Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo VII.

Fatiche e consolazioni. — Il buon Melàk e il suo degno amico Maquonèn. — Dolorosa separazione. — Il battesimo di Melàk. — I Kiès e i defteri. — La Messa e la comunione presso gli Abissini. — Errori e superstizioni abissine. — Due nuovi discepoli. — Tragitto dell’Abbai. — A Mota. — Lebbrosi ad un taskàr. — Una galleria di nuovo genere. — Da Workie-Jasu. — La gran festa del Maskàl. — Il dottor Bartorelli. — Una strana malattia.

La sua comparsa fra questa gente fu davvero provvidenziale e senza prevederlo era venuto a far davvero il missionario. Avendo egli fatte ai padroni certe osservazioni intorno alle cautele da usarsi in famiglia riguardo ai costumi, questi le misero in pratica; ond’egli prese animo a parlar loro di religione, e con tal frutto che in breve li ebbe disposti favorevolmente verso di essa, e un di loro, il figlio più giovane, Melàk, segnatamente, invogliatolo a farsi cristiano. Questo caro giovanetto anzi messosi a studiar di buona voglia il Pater, l’Ave, il Credo li andava poi insegnando a’ suoi stessi genitori e /79/ agli altri della sua famiglia; e fu anche autore della conversione di un suo fratello.

Dopo quindici giorni di dimora fra questi buoni pastori venne il figlio di Ato Maquonèn, Messeleniè di Ifàgh, anch’egli Maquonèn di nome (Ato vale signore) per ricondurre il nostro missionario ad Ifàgh. Ma quella famiglia non voleva saperne di lasciarlo partire, sicché gli convenne di fermarsi ancora altri giorni. Finalmente si decise la partenza. Il buon Melàk, come confidente del figlio di Maquonèn, gli raccontò tante belle cose apprese dalla bocca del missionario; per il che Maquonèn fattosi al nostro vescovo, e perchè, gli disse quasi lacrimando, perchè a Melàk e alla sua famiglia hai insegnate tante belle cose e a me nulla, proprio nulla? Ma, figlio mio, gli rispose il nostro missionario, tanto per trovare una scusa, questi non hanno il Kiès (sacerdote) che li istruisca, mentre voi l’avete. Sì, è vero che abbiamo il Kiès, rispose il piccolo Maquonèn, ma hai da sapere che se io sono un demonio lo debbo al Kiès. — Che bell’elogio per un prete eretico! Tanto il buon giovanetto era stato impressionato dalle verità religiose che aveva udito!

Intanto giunta la vigilia della partenza, tutti chiesero di confessarsi dal missionario, e benché vera confessione non potesse essere, ma solo aprimento di coscienza, tuttavia pareva loro di provarne grande consolazione.

Come si vede anche da questo fatto che la confessione, anziché essere una tirannia delle coscienze, come da tanti si dice, è anzi un bisogno del cuore, una soddisfazione dello spirito! — Al pensiero di dover abbandonare quelle anime tanto siti- /80/ bonde di fede il Massaia non poteva frenare le lacrime. Il che vedendo Melàk: e che è questo piangere, signor Bartorelli? forse vi abbiamo noi offeso? Oh no, figliuol mio, rispose il missionario; non piango di dolore, ma sì di consolazione, perchè vedo il paradiso che il Signore vi prepara e dove ci troveremo un giorno tutti insieme, se vi manterrete fedeli alle promesse. Allora fu un pianto generale. E anche noi pensando a questo episodio non possiamo non sentirci commossi.

Era la vigilia della partenza, come abbiamo detto, e gli sapeva male di lasciare senza battesimo il buon Melàk che ne lo aveva tanto insistentemente pregato; si risolse pertanto di amministrarglielo, come fece, ordinandogli però di tenere ad ognuno celata la cosa per non procurarsi molestie dai preti eretici, e dandogli le necessarie istruzioni per amministrarlo a sua volta a quei di sua casa che vedesse in pericolo di morte. Spuntò finalmente l’aurora del 6 agosto; dato ancora un segno di affezione al missionario coll’imbandire una sontuosa colazione, si rinnovarono le preghiere, i pianti da una parte, le promesse e le assicurazioni dall’altra, e si separarono,

Ritornato ad Ifàgh mons. Massaia volle assistere qualche giorno dopo alla festa dell’Assunta, che da loro si suol precedere da un digiuno di quindici giorni. Il Kiès celebrava, assistevano il Nefica Kiès (sotto prete o prete assistente) e tre diaconi. La messa si poteva sentir tutta, poichè secondo il rito abissino non ha parte segreta e anche quando non è solenne è letta in modo che par cantata, e da quei preti tanto sapienti son lette o cantate anche le rubriche. Fuori del Sancta Sanctorum assistevano i /81/ Deftèri cantando a modo loro e storpiando passi della Scrittura, perchè preti e deftèri sono tutti dotti a un modo. Questi son tutti secolari e nelle grandi solennità nelle chiese e santuarii principali se ne contano fino a parecchie centinaia, onde non è raro il caso che in certi villaggi-santuarii un terzo almeno della popolazione sia di persone addette alla chiesa. Verso il fine della messa venne distribuita la comunione ai fanciulli, ai monaci e alle monache (per monaco e monaca s’intende presso di loro chiunque non viva attualmente in istato coniugale). Agli altri la comunione non si dà. Cosa anche più curiosa: i preti e i monaci di grande riputazione non celebrano nè si comunicano mai. — Che sorta di religione è mai quella! — Finita la messa, si distribuirono i pani (donde s’erano staccati alcuni pezzi per la comunione) agli assistenti.

Dopo la festa religiosa, intesa come va intesa, viene il banchetto, più o meno sontuoso secondo le famiglie; un bue, o una capra, e birra e idromele. E poichè qui ci cade il destro, facciamoci a registrare i principali errori e superstizioni degli Abissini in fatto di religione. Incominciando da Dio, essi non riconoscono in Lui uno spirito semplicissimo, ma prendendo pretesto dalle espressioni figurate della Scrittura credono che abbia veramente un corpo press’a poco come noi. Ammettono che Gesù Cristo sia uomo e Dio, ma, strana contraddizione, non riconoscono in Lui che una sola natura. La qual eresia poi variamente modificata dà luogo presso di loro a tre diverse sette, a quella dei Sost Ledet o Devra Libanos, a quella dei Karra, e a quella dei Kevat (o unzione). — Lo Spirito Santo procede solo dal Padre; errore ereditato dai /82/ Greci. — Non è Dio che infonde l’anima nei bambini, si i genitori stessi. — Il Purgatorio non esiste, ma le anime separate dal corpo per la morte se ne vanno errando tra l’inferno ed il Paradiso in attesa del giudizio finale, in cui sarà fissata la loro sorte eterna. Ciò però non vieta che si diano i taskar o pranzi funebri, in cui i loro sacerdoti pretendono di liberare l’anima dei defunti dalle pene eterne dell’inferno. E sopra le anime condannate all’inferno danno all’Arcangelo S. Michele un potere sovrano sì da liberare a sua posta quelle che in vita furono devote di lui o per le quali i loro parenti fanno implorare dai sacerdoti la sua intercessione. — La Chiesa romana aver avuta la primazia su tutte le altre Chiese fino a Dioscoro, ma, questi condannato da Leone I, essere passata a quella di Alessandria, ossia nei successori di Dioscoro. — Il fuoco benedetto nel sabato santo doversi avere in venerazione e doversi riguardare quasi come un sacramento. Il sabato doversi santificare non altrimenti che la domenica. — Potersi dare la comunione sotto ambe le specie; non potersi celebrare la Messa da un prete solo; nè se non digiuni: cosa che, dicono essi; non osservano sempre i latini (confondono il dar la benedizione col SS. con la celebrazione della Messa). — Infine, non è lecito, dicono, prender tabacco. E questo per loro è cosa tanto grave che l’imperatore Ioannes, custode zelante della fede Karra, faceva tagliare il naso a quanti si fossero resi colpevoli di annusarlo: la pena del taglione!

Quanto ai Sacramenti le cose non corrono meglio. I bambini, prima d’esser battezzati, debbono aver raggiunto i maschi i 15 giorni, le fem- /83/ mine gli otto; ne vale che il neonato sia in pericolo di vita. Insieme col battesimo (della cui validità moltissimo è a dubitare) si amministra al neonato la cresima con olio non benedetto e la SS. Eucaristia toccandone le labbra con un dito tinto nel sangue consecrato nella Messa. La Messa nei conventi si celebra ogni giorno, nelle altre chiese solo la domenica, ma ogni mattina si fanno con un turibolo a sonagli grandi incensamenti per gli anditi delle loro chiese circolari. Nella Messa sono presentati dai fedeli tre pani in onore della SS. Trinità ed altri dodici in onore dei dodici apostoli; e tutti debbono essere religiosamente consumati dai sacerdoti e dai diaconi. Per essere ordinati diaconi basta che il vescovo tocchi loro la fronte colla croce e soffi sopra di loro; per essere consecrati sacerdoti basta dare un esame di lettura e tutto è fatto. — Dell’Estrema Unzione, essendo una cosa un po’ complicata nelle formole, credono bene di farne senza. — Quanto alla confessione non richiedono dal penitente il dolore, ne tanto meno il proponimento, ma per compenso gli impongono di terribili e lunghissime soddisfazioni, che si posson però riscattare con qualche offerta generosa, fatta, s’intende, al confessore, il quale, mirabile potere! assolve anche dai peccati futuri. Di istruzione religiosa non si parli; per loro basta l’osservanza di alcuni riti esterni e dei digiuni. E questi sono veramente molti: oltre la nostra quaresima hanno due altre quaresime, quella dell’Avvento e degli Apostoli, il digiuno dell’Assunta (15 giorni), il digiuno di Ninive (3 giorni), tutti i mercoledì e venerdì dell’anno, eccetto da Pasqua a Pentecoste; quindi oltre due terzi dell’anno consacrati al digiuno, ma /84/ digiuno un po’ al modo mussulmano, cioè fino al mezzogiorno e talora fino alla sera non si prende nulla, ma poi, ventre mio, fatti capanna: fino alla dimane mangia e bevi. Quanto al matrimonio questo lo contraggono talora i parenti ad insaputa dei figli e per la stipulazione del contratto si fanno grandi inviti da ambe le parti; la presenza del Kiès al banchetto vale per la benedizione nuziale. Riguardo al matrimonio però bisogna fare una distinzione: ammettono anch’essi un matrimonio indissolubile, celebrato con rito religioso (la comunione presa dai due coniugi n’è parte essenziale) e tanto rigorosamente ne considerano il vincolo che dopo la morte di uno dei coniugi, il superstite non può passare ad altre nozze. Questo per loro è come un matrimonio di perfezione; ma la massima parte si appiglia a una seconda forma di matrimonio che si risolve in vero concubinato; poichè si contrae con la condizione esplicita o tacita di scioglierlo, quando ciò garbi ad uno dei due. — Tornando al racconto, passata la festa dell’Assunta, in compagnia del servo Giuseppe, del portatore Tokkò e del piccolo Maquonèn il nostro apostolo si mosse da Ifàgh; e in tre giorni di cammino attraverso a pianure pantanose giunse sulla sera a Beklò Fellega, grosso villaggio situato su amena collina e appartenente alla madre di ras Aly, da cui gli venne subito inviata una copiosa cena.

Ripartiti innanzi l’alba, dopo una sosta forzata a causa della pioggia presso alcuni buoni pastori, il terzo giorno entrarono nel villaggio del monaco Abba Desta, che già conosciamo.

Essendo il nostro in abito diverso e colla barba accorciata non fu dal monaco riconosciuto; rice- /85/ vette però la stessa cortese accoglienza e con sua grande consolazione riuscì per mezzo del buon Maquonèn a convertire due nipoti del monaco che fino allora avevano menata una vita molto licenziosa. E tanto sinceramente eran convertiti che pregarono il loro zio permettesse di andarsene col signor Bartorelli; cosa che ottennero con infinito piacere loro e del nostro missionario. Aumentata così la comitiva, si partì verso Mota facendo nel percorso una fermata presso un amico dello stesso Abba Desta che li ricevette con tutta cordialità e preparò loro una buona cena.

E qui è il caso di dire alcunché della tavola abissina. I giovani usano mangiare in piedi, gli altri seduti per terra ad una tavola fatta di canne collegate insieme e sostenuta da due specie di cilindri, pure di canna, alti pochi palmi; sul piano della tavola poi non vedete altro che piatti di terra cotta e bicchieri di corno e un coltellaccio per tagliare la carne; cucchiai e forchette e coltelli non usano, potendo benissimo per tutto questo servire le mani. Le vivande poi sono carne cruda o abbrustolita sui carboni con grandi salse piccanti di peperoni e simili, e in luogo di vino (che in Abissinia il vino non si conosce) birra e idromele. Come si vede, non c’è gran lusso, ma in compenso mangiano o divorano con tanto maggior appetito. E vere strippate fenomenali, madornali s’hanno a chiamare i loro ciociò che consistono in questo. Dopo qualche lunga fatica, o dopo la raccolta si radunan in più nell’aperta campagna, in una capanna, e quivi, ammazzato uno o più buoi, così crudi, vi danno dentro finchè li abbiano consumati.

Traversato nella giornata un ponte che faceva /86/ venire i brividi a solo vederlo (due travi barcollanti!), arrivarono dopo alcune ore di cammino a Mota, dove sorgeva uno dei principali santuarii del Goggiàm, che contava al suo servizio nientemeno che trecento persone. Da Mota prendendo per Cranio, altro luogo di Santuario, capitarono lungo la strada a un villaggio, dove si stava celebrando un taskàr, uno di quei pranzi mortuari mezzo rituali che sogliono essere più o meno lauti e numerosi di convitati secondo la condizione del defunto. In questa occasione occorse al nostro Massaia di vedere quale padronanza si piglino i lebbrosi nell’Abissinia; che alcuni di loro essendo entrati anch’essi al banchetto (che l’uso porta di ammetterli senza essere invitati) nè essendo contenti della parte delle vivande loro assegnata si misero a palpare colle immonde loro mani le altre porzioni dei convitati, sicché questi, non volendo più per ripugnanza mettervi bocca, lasciarono ogni cosa ai lebbrosi. Nè però venne loro mossa querela; cosa da non stupire, perchè ai lebbrosi tutto è lecito.

Qui vennero ad incontrare il nostro missionario i suoi due primi neofiti, Berrù e Morka e in loro compagnia mosse verso Lieùs camminando due giorni per una pianura pantanosa dove l’acqua tal fiata giungeva loro al ginocchio. Movendo da Lieùs trovarono una bella cascata d’acqua di circa quaranta metri, che avendo formato un profondo incavo nella roccia aveva aperta una specie di galleria tra l’acqua cadente e la roccia soprastante, sicché poterono passare per quella galleria di nuovo genere. Partiti alle 10 antimeridiane, la sera giunsero a Naiera, piccolo villaggio dove passarono la notte. Quivi venne a trovar il nostro il padre Cesare /87/ che risiedeva a una giornata di cammino, a Baso Iebuna, e che da lui per un messo era stato avvertito del suo arrivo. Finalmente la mattina seguente, stracchi morti dalla fatica del viaggio fatto a piedi nudi e con un misero viatico, pervennero a Zemiè dove trovarono un compenso ai patimenti e agli strapazzi sofferti. Worchie-Iasu, Fitorari o vassallo di ras Aly, assegnò loro una capanna da abitare e per la cena mandò loro un bue, alcune capre, cacio, trattandoli insomma da generoso Abissino, il quale certo per ospitalità va innanzi a molti altri popoli.

Il nostro missionario era giunto a Zemiè il 23 settembre (o 13 secondo il loro calendario), vigilia della festa del gran Maskàl o Esaltazione della S. Croce, giorno in cui comincia l’anno abissino e però di molta solennità. In tal giorno sudditi e principi, tutti sono in gran festa; si accendono grandi falò per le vie e dinnanzi alle case, canti in lingua gheez e nei varii dialetti dei luoghi risuonano in tutte le parti. Il re convita i magnati della sua corte, i capi d’esercito i loro soldati; è una profusione di carne, di birra e di idromele. Nel mezzo della piazza del paese si pianta una lunga antenna, in cima alla quale si appicca un mazzo di fiori e dopo questo altri vengono apposti dalle popolazioni dei paesi vicini che sopravvengono al capoluogo.

Intanto i preti in gran parata e a croce alzata escono di chiesa e dopo aver letto un tratto di un libro (che tra parentesi nulla capiscono) girano attorno all’antenna incensando quei fiori col turibolo, dando poi luogo ai principali personaggi che anch’essi fanno parecchie volte il giro dell’albero cantando certe strofe; il che fatto, tutti gli intervenuti /88/ colle loro faci danno fuoco all’albero menando una gran baldoria. A notte avanzata poi viene il meglio; si mangia, si straccia, si divora carne cotta e cruda, si tracanna birra e idromele, finchè si sono empiuti a gola. Così si solennizzano le feste in Abissinia.

Ma tornando al nostro mons. Massaia, s’era egli qui portato, perchè Zemiè distava, per modo di dire, solo due passi dalla tribù dei Galla, da cui la separa l’Abbai. Questo fiume uscito da un lembo meridionale del lago Tsana circoscrive per quasi due terzi, due terzi di un circolo, il Goggiàm, ricevendo a levante le acque del Bascilò, a mezzodì quelle del Mugher e del Gunder ed altri minori, finchè, svoltato a ponente, va a influire nel fiume Azzurro, o meglio piglia detto nome.

Essendo Zemiè città frequentata anche dai Galla gli era più facile prendere conoscenza di quel paese, impratichirsi un po’ nella sua lingua e aprirsi quando che sia un varco fra quei popoli. E senza ch’ei se lo aspettasse gli si presentò un’occasione favorevole.

È da sapere che fra i Galla non si conosce vero medico, e quando uno cade malato si ricorre a un deftera, il quale, sapendo leggere, deve certo nei libri (per loro nei libri ci si deve scoprir tutto) saper leggere la natura del male del poveretto e il rimedio opportuno. Di quei giorni appunto capitò presso Workie-Iasu un ricco Galla, certo abba Saha, il quale s’era quivi portato colla speranza di trovare un medico che lo guarisse del suo male, un male terribile davvero; nientemeno che una famiglia di rospi aveva preso possesso delle sue budella! E come? La trista sua moglie gli aveva dato a mangiare uova di quei batraci schifosi, che, /89/ schiusi, ora la facevan da padroni, anzi da tiranni. Workie-Iasu ebbe subito pensato al signor Bartorelli ch’egli s’era accorto valere anche più di un deftera o mago, come si chiama in tal caso un deftera. Questa era l’idea che il principe aveva del signor Bartorelli; ma il volgo che l’aveva veduto qualche volta leggere in certi libri e trarre dal suo bagaglio certi oggetti da lui mai visti ne aveva anche maggiore stima, credendo fosse capace financo di risuscitare i morti.

Il signor Bartorelli adunque, gran medico, gran mago, e anche più, fu pregato di studiare la malattia di Abba Saha. Venne, lo interrogò e applicò al povero infermo (tanto tribolato che sentivasi ogni momento minacciato di morte da quei fieri invasori), applicò la sua potente magia ordinandogli una cura d’emetico che in pochi giorni diede la morte a tutti quei micidiali nemici che il poveretto aveva in corpo. I ringraziamenti che fece al signor Bartorelli abba Saha! Le voci d’ammirazione che si levarono nel pubblico, quando fu risaputa la cosa! Che uomo straordinario! che medico prodigioso! che mago potente! Il signor Bartorelli era addirittura portato a cielo. Ed ecco il mezzo di cui servivasi la Provvidenza per giungere ai suoi fini. Il signor Bartorelli fece intendere ad abba Saha che, quando avesse potuto trovare nel suo villaggio una capanna da abitare, volentieri l’avrebbe presa. Fu come fargli un’offerta graziosa; subito glie la trovò presso un suo nipote, capo del luogo, presso Gama Moràs nel Gudrù.