Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

/437/

Capo XXXVI.

Ritratto del Massaia. — Il missionario. — Virtù teologali e cardinali. — I voti religiosi. — Pietà. — Umiltà. — Qualità naturali. — Il Massaia letterato, scienziato, esploratore. — Testimonianza non sospetta. — Altre testimonianze e un voto.

Dopo ciò che s’è detto del nostro eroe ci parrebbe tuttavia di non dare compiuto il suo ritratto se non accennassimo anche, sia pur di volo, alle ragioni della sua grandezza, alle virtù che gli somministrarono la forza e la costanza state necessarie a compiere così straordinarie imprese.

Ma prima uno sguardo alla sua vita di missionario. Quale fu la missione assegnatagli da Dio? Sentiamolo da lui stesso, «L’apostolato fra i Galla, come fra gli Abissini e quasi in tutte le regioni africane, è difficile e penosissimo; e chi vi è chiamato dev’essere disposto ad una eroica abnegazione ed a contrarietà e pene indicibili. Ve ne accenno solamente alcune. Spesso si è costretti a restare anche un anno o più in viaggio quasi senza /438/ esercizio del sacro ministero, eccetto quel poco che il fervente missionario trova da fare qua e là con persone private, e più o meno direttamente. Nei viaggi poi il missionario bisogna che prescelga di camminare a piedi (e, s’intende, scalzi); poichè l’andare sui cammelli e sui muli e con seguito di servi per regioni senza strade e con piccoli e poveri villaggi è un viaggiare incomodissimo e procura sempre disturbi e questioni. Dormire inoltre quasi sempre sulla nuda terra, o sopra una pelle conciata, dentro capanne sporche e piene di schifosi insetti; non trovare talvolta neppure l’acqua per dissetarsi e doversi contentare di un po’ di latte e di un po’ di pane, cotto sulla bragia; vedersi esposto a continui pericoli della vita, sia da parte degli uomini, sia da parte delle bestie feroci; non avere, in caso di malattia, a chi ricorrere per consigli e conforti spirituali e corporali, in Africa son cose ordinarie ed alle quali il missionario dev’essere disposto. Nelle stesse case delle Missioni le privazioni abbondano; miseria nel vitto, nelle vesti, negli oggetti più necessari alla vita; mancanza di vino, non solo per bere, ma spesso per celebrare la Messa; cibi e bevande che un Europeo mai gustò o che appena gli si rendono meno sgradite dopo un lungo e paziente uso; ecco ciò che trova il missionario in Africa». E noi aggiungiamo: ecco quale fu la vita del nostro Massaia per lo spazio di ben 35 anni! E vita vivificata da quello spirito apostolico che egli diceva necessario per dare ai popoli infedeli, che sono come ossa aride e corpi senz’anima, l’esistenza e la pienezza della vita. Questo spirito, seguita il nostro eroe, il missionario deve comunicarlo non solo con la parola ma con i fatti e l’esempio, segna- /439/ tamente nella celebrazione dei divini misteri. Laonde colà è necessario che vi sieno i Giuseppe da Copertino che predichino volando verso il tabernacolo, che celebrino mandando vampe d’amor divino da infiammare i cuori di coloro che son presenti.

E quando nel missionario si troverà questo spirito, anche celebrando dentro oscuri tuguri di paglia, con poverissimi arredi, alla fioca luce di due rosse candele, senza neppure un serviente che l’assista, manderà attorno raggi di fuoco divino (come di lui appunto avvenne più volte), che chiameranno a vita ed innalzeranno al cielo chi prima giaceva nelle ombre di morte, chi pareva condannato a non vedere le bellezze della luce ed a gustare le dolcezze del Paradiso». Così il nostro Massaia che senza pensare descriveva se stesso.

Ma veniamo ora alle sue virtù. E prima un cenno delle teologali, fede, speranza e carità. Quanto profonda fosse la fede nel nostro Massaia si comprenderà di leggeri dal festeggiare che faceva ogni anno la data del suo battesimo, dalla stima che faceva del gran dono della fede, stima tanto alta che per comunicarla al prossimo intraprese e sostenne per sì lungo corso di anni tante e sì dure fatiche; si comprenderà, come dal racconto delle sue missioni si è potuto vedere, dalla ferma persuasione e intimo convincimento con cui ne parlava eziandio di fronte ai potenti, ai tiranni; dalla vigorosa ed eroica sua resistenza ai tentativi di apostasia. Per citare qualche fatto, in quella sua disgraziata spedizione a Luka, allorchè quei mussulmani, riconosciutolo per un cristiano, volevano farlo apostatare minacciandolo di morte, egli non indietreggiò, non si disdisse; e fu per questo maltrattato, fu percosso, fu a rischio /440/ veramente di morire sotto una tempesta di bastonate, nè vi sarebbe sfuggito se la Provvidenza non lo soccorreva. Così pure non esitò al campo di Teodoro a palesarsi cattolico, anzi vescovo, esponendosi ad egual pericolo della vita, benché poi anche qui la Provvidenza intervenisse col mutare il cuore di quel barbaro.

Nè men forte e viva fu la sua speranza. Quante traversie non dovette sostenere, quante difficoltà, quante delusioni anche e tradimenti e prigionie, che qualunque altro di men salda tempra avrebbero indotto a lasciare l’impresa; ma egli fidato nell’aiuto divino stette fermo. Quanto fosse grande il suo abbandono nella Provvidenza divina si può argomentare altresì da queste parole che un giorno disse a Mons. Cocino: «In quanto alle difficoltà e ai pericoli del viaggio (era per imprendere un viaggio dall’interno verso la costa) non datevene pensiero; poichè in tali imprese son solito affidarmi a Dio e lasciarmi da Lui condurre, senza badare a ciò che potrà avvenire».

E della carità sua che dovremo dire? Non fu tutta la sua lunga vita di missionario, per tacere degli altri periodi di sua vita, non fu essa un esercizio continuo e laborioso di questa virtù? carità verso Dio che procurava in tutti i modi di far conoscere ed amare, carità verso il prossimo che s’adoperava con tutti gli ingegni di convertire e salvare? E ancora effetto di questa sua carità era la compassione per le pubbliche sventure. Nel 1888 il sullodato D. Solaro trovandosi in Roma era stato a fargli visita. Caduto il discorso sul suo tema favorito dell’Africa, si venne a rammentare la sconfitta di Dogali toccata poco prima dagli Italiani: al qual punto il cardi- /441/ nale tutto commosso, ah, esclamò, ah, se il governo italiano prima di avventurarsi in quelle terre e contro quelle genti avesse domandato il mio parere, certamente questo eccidio non sarebbe successo!

Passando ora alle virtù cardinali, non meno chiare prove vi troviamo delle medesime. E prima praticò in alto grado la giustizia verso il prossimo, non solo con l’astenersi dal nuocergli menomamente, ma altresì (alla giustizia congiungendo la carità), col giovargli in tutti i modi; i favori materiali che riceveva dalle popolazioni e di vitto e di alloggio compensava spesso, come abbiamo visto, colla cura delle malattie, segnatamente con l’inoculazione del vaiuolo, e sempre poi con benefizi spirituali di gran lunga maggiori. E come l’osservava egli la giustizia, così voleva fosse osservata dagli altri, dicendo al riguardo netto e chiaro il suo pensiero, anche in faccia ai grandi e ai potenti. Rispetto a Dio vediamo come la praticasse scrupolosamente col servirsi dei naturali talenti d’ingegno e delle grazie soprannaturali alla maggior gloria divina; eseguire la volontà del Signore, come di un padrone cui è doveroso obbedire, ecco la sua regola. Basti al proposito un solo esempio. Allorchè nel suo primo viaggio in Europa fu invitato dall’arcivescovo Franzoni a rimanere in Piemonte, volle su ciò conoscere prima la volontà di Dio e, sentito dal suo direttore di coscienza che egli doveva ripartire per le missioni, senza neppure passare a vedere i suoi confratelli, i suoi vecchi genitori che pur tanto amava, s’imbarcò immediatamente per l’Africa.

E la sua prudenza come non ci parrà altresì singolare, sia nel governo di sè stesso e dei suoi, sia nello schivare per sè e nell’allontanare per gli altri /442/ tanti pericoli di spiritual rovina? E oltre alla virtù della prudenza dovremmo dire che avesse altresì il dono del consiglio, tanto perspicace ci appare la sua mente nel dirigere e nel consigliare, nel proporre e nel discutere, sì negli affari privati come nei pubblici, dotato ancora di antiveggenza e avvedutezza politica in modo meraviglioso. Prova ne sia la insurrezione dei mussulmani nelle Indie da lui preveduta alcuni anni innanzi e poi avveratasi nel 1856 colla guerra dai figli di Maometto mossa agli Inglesi, tantoché questi meravigliati ebbero a dargli sui giornali nientemeno che del profeta.

Venendo poi alla sua temperanza, come poteva essere maggiore? adattarsi ai cibi di quei barbari tanto diversi dai nostri, rassegnarsi anche a certi pranzi molto più incresciosi di una dieta, prova il pranzo di abba Saha; ne’ suoi viaggi poi, non prendere d’ordinario per viatico che una manata di ceci secchi e, ma non sempre, qualche uovo; ardere molte volte di sete, languire di fame; sottomettersi, benché non obbligato, e con quelle continue occupazioni da cui era quotidianamente oppresso, a tutti i digiuni abissini, per non essere a quelle popolazioni innocente occasione di scandalo; e ritornato dall’esilio fra i suoi, e con la salute affranta, pure chiedere per proprio nutrimento non altro che verdura e legumi; non è tutto questo un eroismo di temperanza?

E comprendendo sotto il nome di temperanza anche la penitenza, chi non vede che la sua vita fu una penitenza continua?

Che infine della sua fortezza? Non ci voleva davvero un coraggio eroico per affrontare tanti pericoli, per sobbarcarsi a tante fatiche, per procla- /443/ mare alto i diritti della fede e della religione cattolica, anche sapendo di averne dispiaceri, di averne contraddizioni, persecuzioni? Chi non ammira quest’uomo che non si sgomenta alla vista dei più grandi pericoli, che procede intrepido nel suo corso, che pare dalle difficoltà stesse sia spinto a più osare? È uscito da una prigione e va incontro ad un’altra, ha finito un esiglio e si espone a un secondo; è fuggito dalle mani di un nemico e si avventura al rischio di cadere in balìa di un altro. Non è l’interesse proprio che lo guidi nelle sue azioni, è il pensiero della gloria di Dio e della salvezza delle anime. Aveva ragione abba Baghibo, il più intelligente che il nostro trovasse fra quei re barbari, aveva ragione, ammirando il Massaia e sentendo da lui le sue intenzioni e il suo operato, di esclamare stupito: «io non vi comprendo; per me siete un mistero». Ed è naturale; come poteva un barbaro, un mussulmano intendersi della sublime fortezza a cui solleva la fede cristiana? Sublime fortezza che ci è ancora svelata dal Massaia da questa sua confessione. Parlando dei patimenti sofferti, «sono chiusi, scrive, son chiusi nel mio cuore i patimenti e le contrarietà di ogni sorta che soffrii nei lunghi anni del mio apostolato fra i barbari, e certo che senza aiuto speciale di Dio non avrei davvero potuto durarla in quella faticosa e combattuta vita. Tuttavia, se ne avessi ancora le forze, la ripiglierei con ardore; ma solo per l’amore verso sventurati fratelli, per la speranza di un premio eterno e perchè certo che non mi verrebbe meno l’assistenza divina».

Ma passiamo alle virtù di cui ebbe fatto voto, castità, povertà, obbedienza. Prima della castità: è noto nelle sue memorie quante cautele adoperasse /444/ per custodirla e difenderla nei suoi figli spirituali; quali penitenze praticasse altresì per serbarla illibata; si può ricordare il flagello di ortiche con cui volle castigare una tentazione che pareva potesse nascergli. E si può aggiungere che ad infrenare gli stimoli della concupiscenza portava abitualmente indosso il cilicio, a questo aggiungendo ancora altre mortificazioni in certi tempi speciali, come dell’Avvento, della quaresima e nelle vigilie dei santi suoi protettori. Questa virtù poi della castità era talmente conosciuta, che in uno dei tanti banchetti dati in suo onore uno dei capi paragonando il Massaia coi preti eretici, mentre i nostri preti, diceva, tengono vita tanto scandalosa, il nostro abba Messias non guarda neppure in faccia le donne.

Nè meno mirabile fu la sua povertà. Già abbiam veduto quale fosse il suo vestire; quanto umile, dimesso: nè questo faceva solo per necessità, ma per sincero amore alla povertà. Da vescovo, già l’abbiamo accennato, aveva un anello d’argento con pietra falsa; la croce pettorale che portava era dono d’un missionario, e unico distintivo che lo mostrasse principe di Santa Chiesa era lo zucchetto rosso che portava abitualmente in... tasca. E il suo alloggio quale fosse pure abbiamo visto; il più modesto cappellano di campagna l’ha migliore. In una delle sue visite alla Piovà, avendogli un suo fratello mostrato con certa allegrezza il bel raccolto della campagna, egli guardandolo col suo viso espressivo, vedi, gli disse, a me è molto più cara questa tonaca da frate.

Quando, scriveva il Corriere d’Italia il 27 settembre 1909, quando per la prima volta pose piede nell’appartamento a lui destinato nel Collegio di /445/ Propaganda, guardò con stupore come cosa non sua le camere ornate di tappeti, di cortine e di poltrone, e disse a chi lo circondava: Quanto preferisco le capanne di paglia della mia Africa! e crollando la testa e agitando le tremule mani ripeteva: non servono a nulla! non servono a nulla! io non desiderava queste cose. Il Papa me l’ha fatta bella!

In ultimo, considerando la sua ubbidienza, vediamo come fosse ossequente ai suoi superiori, quanto deferente verso di essi, quanto fosse il suo dispiacere allorchè da malevoli o ignoranti fu dipinto al Papa come poco riverente alla S. Sede. Per iscagionarsi d’una simile taccia queste tra altre cose scriveva in una lettera al Sommo Pontefice Pio IX: «Per carità, Santo Padre, non abbia il minimo dubbio al mio riguardo, perchè altrimenti il solo pensiero è per me una crisi mortale. Venti anni di ministero il più tribolato e senza consolazione di sorta per obbedire a Lei, non saranno per avventura una prova invitta di attaccamento a Lei che impersona tutta la massima evangelica e Cristo nostro Salvatore medesimo?» Si vide più chiara in appresso quanto il successore di Pio IX prendesse a stimare il Massaia: lo creava cardinale. — Alimento e frutto insieme di questa virtù era una profonda e sentita pietà. Faceva ogni giorno una lunga meditazione sulla S. Scrittura o su altro tema, e in essa tanto si attuava che pareva come astratto da ogni cosa esteriore; e, effetto di questa preghiera, lo si vedeva poi, raggiante di gioia il volto, mettersi alle sue occupazioni con gran prontezza e alacrità. Sopratutto mirabile era il suo fervore nella celebrazione del santo sacrifizio. Tutto rapito alla considerazione dei sublimi misteri che s’operavan sull’al- /446/ tare fra le sue mani, il volto gli si coloriva di viva fiamma, gli si inumidivan gli occhi, la voce gli usciva commossa dal petto... Ne rimanevan edificati gli astanti, nè talvolta potevano frenar le lacrime essi pure.

Pieno di amore e di fiducia nell’augusto sacramento dell’altare (per toccare qualche cosa di particolare), nelle missioni prima di aprire le lettere che gli erano giunte portavasi in chiesa e da Gesù implorava lume sulle deliberazioni che dovesse prendere e forza da sostenere le prove dolorose che gli sovrastassero.

Era poi divotissimo della Passione del Salvatore, e ogni Venerdì dell’anno santificava con particolari pratiche di pietà e penitenza. Anzi, ad aver sempre presente agli occhi e alla mente questo mistero d’infinito amore di Dio verso le creature, tenevasi sul tavolino della sua cella un crocifisso cui baciava sovente con grande affetto, riportandone aiuto e forza a superare le più orribili battaglie dello spirito.

E simile divozione, unitamente a quella del S. Cuore di Gesù, raccomandava ai suoi neofiti. — Aveva in gran conto la liturgia della Chiesa, onde era osservantissimo delle cerimonie che accompagnano l’amministrazione dei sacramenti e per farla conoscere ai suoi fedeli là nelle missioni compose una parafrasi della medesima.

Praticava altresì con molto affetto e inculcava agli altri la divozione alle anime purganti, per le quali non di rado offriva il santo Sacrifizio e faceva penitenze e preghiere.

Ci parrebbe poi di far torto alla sua pietà se lasciassimo di accennare alla sua divozione verso i /447/ santi. E prima verso la regina dei santi, che si piaceva specialmente di venerare nel mistero della sua immacolata concezione. Quanta e quale fosse la sua divozione alla Madonna, oltreché dalle sue lettere dalle Missioni, ci è manifesto da un discorso tenuto il 24 Maggio 1880 nella chiesa dei suoi confratelli a Smirne. In esso dunque toccando delle vicende della sua vita, diceva mercè l’aiuto di Lei aver potuto intraprendere e continuare fra difficoltà d’ogni genere l’opera sua apostolica; colla sua protezione essere potuto sfuggire a tanti pericoli, a tante minacele di morte; sotto i suoi auspizi essere riuscito a convertire tante anime ed anche allora, benché strappato dalla sua missione, non disperare che Ella avrebbe assistito i suoi figli.

Dopo la Madonna onorava di special culto S. Giuseppe, i SS. Apostoli Pietro e Paolo, alla cui protezione aveva commessa l’opera delle sue missioni, S. Francesco d’Assisi di cui studiavasi specialmente di imitare la semplicità e la povertà, i suoi santi patroni e i santi del suo Ordine. E conchiudendo, tale fu la sua pietà e virtù per tutto il corso della vita che riuscì a portare intatta al sepolcro la stola dell’innocenza battesimale.

Non è quindi a stupire se, morto, i suoi ammiratori si portino alla sua tomba, come a quella d’un santo, se, come tale l’invochino nei loro bisogni, se da molti nell’istituto suo e in altri istituti religiosi d’Italia e di Francia ricorrasi alla sua intercessione, e, quel ch’è più, molti attestino di averne ricevute grazie speciali.

Ma riusciremmo troppo lunghi se volessimo ancor procedere in questa materia delle sue virtù. Non possiamo però trattenerci dal dire anche una parola /448/ di quella che tra le virtù è, insieme colla fede, la fondamentale e delle altre custode e la misura, cioè l’umiltà. Abbiam già notato come fosse sempre senza sussiego; come fuggisse gli onori e rinunziò all’episcopato offertogli da Carlo Alberto, alla croce di cavaliere della corona d’Italia (1) mandatagli da Vittorio Emanuele e alla commenda dei SS. Maurizio e Lazzaro presentatagli da Umberto. Reduce l’ultima volta dall’Africa, giunto a Napoli si sottrasse agli onori che gli volevan rendere; nelle sue memorie si dice tutto contento d’esser potuto passare inosservato per Torino, d’esser riuscito a celarsi agli sguardi degli amici e dei conoscenti e d’aver così evitato onori che gli si volevan tributare per il troppo gran concetto, diceva egli (meritato diciamo noi), che si aveva della sua persona.

Citiamo ancora questi altri fatti. Ragionando un tale con lui e avendo fatto cadere il discorso sulla sua morte, gli disse come sulla sua tomba sarebbesi innalzato un bel monumento. Ma il Nostro, crollando il capo, non voglio, disse, sulla mia tomba alcun segno di mondana vanità, ma ferventi preghiere, perchè di queste avrà bisogno l’anima mia». — Complimentato un giorno da un confratello per la sua esaltazione al cardinalato, egli con gran semplicità rispose: [«]figlio mio, che ci ho guadagnato? un po’ di purgatorio di più nell’altro mondo».

Appena fatto sacerdote era andato a predicare le sacre quarant’ore nel paese di Cambiano, dove era parroco un santo prete, D. Sampeire. Rievocando nelle sue memorie questo fatto, dice che molto /449/ più eloquentemente e con più frutto aveva predicato quel parroco col suo contegno innanzi al Sacramento che non egli co’ suoi discorsi tirati a punti e virgole, e che se ne tornò al convento tutto mortificato e confuso. E per concludere in questa parte, discorrendo ne’ suoi scritti dei copiosi frutti di conversione ottenuti nelle sue missioni, più che a sè stesso, li attribuisce all’opera e alla fede viva dei suoi discepoli. Questo gli faceva dire la sua profonda umiltà che nessun merito gli lasciava scorgere in sè. «Io non ho altro merito (scriveva al p. Fulgenzio da Carmagnola) che di aver mangiato il pane delle povere missioni». «Io sono uno di quegli oggetti di lontananza che non vanno avvicinati, e il Signore mi avrà destinato a comparire nella storia, quando saranno scomparse affatto persino le ceneri di coloro i quali hanno avuto la disgrazia di conoscere le mie debolezze e i miei scandali». La sua umiltà gli tolse in questo di essere profeta.

Nè infine gli mancarono quei doni soprannaturali onde Iddio suole autenticare la santità de’ suoi servi. Più volte predisse avvenimenti che difatti s’avverarono e scoperse cose lontane che umanamente non potevan conoscersi e anche spesso svelava le intenzioni di coloro che con lui trattavano o scopriva ai penitenti i loro peccati. Infine non è da tacere quest’altro fatto che il padre Paolo Guercino attesta di aver udito dalla bocca stessa del grande missionario. Trovavasi egli con la sua comitiva in viaggio nei paesi galla e da più giorni era venuta a mancar l’acqua, nè per cercare che si facesse se ne poteva rinvenire; fidando allora unicamente in Dio, percosse di un ferro contro uno scoglio, ed /450/ ecco sprizzarne una vena d’acqua freschissima, come se avessi fatto un salasso, aggiungeva argutamente il santo vecchio.

Venendo da ultimo alle sue qualità naturali, il Massaia aveva alta statura, fronte spaziosa, occhi vivi e penetranti, barba lunga e folta. Fino ai suoi ultimi anni conservò sempre lucida la mente, memoria sicura e tenace, talché potè ricordare con precisione e nelle sue particolarità tutta la sua lunga vita piena di svariatissime vicende, e di incessanti occupazioni. L’ingegno aveva pronto e arguto, la parola semplice e insieme bonariamente spiritosa, il tratto affabile e senz’ombra di sussiego. Gli si era offuscata di molto la vista nel 1867, talché nel ritorno dall’Italia alle sue missioni s’era provveduto di parecchie paia d’occhiali di varia grandezza per servirsene all’uopo, nel probabile caso di crescente debolezza. E questa progredì realmente di tal fatta che, adoperati già i più forti, e tuttavia aumentando, si teneva umanamente disperato e costretto fra non molto a ritornarsene in Europa perchè cieco. In tale frangente ricorse, com’era solito, a S. Giuseppe. Presi tutti i suoi occhiali, li depose sull’altare del santo, là nella sua chiesa di Escia, e lo pregò che se era volontà di Dio che continuasse nelle missioni gli restituisse la vista. La domanda fu esaudita; d’allora in poi, finchè visse, fino agli ultimi suoi anni non ebbe più bisogno di occhiali. S. Giuseppe l’aveva guarito.

Un ultimo sguardo alla sua figura. Il Massaia fu anche scrittore e scienziato. Tale ci appare leggendo l’opera sua meravigliosa. Chi non apprezzerà quella dicitura schietta, pura, semplice, francescana, diremo, spesso anche finemente arguta; quella /451/ piena esposizione del concetto, che è appunto una delle prime doti dello stile? insomma non è lo scrittore, per modo di dire, sì le cose stesse che parlano, che balzano vive all’occhio del lettore. Quanto al contenuto non esagerò chi disse l’opera del Massaia un’enciclopedia etiopica.

E si rivela anche scienziato, nella conoscenza delle lingue ebraica e araba, nei larghi e frequenti ragguagli che dà al proposito ne’ suoi scritti di scienze naturali e fisiche, nell’opera sua di medico e chirurgo, nella cura felice di diverse malattie, segnatamente del vaiuolo. Ma sopratutto nell’essere stato egli il primo a scrivere la lingua galla e nell’averne dettata la prima grammatica, opera di oltre 500 pagine, che fece la meraviglia dei dotti.

Dopo tutto questo è lecito conchiudere che il nome del Massaia sarà sempre ricordato nella storia civile e religiosa dei popoli, come quello di un illustre banditore della fede, di un insigne benefattore e fautore di civiltà fra le genti africane. Da taluno fu anche annoverato tra i grandi viaggiatori ed esploratori del continente nero; e veramente senza darsene il vanto tale fu egli e meglio e prima di tanti altri pur famosi. Il prof. Della Vedova già citato, fra gli altri, dopo aver contemplato in iscorcio la figura del Massaia così chiude un suo articolo «Miracoli della fede, dicevasi una volta. Ma anche adesso, e speriamo sempre, dovremo inchinarci ad esempi così prodigiosi d’incrollabile fermezza in propositi dei quali è impossibile non riconoscere la nobilissima idealità: sacrificare tutti interi se stessi fino all’ultimo respiro, per nessun’altra ragione che per un vivissimo desiderio di giovare agli altri! A noi mondani, è vero, la nostra filosofia in molti /452/ casi viene insegnando per l’appunto il contrario!». Parole che non abbisognano di commenti.

Alla suddetta testimonianza è da aggiungere quest’altra, del comm. Farina, pubblicata sul Giornale d’Italia, (7 ottobre 1906) che mentre ritrae le idee proprie espone quelle di chi ebbe tanta parte nelle vicende del Massaia, vogliamo dire l’antico re dello Scioa, poi imperatore d’Abissinia, Menelik. «La cacciata del Massaia fu opera dell’imperatore Giovanni (Ioannes) che ne temeva l’influenza e la fine azione diplomatica presso Menelik che era re dello Scioa, e questi dovette subirla. Del resto il negus conservò e sempre più tuttora conserva pel Grande d’Italia la più alta venerazione, e il conte Antonelli ha affermato di aver udito ripetere da Menelik le seguenti parole: «abba Massaia è un uomo di Dio; io l’amo come mio padre».

Non solo, ma quando ebbi occasione di inviare all’imperatore alcuni ricordi personali del Massaia egli mi fece avere per mezzo del nostro ministro degli affari esteri una lettera di ringraziamento in cui chiamava il Massaia «vegliardo di animo leale e puro, da grande tempo mio amatissimo e valentissimo amico».

E il medesimo in altra lettera al comm. Farina: «Egli (il Massaia) era mio padre, era mio amico, noi l’abbiamo perduto e non ci è stato ancora sostituito. Perchè il buon Dio non ci ha concesso il favore d’inviarci un altro grande, santo e savio come lui?». «Il nome del Massaia, diceva al suddetto comm. Farina il degno Masciascià, il nome del Massaia è ricordato in Abissinia come quello dell’uomo di Dio».

E potremmo tirare in lungo in simili onorifiche /453/ attestazioni a riguardo del nostro Massaia, anche di chi non può sospettarsi troppo tenero della religione e dei suoi ministri. Ma meglio che l’approvazione degli uomini di mondo, che sono pure in questo caso una testimonianza resa alla verità, il card. Massaia s’ebbe l’approvazione e l’ammirazione di tutti i credenti, del capo dei credenti, il Vicario di Cristo, ed è conseguente sperarlo, il premio da Dio. Questo ci persuade tra l’altro a pensare la bella e autorevole deposizione che di lui lasciava il suo segretario particolare. «Nessuno più di me, scrive il p. Giacinto da Troina, nessuno più di me che vissi parecchi anni al suo fianco nella più filiale intimità potè conoscere le doti, i pregi, le virtù, la grandezza, la santità insomma di quell’anima bella. Dopo questi onori, (quelli accennati nella sua Memoria) ben meritati, pertanto glie ne auguro un altro e con me quanti lo avvicinarono, l’onor degli altari. Ed ho fiducia che come il Signore lo avrà glorificato in cielo vorrà a suo tempo glorificarlo in terra».

Parole alle quali, anche chi solo abbia avuto la pazienza di scorrere queste pagine, non mancherà certo di consentire.

E veramente l’alba di questo giorno fortunato, di tanta gloria per lui e di tanta letizia per la Chiesa, che nel trionfo de’ suoi figli, de’ suoi apostoli specialmente, vede il trionfo di se stessa, del suo divin fondatore, quest’alba sospirata già s’annunzia radiosa. Già s’è aperto il processo informativo delle virtù del servo di Dio, e con lieti auspizi, che ci fanno sperare in un felice risultato. Dio esaudisca presto i nostri voti!

(1) Questa, come dicemmo, gli fu recata nello Scioa dall’Antinori. Accettò però in quell’occasione un calice d’argento che il medesimo gli aveva inviato. [Torna al testo ]