale, di cui Kartùm è la sede principale, alla missione galla, ma il Nostro dopo una visita a quei luoghi, non credette conveniente di accettare. L’accettò invece l’istituto Mazza di Verona, ma per il clima micidiale vi perdette presto tutti gli operai, rimanendovi i soli don Beltrame e Comboni; il quale ultimo fu poi nominato egli stesso vicario apostolico. Da parecchi anni vi si sono stabiliti i figli del S. Cuore della Congregazione di Verona, che hanno fondato varie stazioni e in quella prin- /70/ cipale di Kartùm tengono una scuola molto frequentata e vi hanno la cura spirituale di 450 cattolici, di cui 200 italiani.

Il vicariato dell’Africa centrale nel maggio dell’anno 1914 veniva diviso in due missioni, la prima col nome di Vicariato di Kartùm, la seconda con quello di Prefettura di Bar el Gazal. Al vicariato di Kartùm, retto, come prima, da mons. Francesco Geyer, fu lasciato tutto il territorio a nord del Bar el Arab, Bar el Gebel, Bar el Gazal e del Sobbàt. Alla nuova Prefettura, cui fu preposto mons. Antonio Stoppani, nipote dell’illustre geologo, fu assegnato tutto il territorio a sud del Bar el Gazal, il Mongalla, parte dei distretti di Upper Nile che trovasi al sud del Bar el Gazal e Bar el Gebel, tutta la regione posta tra i confini meridionali del Sudan e il Nilo Vittoria, la sponda settentrionale del lago Alberto Nyanza, i confini anglo-belgici ed anglofrancesi fino al Bar el Arab. Entrambe le missioni sono amministrate dai Figli del S. Cuore, il vicariato apostolico di Kartùm dalla Provincia tedesca, che ha la sua casa in Bressanone; la Prefettura del Bar el Gazal dalla Provincia italiana che ha la sua casa in Verona, dove ha anche sede la casa generalizia. Dal 1898 i Figli del S. Cuore fanno da sè ed hanno un superiore generale che è il reverendissimo padre Federico Vianello.

Tornando al nostro racconto, il signor Bartorelli sentendo come fosse prossimo l’arrivo della missione tedesca pensò bene di lasciare Kartùm, tanto più che di quel clima aveva già provati gli effetti perniciosi con parecchi giorni di febbre. Saputasi questa sua decisione, il buon Fatalla Mardrùs, che tanto gli s’era affezionato, volle preparare egli /71/ stesso le cose occorrenti pel viaggio, pregandolo poi per favore volesse far recapitare una sua lettera al suo grande amico, monsignor Massaia nell’Abissinia. Ma quale fu la sua meraviglia allorché, portatosi di buon mattino nella camera del signor Bartorelli, lo trovò che stava celebrando la Messa! Quale rivelazione! Non appena finito il S. Sacrifizio, gli si gettò ai piedi, abbracciandolo affettuosamente e domandandogli perdono di non averlo in due mesi di convivenza riconosciuto.

Agli ultimi di novembre del 1851 pertanto il Massaia, lasciato Kartùm, s’imbarcò sul fiume Azzurro, facendo una breve sosta a Saba, città distrutta, dove ebbe agio di visitare quelle vetuste rovine di case, di sepolcri... Di qui proseguì per Sennàar, città di dieci mila abitanti, capitale della provincia di tal nome, luogo assai caldo ed anche malsano. Da Sennàar a giungere a Rossères impiegarono dieci giorni, dovendo in questo tratto navigare solo di giorno e con molte cautele per gli scogli qua e colà sparsi e per i numerosi coccodrilli e ippopotami, che infestano quelle acque.

A Rossères, grazioso villaggio sparso su pittoresche colline, rivestite di alte palme, essendovi una cateratta di difficile passaggio, conveniva lasciare la via del fiume e prendere quella di terra. Noleggiati pertanto i cammelli, in compagnia di alcuni mercanti preser la via di Famaqua passando per boschi del prezioso ebano, finchè giunsero in un villaggio abbandonato, dove si accamparono per passare la notte. Ma, fattisi a quelle capanne, le trovarono ripiene di orribili serpenti e di schifosi insetti, sicché se n’andarono in tutta fretta e, trovato un po’ di erbato, quivi, stese le loro pelli, /72/ pensarono di poter prendere un po’ di riposo. E veramente stanco com’era il nostro missionario non tardò ad attaccar sonno, ma ecco dopo qualche ora svegliarsi e sentirsi pungere da tutte le parti. Che era? Acceso un fiammifero, vide un esercito di grosse formiche bianche avergli crivellata la pelle entro cui si era avviluppato e quindi, non avendo più trovato che mangiare, essersi avventate contro il suo corpo.

La mattina si riprese il cammino, e per un sentiero che serpeggiava per aride colline, scendeva in pianure e valli profonde, sparse di rovi e spine, costeggiava il greto ciottoloso di torrenti impetuosi, si giunse a Famaqua, ameno villaggio, sparso sopra un bel poggio, che specchiasi nelle acque del Nilo Azzurro, che qui ricompare. Da Famaqua si tirò avanti per Kiri, capoluogo della provincia del Fazogl e residenza del governatore, che accolse il Nostro molto onorevolmente. Quivi da un vecchio mussulmano che parlava l’italiano tolse informazioni sulla via per entrare nella provincia dei Galla, e accettando il suo consiglio, risolse di prendere per Gassàn. Accompagnatosi pertanto con una squadra di soldati e di altre persone che portavansi alle miniere di Gassàn mosse da Kiri, incontrando lungo il percorso carcami d’animali, ossa e scheletri umani; traccie delle lotte seguite in quei luoghi fra le truppe egiziane e i Tabî, popoli, che dalle montagne fra le quali abitano, scendevano nella pianura a combattere contro i loro invasori. Osservarono altresì torme prodigiose di elefanti che pascolavano tranquillamente; senza dar loro la caccia, i soldati spararono parecchie salve di colpi per tenerseli lontani e più per intimorire i terribili Tabî /73/ che si decidessero di assalirli. Del resto guai se quei valorosi montanari volessero scendere! ne farebbero certo macello; tanto questa sorta di soldati egiziani sono vigliacchi, snervati, senz’ombra di disciplina e di coraggio militare; appunto perchè la massima parte corrotti dal vizio fino al midollo. E al nostro missionario ne diedero un disgustoso saggio colle orgie sfrenate a cui si abbandonarono durante le tappe, specialmente di notte.

Tornando al viaggio, al mattino del terzo giorno giunsero a Gassàn, città che dal pendìo meridionale di una collina si estende fino al fiume Tomat, mentre di dietro, in distanza, le s’accerchiano a modo d’anfiteatro alte montagne. Quivi presso si trovano miniere d’oro che avrebbero dovuto fruttare al governo egiziano immensi tesori, se quei che presiedevano ai lavori non avessero preferito, anziché mandarli al governo, tenerseli per se; sicché, dove prima s’impiegavano trecento soldati in queste miniere, dopo non se ne lasciò più nessuno.

Conosciutosi l’arrivo del nostro sig. Bartorelli, fu una gara del governatore e di tutti gli ufficiali e primi personaggi del luogo per complimentarlo e averlo ospite in casa loro credendosi che fosse un inviato del governo con qualche delicato incarico.

Ma venendo allo scopo del suo viaggio, vedendo, da informazioni prese, non essergli possibile, per ragioni di rappresaglie, passare di qui fra i Galla, il Nostro stimò bene di ritornare a Rossères e di là per Matamma, paese indipendente, aprirsi il varco a quel benedetto paese. Tornò dunque colla stessa carovana di soldati o diavoli che si voglian dire (che pei loro costumi non si meritavan altro nome) a /74/ Rossères, donde con due cammelli e due guide prese per Gadàref, dove giunse in otto giorni di viaggio. Quivi andò a chiedere ospitalità ad una famiglia di un ricco copto, certo Malim, che aveva sentito celebrare come uomo onestissimo. Entrato, fu ricevuto da un amico di famiglia che si manifestò essere Abba Daùd, l’abate del monastero di S. Antonio, e che per di più gli disse di essere inviato da Salama per impedire l’entrata in Abissinia ad un vescovo cattolico, all’abuna Messias! Figurarsi; era proprio caduto nelle mani del suo persecutore! Contuttociò, non essendo riconosciuto, col suo sangue freddo riuscì a tenersi nascosto pei tre giorni che dimorò in quella casa, colmato veramente d’ogni sorta di gentilezze.

Da Gadàref continuò fino a Doka, donde trasformato in mercante arabo avanzò verso Matamma, luogo di gran mercato. Quivi ebbe una gran consolazione dall’incontro di due Europei, suoi amici, il barone De Marzac e il signor Vissier. Da Matamma, noleggiati due asini e una guida, si diresse verso Luka in compagnia di alcuni mercanti mussulmani, uomini così bestiali e che gli procurarono nei tre giorni, quanto durò quel viaggio, tanto fastidio, tanta nausea coi loro costumi che avrebbe preferito, così letteralmente si esprime egli stesso, di stare per tutto quel tempo in mezzo al fetore di una latrina. Ma, come Dio volle, giunse a Luka, dove prese a mettere in mostra la sua mercanzia, tabacco, pepe, pietre focaie, zolfo, aghi, forbici, temperini e altre bazzecole. Ma, naturalmente, avendo poco garbo a vendere e lasciandosi derubare sotto gli occhi dalla stessa sua guida, di più cedendo la roba ad un prezzo troppo più basso del comune, /75/ e ancora male parlando la lingua del paese finì col mettere gli altri mercanti in sospetto sulla condizione sua, sicché questi, presolo alle strette, volevano confessasse chi veramente era e per meglio chiarirsi gli imposero di recitare la formola di fede mussulmana; al che il nostro mercante essendosi naturalmente rifiutato, allora quelli presero a gridare indiavolati: dalli al Frangi (europeo o cristiano in genere), al cristiano, alla spia! Allora egli gridò: Kassà imùt, per la morte di Kassà (il futuro imperatore Teodoro, già fin d’allora molto temuto); la qual formola valeva un professarsi suo suddito ed essendo in quel momento capitati colà due soldati del medesimo, questi lo sottrassero dai colpi che già fioccavangli addosso.

Visto che neppur da Luka era a sperare un passaggio fra i Galla, come prima potè, ritornò con una carovana a Matamma, d’onde in compagnia d’un buon mussulmano (cosa rara) portossi a Doka e di qui sulla fine di maggio del 1852 con una guida, un giovane abissino di nome Giuseppe, mandatogli dal padre Pedemonte, si avanzò presso Gudabiè. Presa qui una seconda guida, mosse verso Armaciò, attraversando una vastissima pianura che pareva il regno delle bestie feroci; leoni, serpenti, elefanti vi passeggiavano indisturbati. Verso sera sostarono presso un torrente e, mangiata un po’ di cena, si posero a dormire, restando uno a mantener vivo il fuoco per allontanare le fiere. A certa ora della mattina ecco, mentre il nostro missionario stava per addormentarsi, risonare un cupo rombo di tuono, rabbuiarsi il cielo e tosto un rovescio di pioggia scaricarsi tutto intorno. Essendo il sicomoro (specie di fico) sotto cui eran ricoverati carico di /76/ frutti (s’era in maggio) alla violenza dell’acqua e del vento che imperversava, i frutti presero a cadere sopra di loro in tal quantità che pareva addirittura una gragnola; fortuna ch’eran maturi; se no li avrebbero conciati bene! Dopo altri incontri di bestie feroci e altre traversie di viaggio, tra cui la caduta del povero asino in un precipizio (che per fortuna non si ruppe le gambe), arrivarono finalmente ad un villaggio dove furono cortesemente accolti e rifocillati dal messeleniè (qualcosa come sindaco).

Toccati altri villaggi e ricevute altre cortesi accoglienze dai messeleniè del luogo, principalmente dal Degiace Tascio, giunsero in parecchie tappe a un villaggio vicino a Gondar, dove per non destar sospetti s’introdussero di notte nella casa della Missione lazzarista colla più grande allegrezza. Da Gondar, pur di notte, mossero verso Amba Mariàm e quindi per Ifàgh; ma ecco a mezza strada da questa città farsi innanzi una guardia che intima loro di seguirlo in Enferas dal nagaddras (capo delle dogane), il quale li accoglie con cipiglio fiero e, fatti legare i due servi, trattiene il Massaia in custodia in una camera di un castello diroccato, già villeggiatura imperiale e allora ricovero di scimie! La fine fu che questi dovette sborsare a quel vampiro, che per non altro li aveva fermati, la somma di 40 talleri.

Proseguì quindi per Ifàgh, dove essendo appunto allora (s’era di giugno) principiata la stagione delle pioggie, che di solito durano tre mesi, dovette quivi fermarsi tutto questo tempo. Durante questi lunghi giorni ebbe la gradita visita del padre Giusto e fece conoscenza con un prete abissino, dal /77/ quale intese molte cose intorno all’ignoranza veramente supina di quel clero, e dal quale ebbe la curiosa proposta di rendersi suo penitente. Egli, dicevagli il famoso prete, sarebbesi contentato di una tenue mercede, e poi del resto l’avrebbe lasciato tranquillo nè gli avrebbe vietato di commettere per l’avvenire dei peccati. — Che sorta di preti! che spirito di santità! che zelo delle anime! Davvero poveri preti eretici! e poveri fedeli che da tali preti sono governati!

Ifàgh sorgeva su un altipiano molto fertile ed era luogo di gran mercato di bestiame, di cereali, di burro, e anche di carne umana, di poveri schiavi che venivano stipati a torme in luride capanne. Considerando come in questa città, per esser tanto frequentata da forestieri l’avrebber forse potuto riconoscere deliberò di portarsi fra i Zellàn, distanti di lì un tre ore di cammino e andò a prendere ospitalità presso un ricco pastore che possedeva ben due mila bestie bovine, non contando le pecore e le capre. Erano in tutto tra padroni e servi un sessanta persone, divise in parecchie famiglie, che si spargevano il giorno, ciascuna colla propria mandria, nei pascoli, riunendosi poi alla sera intorno al capo di casa, al modo patriarcale.

Avevano qualche notizia dei principali fatti dell’antico Testamento, ma poi nel resto potevan reputarsi pagani, ma per pagani certo dei meno guasti, poichè tra loro era sconosciuta la poligamia ed anche era avuta in pregio la morigeratezza, non permettendosi, ad esempio, ai giovani di portarsi al vicino mercato di Ifàgh, perchè in quella sentina di vizi non avessero a corrompere il buon costume.