P. Reginaldo Giuliani O. P.
Croce e Spada

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Non erano agitati da spasimo patologico di romantiche avventure o da energumeno patriottismo, ma venivano attratti dal desiderio puro ed ardente di dilatare nei cuori il regno di Dio.

Il Cappellano della grande guerra

Ill. fra le pp. /56/ e/57/
... Non è un cambattente ..

«... non è un combattente; sua unica arma è la piccola Croce che porge al bacio dei morenti... »


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«Impendam et superimpendar»

Nella seconda lettera scritta da S. Paolo ai fedeli delle città di Corinto per difendere il suo ministero dalle accuse di maligni avversari, l’Apostolo erompe in questa forte dichiarazione: «Volontierissimo per le anime vostre spenderò tutto e spenderò me stesso: impendam et superimpendar». Non vi fu apostolo che abbia potuto fare, con maggior verità, una tale asserzione: fatiche innumerevoli, viaggi, peripezie ela morte stessa provarono evidentemente la carità che gli fiammeggiava nell’anima.

L’esempio del maestro dell’apostolato cristiano deve commuovere il sacerdote cattolico, e fargli esclamare collo stesso trasporto e colla stessa sincerità: Impendam et superimpendar! Solo chi è punto dalla sete ardente d’ella salute delle anime, sino al desiderio della propria immolazione, è degno del nomedi apostolo.

La guerra apriva un campo nuovo alle ardenti e intelligenti mire dell’apostolato; onde, pur conservando l’avversione cristiana per questo gioco sanguinoso di losche cupidigie, parecchi sacerdoti scesero in campo con un fervore di bene che li fece ammirevoli ai credenti ed agli increduli: non erano agitati da spasimo patologico di romantiche avventure o da /58/ energumeno patriottismo, ma venivano attratti dal desiderio puro ed ardente di dilatare nei cuori il regno di Dio, di aprire le porte del paradiso ai morenti, e di mostrare al mondo contemporaneo che la carità predicata dal sacerdote non è una bella formola cristallizzata, trasmessa da vecchi maestri sonnecchianti sulle cattedre millenarie, ma una forza sempre viva, una sorgente perenne di virtù e di beneficenza eroica, sconosciuta al mondo.

(Si dice che se S. Paolo vivesse nel nostro tempo farebbe il giornalista: io credo che con non meno originale ipotesi si può affermare che se il grande Apostolo fosse vissuto durante la guerra mondiale, avrebbe fatto il cappellano militare: per darsi tutto a tutti e tutti guadagnare a Cristo).

Sul teatro tragico del combattimento, dove la civiltà falliva e la vita perdeva le maschere e gli inganni, e la gioventù stessa era di continuo minacciata dagli spettri della morte e della disperazione, poteva solo brillare l’unico sole che non tramonta mai: la fede cristiana.

Ma per apportare e rendere accettabile la grazia del Signore a questo popolo di combattenti, tradito dalle umane speranze, bisognava andarlo a cercare sul luogo del martirio, mostrarsi ed affratellarsi a lui quando tutto lo abbandonava, e condividere i suoi dolori ed affrontare al suo fianco la morte. Questa carità di fatti e non di parole, spontanea e non stilizzata in pratiche convenzionali, eroica e non misurata, è la forza che convinse meglio assai delle più penetranti argomentazioni, ed aprì largamente la via alla redenzione divina.

Cercare, conoscere le anime era il primo desiderio e la prima causa di martirio del sacerdote destinato all’assistenza spirituale dei combattenti.

Poche sono oggi le anime educate e conservate nel giardino della Chiesa, come pochi sono i fiori coltivati nelle aiuole domestiche, in paragone della flora silvestre di cui la generosa mano del Creatore ricopre le zolle e le rocce. Innume- /59/ revoli sono le pecorelle smarrite. Chi non ha viscere di carità di vero pastore, viene tentato di irrigidirsi in un gesto di perpetua maledizione nel comodo ovile, ove son rimaste sole le reliquie del gregge cristiano: ma colui che non è sordo al gemito del divin Maestro: «Ho altre pecorelle che sono fuori dell’ovile e sono mie, e bisogna portarle a me» (S. Giov., X, 6) prova una compassione stringente di questo popolo abbandonato ai pascoli venefici, ed è martoriato dalla voluttà irrefrenabile di guidarlo all’ovile. Per le anime smarrite il Redentore ha sborsato il prezzo inestimabile del Suo sangue: anime più infelici che perverse, più cieche che ostinate, più traviate che irreducibili per natura e per sola colpa propria. La prima ragione dei loro traviamenti va oggi ricercata nella famiglia e nella scuola, dove la coscienza infantile intristisce, soffocata dai miasmi della corruzione. Cresciuta senza convinzioni etiche, senza ideali cristiani, la gioventù aveva afferrato con ambo le mani il calice d’oro del piacere, tracannandone il beveraggio, quando la colse la diana della guerra.

Così venne trascinata nella corrente violenta di sangue, dove noi tendevamo con la miglior fortuna le reti apostoliche.

Bastava conoscerli questi cuori di vent’anni per aprire fiduciosamente le braccia.

Nella giovinezza nulla è radicato, niente è profondo, neppure il male: e poi quante buone risorse vi sono, anche fra mezzo al vano rigoglio del vizio! Quale latente potenzialità di soprannaturale in queste vigorose nature!

Uno sguardo alla sfuggita, un colpo d’occhio complessivo, gettato prima della guerra sulla gioventù sciamante all’uscita dei licei o delle officine, ci aveva dato una stretta al cuore: in una cognizione superficiale tutte le nostre speranze cadevano. Ma quando fummo chiamati a curare e confortare questi spiriti sul campo, una comunicazione intima con essi ci aprì il cuore alle speranze, e spesso ci lasciò umiliati dalla rivelazione di bellezze morali inaspettate.

/60/ Non era possibile che un cappellano militare, al quale era affidata la cura spirituale di quattro o cinque mila uomini, potesse avvicinarli tutti e spesso; l’insufficenza a conoscerli tutti formava uno dei nostri crucci quotidiani.

I soldati distinguevano il cappellano, non tanto dalla croce di panno rosso che egli portava sul petto, sopra la divisa di ufficiale, quanto dal sorriso paterno che il sacerdozio accende in viso ai veri apostoli. Quando ci scorgevano da lungi, se non erano inquadrati, quei buoni figlioli ci correvano attorno, ci salutavano, non con la rigidità dell’attenti, ma colla luminosità del volto, con parole di soddisfazione, che meravigliavano chi per la prima volta assisteva a quegli incontri.

Ho già parlato altrove delle visite fatte dal cappellano alle trincee: basti ricordare che le anime si aprivano e ricevevano i santi Sacramenti soprattutto nei brevi colloquii tenuti all’avvicinarsi dei pericoli supremi.

La vita del cappellano era una peregrinazione continua in cerca di anime: lunghe rampicate ansimanti per le trincee montane, corse ed indugi formavano la nostra occupazione quotidiana. Bisognava cercarle sempre, queste anime, essere sempre pronti a riceverle, di giorno e di notte. L’anormalità stessa delle occupazioni belliche, che si avvicendavano di continuo e sotto il sole e nelle tenebre, richiedeva pure una vigilanza ininterrotta da parte del cappellano: il soldato sapeva che, in qualsiasi ora bussasse a quella porta, veniva sempre accolto come un figlio, fosse pure un figliuol prodigo.

Un solo pensiero, una sola cura dominava le nostre preoccupazioni e ci struggeva: il ricondurre le anime a Dio. Quando finalmente riuscivamo ad afferrarne qualcuna, la consolazione nostra superava quella che ci avrebbe potuto dare il rinvenimento di qualunque tesoro.

Le anime, da tutti trascurate e quasi negate nelle pratiche banali della guerra, svalutate a tal segno che vi fu tra i comandanti chi stimò superfluo il ministero del cappellano, il solo che le curasse, le anime mostravano a noi la loro faccia, aprivano su di noi i loro occhi assetati di luce e di affetto. Nessuna loro macchia ci ha atterrito, perchè avevamo fiducia /61/ nella potenza redentrice di Dio e sapevamo anzi che le pecorelle smarrite devono formare l’oggetto delle brame ardenti del vero pastore.

La forza del nostro apostolato, dopo la grazia di Dio, fu l’amore potente di cui eravamo accesi per i nostri cari soldati. Non era possibile conoscerli, come noi li conoscevamo, senza amarli calorosamente. Il nostro affetto molto valeva ad attirarci i cuori, perchè poteva dimostrarsi coll’argomento più significativo che si abbia: col sacrificio.

Il sacerdote, destinato all’assistenza spirituale dei combattenti, doveva immediatamente offrire a Dio la vita in olocausto per le sue pecorelle, poichè spesso tornava impossibile compire i doveri essenziali del proprio ministero senza esporsi al pericolo di morte. Se poi tutta l’anima sua s’infiammava alla vera carità evangelica, che spinge ad esporre volentieri la propria vita per i fratelli, allora non v’era mattino in cui il sacerdote non si domandasse: «Potrò giungere a vedere la sera?».

Non eravamo chiusi in una passiva rassegnazione, come chi è convinto che bisogna pur sottomettersi al supremo supplizio, ma una virtù celeste ci faceva sopportare la nostra sorte con una pace ed una soddisfazione che ci rendeva meravigliati di noi stessi.

Non erano certo estranee alla conservazione di questa pace, le consolazioni che ci venivano dal laborioso e pericoloso ministero. La riconoscenza dei nostri soldati non aveva limiti: v’era tra il nostro e i loro cuori una corrispondenza di affetto e di gentilezza che commuoveva.

«Cappellano, si fermi, non venga più avanti, chè v’è troppo pericolo», dicevano affettuosamente gli arditi destinati alle pattuglie di punta, ove maggiore era il pericolo, e quindi più necessaria l’opera del sacerdote.

«Finchè sto presso di lei, non ho paura di nulla, neanche della morte», esclamava un soldatino che, trovandosi disperso /62/ in una pericolosissima manovra, s’era messo al mio seguito, come l’ombra del mio corpo.

Durante un terribile combattimento, accorrendo a soccorrere un ferito di cui sentivamo il forte lamento, vedevo le pallottole d’una mitragliatrice nemica che si conficcavano nella terra fra l’uno e l’altro mio piede. Appena scorsi il disgraziato steso sul suolo, mi buttai al suo fianco, riparando la testa dietro lo stesso sasso: e quegli, prima ancora di riconoscermi, esclamò: «Dammi un “baso”; tu sei il mio salvatore!». Lo soccorsi alla meglio, e poi lo riportai, collo stesso pericolo, al primo posto di medicazione.

E le cartoline che ci inviarono dagli ospedali, dalle licenze e che ancor conserviamo, come la più dolce testimonianza di conforti Incomparibili sic incomparibili!? Una dice: «È la prima cartolina che scrivo dall’ospedale, ma è dovuta a Lei, che mi salvò». Un’altra: «Ricordo con affetto chi nell’ora del pericolo e della lontananza della famiglia, mi confortò con parole e affetto di padre». Una terza: «Lei non si ricorderà certo di me, ma io che sono stato salvato da Lei, non la dimenticherò più». Una quarta: «Presto tornerò al reggimento, per Lei soprattutto».

Un giovane ufficiale presentava il cappellano alla famiglia, scrivendo: «È mio amico e consigliere; a lui devo, se in faccia al nemico la mia coscienza è tranquilla».

Il vero frutto della riconoscenza, data all’opera eroica del sacerdote, era il ritorno delle anime a Dio.

Tutte le nostre opere, tutti i nostri sacrifici dovevano avvalorare il nostro ministero spirituale: dinanzi alla evidente dimostrazione della carità evangelica, cadevano le prevenzioni nutrite contro il prete e la Chiesa, e appariva chiaramente che solo una fede verace poteva animare una missione densa di atti eroici. Un militare, che aveva cercato a lungo il cappellano, gli disse: «Vengo per confessarmi: sono anni che non mi confesso, ma sono stato convertito da Lei, quando là in quella /63/ dolina ella andò a prendere un ferito, sotto il tiro diretto della mitraglia austriaca».

In mezzo alle grandi consolazioni del ministero sacerdotale, non mancavano le pene causate dalla mancanza degli effetti che ci ripromettevamo dalia nostra opera.

La banalità di certi ambienti ci scoraggiava: le opposizioni subdole di qualche settario ci procuravano dei profondi disgusti. Morti improvvise, che ci lasciavano mille timori circa la sorte di quelle anime, o il fallimento di qualche santo tranello teso per farvi cadere una preda lungamente desiderata, formavano un martirio che non conobbe l’uguale. Io non ho mai ricevuto il rifiuto di un morente per l’amministrazione degli ultimi Sacramenti: ma la conquista di qualche anima costò delle ansie insuperabili. L’indicibile dolore che la vista di certe stragi repentine ci gettava in cuore allorchè non si era potuto giungere in tempo per dare l’ultima assoluzione, veniva superato dalla inquietudine spasmodica delle domande che ci balzavano in cuore, come ripetute trafitture di fredda lama: «E delle anime, che sarà avvenuto? Ve ne è forse qualcuna piombata or ora nelle mani della tremenda giustizia di Dio? Ho fatto io ogni sforzo per evitare queste catastrofi eterne? Non sono stato degno di arrivare in tempo per amministrare gli ultimi Sacramenti?».

Lacrime amare e cocenti, come quelle della madre che ha perso il figlio, filavano furtivamente dai nostri occhi o venivano versate in secreto nei brevi istanti di riposo, fra le pietre delle doline carsiche!

Non ci mancarono, per la grazia di Dio, i consolatori. Gesù ci parlava sempre dalla Croce o dalla piccola custodia eucaristica in cui Lo tenevamo racchiuso sul nostro cuore, nelle giornate più combattive. Preziosissime ci tornavano le calde esortazioni del nostro amatissimo vescovo di campo, Lorenzo Angelo Bartolomasi (Pianezza 1869 - 1959) fu dal 1915 al 1922 Vescovo di Campo, poi nuovamente dal 1929 al 1944 Vescovo Castrense d’Italia.
Vedi Wikipedia: → Ordinariato Militare per l’Italia
→ Angelo Bartolomasi
Mons. Angelo Bartolomasi, angelo per tutti i militari, ma specialmente per i suoi cappellani. Ci sollevava da ogni pena una visita di lui, o del suo coadiutore, Don Michelangelo Rubino, vero figlio del venerabile Don Bosco per l’agilità apostolica che lo portò attraverso a tutte le fronti, a consolare, a consigliare, a provvedere. Un convegno di sacerdoti illuminato dalla parola lu- /64/ cida del Padre Semeria, altro infaticabile apostolo del clero militarizzato, ci rasserenava l’anima e l’apriva a nuove speranze.

Le commozioni più varie e più intense si avvicendavano in continua ridda nel nostro cuore, e l’esaltavano a gioie tanto più alte quanto più profondi erano stati i dolori.

Mai come nel ministero di guerra l’apostolo ha constatato che l’opera dell’uomo non vale nulla, se Iddio non dà l’incremento: cento vittorie inaspettate hanno confermato questa verità che fu proclamata da S. Paolo stesso. Ma il Padre dei Cieli che non permette che l’umanità venga martoriata senza scopo, sulle petraie sconvolte dal fuoco e dal ferro faceva tranquillamente maturare bella ed abbondante messe di anime, che falciava e trasportava nella sua Casa celeste.

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Bandiera nuova

Una delle più belle giornate del mio reggimento fu il 12 d’agosto del 1916, quando nel ridente paese di Crauglio, ai piedi del Carso, gli fu benedetta e consegnata la nuova bandiera.

Il vecchio vessillo del 55° Fanteria era stato seppellito nei gorghi dell’Adriatico, con buona parte dei battaglioni che tornavano dall’Albania. Ma, in meno d’un mese, l’intero reggimento era stato rinnovato e aveva già preso parte alla battaglia di Gorizia, quando nel breve riposo si preparò alla grande cerimonia.

Nel campo aperto, coronato di gelsi, e tappezzato dì verde, i soldati avevano eretto un gran palco con l’altare. Una croce d’argento con lo stendardo portante l’effige della Vergine, dominava tutto il campo, fra due giovani platani scintillanti di rugiada nel cielo mattinale.

La funzione assunse una solennità impareggiabile: tutto il reggimento, cogli elmetti grigi e le baionette rilucenti, formava il quadrato romano; la banda gettava nell’aria ondate giulive e sonore; il cannone tuonava in lontananza.

Prima della Messa il Colonnello Vittorio Sforza, nobiluomo di sangue e più di carattere, con voce tonante e commossa rivolse le seguenti parole.

«Ufficiali, Sottufficiali, Caporali, Soldati
del 55° Reggimento Fanteria!

«La funzione che stiamo per compiere, qui, sotto la voce del cannone, è di per sè tanto solenne che niuna cosa potrebbe renderla più manifestamente grandiosa nè più commovente di quanto i nostri cuori già la sentano.

«Il 55° Reggimento Fanteria non perdette la sua bandiera! L’insidia nemica inabissò in massa i nostri eroici fratelli nelle profondità dell’Adriatico; la bandiera del reggimento li accompagnò nell’immane sepolcro per coprirli degnamente col suo drappo tricolore e collo scudo di Savoia!

«O fratelli gloriosi! Voi sempre vivete nei nostri cuori; noi vi sentiamo qui presenti in ispirito. Siete voi che, ingigan- /66/ titi dallo stesso vostro pietoso ed eroico sacrificio, emergete ora per un istante dai flutti e ci porgete in restituzione la bandiera del reggimento ingiungedoci di glorificarla maggiormente, di difenderla sino alla morte!

«Noi, che già spontaneamente raccogliemmo quest’impegno, paleseremo oggi con giuramento solenne la santa promessa che da lungo tempo è racchiusa nei nostri cuori.

«Invochiamo intanto da Dio la pace spirituale per i nostri fratelli, come invocheremo la Sua santa benedizione sulla nostra bandiera».

Il sacerdote celebrò la Santa Messa; poi, rivolto alle truppe, così disse:

«Ufficiali e soldati!

«Giustamente avete portato la bandiera dinanzi a questo altare che avete elevato di fronte al secolare nemico, affinchè sovr’essa si levino le mani sacerdotali ad implorare la benedizione di Dio. Tutto ciò che vien toccato dalla Religione, tutto viene da Lei elevato e trasfigurato. La Beatrice di Dante, dappoichè gli comparve nel cielo, fra nuvoli d’angioli, “sovra candido vel... sotto verde manto, vestita di color di fiamma viva”, non è più umana creatura, ma un essere celeste, un ideale tutto divino, cui la vasta mente e il gran cuore del sommo italiano attinge luce sovrannaturale e forza sovrumana.

«Soldati! Levate lo sguardo ardente alla bandiera vostra, e sotto i raggi della celeste benedizione la vedrete trasfigurarsi, come la divina Beatrice, vestita di bianco, di rosso e di verde, nel simbolo di superne virtù, di fede, di speranza e d’amore.

«Di fede ci parla il bianco che, splendendo col suo nitore immacolato nel centro del Nostro Vessillo, ci dice qual parte debba avere nel sacro ministero delle armi, quella religione che rese inespugnabili i padri nostri nelle ciclopiche lotte condro i Goti e gli Ostrogoti di tutti i tempi, quella religione che la madre nostra ci ha istillato nel cuore quando, additando al nostro sguardo infantile le stelle scintillanti del cielo italiano e i fiori della nostra edennica terra, ci parlava del Dio che a noi fu largo di tante preferenze.

/67/ «Signori Ufficiali! La fede non è solo il pane delle anime rozze dei vostri soldati: anche agli intelligenti, ai colti essa è maestra: e ve lo dicono Dante e Manzoni, Andrea Doria e Marcantonio Colonna, anime altere, piene di Dio, di luce e d’energia.

«Lo scudo degli invitti Sabaudi che sta nel bel mezzo della Bandiera vi esalta la virtù di quella eroica stirpe che, sopra tutte le dinastie europee, sola ha il vanto di non aver dato all’Italia nessun tiranno, ma di averle invece generato molti eroi e parecchi santi.

«Il verde, il giocondo simbolo della speranza! È inutile che la mia debole parola vi parli di speranza, proprio mentre voi sentite la voce rombante del cannone che sfonda la lunga resistenza nemica, non più collo stridore dello sforzo inefficace, ma come un possente grido di vittoria. Sì, sperate, o prodi soldati: poichè è bello sperare quando sulla corona della gran madre Italia vegono a deporsi delle gemme così preziose come la fulgida Gorizia! Sperate, poichè la vittoria finale è di chi nel martirio degli anni non lascia languire lo spinto! Sperate nel Dio della giustizia, nel Dio della forza; e il vostro braccio non verrà mai meno e il vostro petto sarà temprato: le vostre schiere saran protette dalla bandiera che il Signore ha benedetto, come da una corazza infrangibile.

«Il rosso vivo di sangue e di fuoco che compie il tricolore, vi parla d’amore. È l’amore che bisogna invocare, anche in guerra; non l’odio. L’odio è figlio e padre di barbarie: l’amore invece sorge dalla civiltà e genera il bene, l’odio è maledetto da Dio: l’amore, invece, Dio lo benedice.

«Un giorno la porpora rivestiva gli imperatori della nostra Roma: oggi è la Madre Patria che si è imporporata tutta, dalle vette delle Alpi conquistate sino ai mari suoi, col sangue dei suoi figli, dei vostri fratelli, o prodi soldati del mio 55° Fanteria! Sangue che vi dice l’affetto ardente con cui si è amato e si ama la più bella delle patrie! Amate l’Italia, e coll’Italia amate il suo cielo tersissimo, le sue marine profumate, i suoi colli in fiore, le sue verdi pianure, rigate dall’argento dei fiumi sonori! Amate le vostre cento città; le vostre case, le madri, le spose, i tìgli, i fratelli: amate le tradizioni di fede, di arte, /68/ di scienza del popolo nostro, e l’amore vi renderà dolci e desiderabili tutti i sacrifizi, e vi farà eroi per vendicare santamente le grandezze che il nemico ha disprezzato.

«Soldati! Mi brucia lo zelo del papa Giulio II, dell’immortale mio Savonarola, di Eugenio di Savoia, e con loro grido: Fuori i barbari! E mentre il nemico volge in rotta precipitosa, io, col grido dei padri dell’antica Roma, invoco l’aquila trionfale rinnovellata nel vessillo tricolore: T. Livio Ab urbe condita V, 55: Signifer, statue signum; hic manebimus optime “Signifer, statue signim, hic manemus optime” (Vessillifero, innasta qua la bandiera, questo sarà nostro dominio).

«Date al vento la nostra bandiera! Sventoli benedetta dal Dio degli eserciti ad intimorire il volo delle grifagne aquile imperiali, come nelle giornate di Legnano e di Lepanto. Portiamola avanti nell’onda delle sfolgoranti baionette, tra nuvoli fragorosi del piombo vincitore. Sui colli del Carso, battezzati nel sangue profumato dei nostri eroi, incalzeremo la fuga del nemico col suo splendore: l’alzeremo sulle torri di Trieste, in riva al nostro sacro mare; di dove sorgerà, non più sudario di pace pei morti del 55° affondato, ma nostro stendardo trionfale, nel poema di gloria che Dio serba ai destini d’Italia».

Dinnanzi a tutte le armi alzate, pronunciai la formola rituale, chiedendo la benedizione divina sulla nuova bandiera per l’intercessione della Vergine e di tutti i Santi dell’Italia nostra.

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Altari castrensi

La Croce diffuse la sua luce più viva sui campi di battaglia. Il Martire Divino parlava alle turbe dolenti dall’altare su cui il sacerdote soldato rinnovava il sacrifizio cristiano: tutta la religione del campo s’imperniò in questo piccolo Calvario portatile, che, per l’amore delle anime di cui è infiammata la santa Chiesa, aveva abbandonato la stabilità del marmo riquadrato dei nostri templi per assumere la mobilità della tenda castrense. Ogni campo di guerra, in cui ardessero piaghe da molcere, morituri da confortare, anime da santificare, poteva ricevere il candido altarino: corsìe di ospedali e trincee scavate, verdi prati e guazzi, ampia distesa di ghiacciai e vette algenti, caverne e baracche, il chiuso e l’aperto, il sole e la neve, diventarono sacri e solenni come le cattedrali che intrecciano multiple corone di archi sovra artistici altari di marmo e d’oro. Anzi, pareva che sulle truppe inquadrate o accalcate all’intorno, si diffondesse una luminosità chiara e calda, da quella minuscola e povera mensa mal coperta di pannolini raccorciati, e illuminata da due moccoli consunti dal lingueggiar delle fiammelle al vento. V’era una poesia mistica, ingenua e possente in queste cerimonie di campo, poesia che attraeva e che commosse anche gli increduli, e ne avviò qualcuno al culto spirituale del vero Dio.

15 Agosto 1917. – Alta Val Camonica.

Sul cielo mattinale si diffonde un azzurro luminoso e trasparente; dal sovrastante ghiacciaio soffiano fresche e leggere raffiche, che spandono tutti gli aromi e le essenze della montagna; gli storni cinguettano fra i larici, che si fan sempre più rari sul fianco della strada salente fra le rocce.

Il mio cuore armonizza con tutta questa festa di luce, di fiori e di canti: è la festa dell’Assunzione della Vergine.

Lasciando la grande strada della Sella Tonale m’arrampico lestamente pel camminamento che porta ad una piccola sezione di mitraglieri, appollaiati presso l’altissima cresta. Mi segue l’attendente con la cassetta dell’altare.

/70/ Da parecchio tempo quei bravi soldati si son fatti promettere il favore di questa Messa. Quasi tutti i miei più che quattromila uomini vantano, e mi pare che abbiano realmente, per una strana ma obbiettiva anomalia, una qualche preferenza del mio affetto, qualche segno particolare del mio amore.

Salendo, la strada è diventata sentiero; e il sentiero è ripido e tortuoso; nei punti esposti alla vista nemica si copre e si fa buio come una buca scavata da una talpa; ma è sempre dolce camminare verso persone che ci attendono e ci amano.

Finalmente posso stringere le mani di quei valorosi. M’accompagnano tosto alla parte estrema del ridottino, dove il piccolo presidio è stato radunato per la santa Messa. Quella caverna è detta «il Paradiso», perchè è la punta più alta della nostra difesa: non certo per altro motivo: anzi, di notte, talvolta diventa un vero inferno di mitraglie e di bombe che scattano per le feritoie, contro gl’improvvisi assaltatori. Ma di giorno vi si respira una gran calma. Sovra un asse, appoggiato traversalmente fra le due pareti rocciose dello stretto ricovero, colloco la pietra sacra e distendo le bianche tovaglie dell’altare. I soldati sono stivati alle due fronti dell’altare, sotto la bassa volta blindata; i più alti debbono tenersi costantemente ricurvi. Le candele si spengono ripetutamente alle raffiche di brezza che penetrano per le feritoie; i piedi guazzano nel fango.

Assai raramente il grande atto è stato celebrato in una catacomba più indegna. Eppure, quando sollevo nelle mie mani l’Ostia candida sopra quelle ombre, curvate l’una sull’altra nel fango della buca oscura, non mi pare proprio una ironia il nome di «Paradiso» dato a quel luogo, santificato dalla presenza di Dio e dal fervore della preghiera.

Dopo la celebrazione, parlo ai miei uomini del giglio, che trasforma gli elementi sorbiti dalla terra nel candore dei petali elevati sullo stelo, e dico della Vergine che portò al cielo il fiore verginale della sua carne, e ricordo le meravigliose trasformazioni che la grazia del Signore opera nei cuori che a Lui si appressano...

/71/ Non si potrà mai conoscere quale immensa onda di soavi commozioni spandesse nell’anima buona dei soldati una funzione sacra. Quanti occhi luccicavano di pianto, nell’atto in cui alzavamo la nostra mano benedicente! Visioni di madri lontane, di spose e di figlioletti in preghiera; memorie riviventi di giovinezza immacolata, di feste lontane: voci care, concenti di bronzi noti e amati; profumi di orti domestici davano un voluttuoso assalto alla mente ed ai sensi e facevano trasalire e piangere.

Nell’ultimo anno di guerra si cercò di trapiantare alla fronte gli spassi ed i divertimenti della vita di pace, per far sentir meno al soldato il peso della guerra; ma nè il teatro da campo, nè i giochi sportivi, nè alcun altro profano sollievo potè gareggiare con la diffusione di tranquillità e con la lieta affermazione di buoni propositi che diffondeva un piccolo altare.

I militari stessi dimostrarono quanto gradivano una bella cerimonia religiosa, con la diligenza volonterosa che mettevano nel preparare gli ornamenti per l’altare. L’arte spontanea frasformava quel piccolo altarino in qualche cosa d’ammirabile, di grandioso. Nelle solenni ricorrenze io lasciavo ai soldati tutta la libertà d’iniziativa e di lavoro, sicuro della riuscita, meglio che se vi avessi atteso io stesso. Fra la truppa vi erano dei veri artisti; e soprattutto vi erano dei cuori innamorati della bellezza del culto.

Il luogo e la stagione davano la materia prima alle oneste mani, j che sapevano trasformarla in vaghi ornamenti. I fiori più belli della primavera coronavano gli altari pasquali; i pampini e le frondi abbondanti e i perpetui rododendri lo ombreggiarono bellamente nel solstizio. Nelle conche aeree e sulle altissime creste del Tonale, ove il mio altare non poteva giungere che spoglio d’ogni superfluo, privo persino della ordinaria cassetta, e tutto raccolto dentro un tascapane a cencio, i miei giovanotti spesso potevano preparare la Sacra Mensa sopra meravigliose distese di neve compressa. Il plasmabile elemento che otto mesi dell’anno cade abbondantemente su quelle montagne venne foggiato dalle mani dei militari in guisa d’un vero monumento di marmo pario, che pa- /72/ reva piovuto dal cielo per essere il più puro ed il più degno trono eucaristico.

Giammai tempio fu più bello di quello che era formato dagli archi azzurri della volta celeste, e dai colossali colonnati di rupi salienti, e dai tappeti delle candide groppe dei monti. L’Ostia immacolata splendeva nei raggi del sole nascente, e le teste abbronzite dei difensori d’Italia si piegavano ad adorare il mistero di sacrifìcio racchiuso nei veli eucaristici.

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La parola della montagna

Una dolce necessità di bene venne presentata al soldato dal contatto colla natura.

Mai forse si visse in una vicinanza così immediata e continua colle grandi forze, cogli spettacoli meravigliosi, colle risorse e coi tormenti che formano le grandi lezioni, in cui San Bernardo diceva trovarsi insegnamenti migliori che in qualsiasi libro scritto da penna umana. L’anima non può sentire voci più divine di quelle che la mano stessa di Dio trae dalle corde della natura. La virtù non può avere una scuola di maggior tempra di quella che le viene fornita dagli insegnamenti del creato; il sangue umano non può avere un rigeneratore più igienico dell’aria leggera, aromatica, ossigenata e fresca delle vette alpine.

La maggior parte del fronte italiano si stendeva sulle Alpi, onde quasi tutti i reggimenti si avvicendarono nelle trincee di alta montagna. Le rocce audaci che s’alzano oltre i tremila metri e paiono sfidare il cielo, insofferenti che piede umano le tocchi, le balze che sono sfiorate dalle penne dell’aquila superba, furono domate gloriosamente dalla tenace gagliardia degli alpini, o di quei fanti umili che a nessuno si mostrarono per valore inferiori, nè tra le pantanaie di Monfalcone, nè sulle più alte vette. Le baite solitarie, che erano solite albergare due mesi all’anno i nomadi pastori, i rifugi alpini che le nostre associazioni sportive avevano preparato per gli allegri gitanti, sono diventati i migliori palazzi nel centro di quei villaggi di baracche che sorsero a sfidare la tormenta in compagnia delle crode dolomitiche.

Chi nella luce diafana del sole di agosto, per sentieri da camosci, ascendeva nell’aria leggera dei tremila metri, si riempiva di meraviglia nel trovarsi dinanzi, accovacciata tra le vette, una vera cittadina interamente fabbricata dai militari, colle vie regolari, quantunque sospese sull’abisso, colle officine e la cantina del vivandiere, e la piazza su cui sorgeva la chiesuola e il campanile, il piccolo campanile di legno che suscitava nell’anima degli ingenui soldati ricordi e visioni di cara nostalgìa.

/74/ Non sempre il soldato si godette la beatitudine di queste meschine comodità. Spesso le esigenze tattiche richiesero affluenza tale di truppe cui non bastavano i precari baraccamenti: e allora si ricorse alla tenda. Questa mobile masserizia, che formava un giorno il bagaglio dei patriarchi, risolse ogni problema di edilizia militare. Ognuno però comprende quanto freschi si stesse fra queste pareti di tela, ondeggianti alla tormenta e piantate alle volte sulle nevi o sul ghiaccio eterno!

Onde la casa migliore pareva talvolta quella che il soldato stesso si era scavata nel suolo, e che gli serviva da trincea e da ricovero, dove si stava come le fiere nelle tane.

In compenso sui monti si godeva l’aria più pura e i panorami più meravigliosi che la natura offra. Noi che avevamo letto qualche pagina sparsa del gran libro della natura, nelle liete ma brevi escursioni, non avevamo assaggiato il fascino e la potenza educatrice che emana da un contatto più continuo colla madre nostra: la terra. Il segno di divina perfezione che essa porta costantemente impresso nei multiformi suoi aspetti, parla altamente alla semplice intelligenza del buon soldatino, come all’intelligenza dotta dell’ufficiale. La maestà delle rupi ergentisi al cielo come baluardi ciclopici, i laghetti azzurri come occhi di fata, le raffiche di brezze aromatiche che vaporano dalle selve, le nubi e le nebbie che si stendono e si ritirano nella policromia della madreperla, toccano l’anima e le parlano come solo sanno parlare le opere che sono eco diretta della voce creatrice di Dio.

Ma la parola più educatrice della montagna risuona quando tutta si incappuccia come leggendaria fata nell’ermellino delle nevi invernali. Nei primi giorni del settembre la neve sfiora tutte le vette ed imbianca le brune baracche, e scende, a poco a poco, sino alle più basse valli. Un tempo ella era la graziosa inseguitrice del pastore che davanti a lei fuggiva vinto, abbandonandole passo per passo i già verdi pascoli estivi: invece il nostro soldato non si dava vinto, e benchè le sue baracche rimanessero seppellite interamente sotto il bianco elemento, egli rimaneva là a scavarsi nuove trincee di neve e a sfidare le tormente più aspre e i geli più rigidi.

Chi mai avrebbe potuto supporre che i figli della dolce /75/ Italia, tutta lieta di fiori e di tepide brezze, potessero diventare gli abitatori degli immensi deserti di neve e di ghiaccio? Pareva quello, un eroismo possibile solo a quei cenobiti, che per carità verso il prossimo si uccidono nel clima polare del Gran S. Bernardo. Eppure, i figli delle terre infocate del Vesuvio e dell’Etna, questi giovanetti che un giorno si tappavano in casa, raffreddati e febbricitanti per un’occasionale nevicata, sono rimasti a sfidare le tempeste più orribili che la terra conosca sull’immenso pianoro di ghiaccio eterno, sulle creste altissime, ove pareva venisse soppresso dal rigore della stagione ogni palpito di vita!

È impossibile rendere buona la propria vita, senza avere l’abitudine alla rinuncia della volontà personale e degli appetiti delle passioni. La virtù è dedizione e austerità e non può abitare nè con l’orgoglio, nè in una carne infrollita e cadente. L’educazione moderna è inetta a creare la virtù negli spiriti, appunto perchè è tutta sdolcinature e carezze.

Ma la vita del fronte fu una negazione perfetta di tutte le mollezze della nostra società. S’iniziava colla rinuncia alla propria volontà: la gioventù, abituata a tutte le sfrenate licenze, a seguire selvaggiamente gli istinti delle basse passioni, di tratto, come fiera caduta nelle mani del domatore, veniva arrestata dalla coscrizione militare, rinchiusa nelle uggiose caserme, vestita di uniforme e spedita, nell’età delle speranze, verso il regno della morte. Siamo ben lontani dall’approvare le anomalie di molti metodi: ma intanto constatiamo che da queste dure e talvolta crudeli severità, i nostri giovani potevano essere indotti a salutare correzione.

Al fronte non si viveva: si era mossi come strumenti nelle mani dell’artigiano, come piccoli pezzi di una colossale macchina d’acciaio. Il respiro stesso ci veniva misurato dai calcoli freddi del nemico e anche dei nostri capi, nelle cui mani stavano le sorti della nostra vita. Niente succedeva per libera elezione, ma tutto era esecuzione di ordini altrui.

/76/ Addio, letti soffici di piume sprimacciate dalle pie mani di amorose mammine! La nuda terra, il fango, i sassi, o per sommo lusso, una manciata di fieno ci serviva di giaciglio.

L’eterna gavetta di brodo, pasta e riso, e riso, pasta e brodo ha preso il posto delle vivante profumate, a cui usava un giorno fare le smorfie il nostro stanco appetito. La sete, in alcune zone carsiche, non si spenge che con acque stagnanti e scoli a cui, senza lo stimolo tremendo dell’arsura, si avrebbe schifo di appressare il piede, nonchè le labbra.

L’attillatura dei vestiti, i profumi e le pomate dei damerini, ahimè, sono scomparsi, lasciando subentrare il belletto del fango viscido che tinge da capo a piedi, e certi tormenti personali da cui non v’è scampo.

Tali esagerate imposizioni, tali privazioni, bastavano da sole a persuadere che la piccola austerità richiesta dalla virtù è ancor possibile. Approfittarono molti della grande lezione?

Ad ogni modo è giovevole constatare che fra mezzo alle rovine materiali e morali della guerra, qualche fiore vi poteva ancor trovare gli alimenti naturali, e che la virtù, anche nei cattivi, lasciò qualche ombra di sè, quasi felice punto vulnerabile, pel quale la grazia di Dio potrà aprirsi una breccia.

/77/

Bandiera di pace

La mattina del 29 aprile 1917, fui destato da un insolito parlottare che avveniva nella prossima cabina telefonica. Compresi tosto di che si trattava: nelle ultime ore della notte un posto avanzato era stato circondato e catturato di sorpresa dal nemico. Il ridottino, detto «La Duemilatredici» dalla sua altimetria, era situato sovra la Sella del Tonale, gettato troppo arditamente presso le trincee nemiche che distavano di qualche chilometro dalle nostre: vi si poteva solo accedere nel buio della notte, percorrendo un lungo sentiero sulla neve, parallelo e scoperto per lungo tratto alla trincea avversaria.

Quando io giunsi a quel punto della nostra linea, di dove si usciva sul predetto sentiero, s’udivano le grida dei feriti che dal luogo del combattimento imploravano soccorso: ma non era possibile correre in loro aiuto, perchè il nemico bersagliava incessantemente chiunque s’arrischiava di tentare la traversata.

Eppure urgeva portare il soccorso immediatamente: la vita di qualche ferito è condizionata alla prontezza della cura.

Fatto audace dalla necessità, lego il mio fazzoletto alla punta d’un alto bastone, e agitandolo verso il nemico, come bandiera di pace, m’incammino di corsa sul sentiero scoperto. Ad eccezione di qualche fucilata che non m’intimidì, non udii altri colpi nemici. Avevano compreso, i signori austriaci, il mio compito sacro? O non piuttosto credettero che io corressi ad arrendermi?

Il luogo del disastro portava tutte le tracce d’un combattimento atroce: fra la neve smossa e chiazzata di sangue, fra armi, munizioni e cartucce, v’erano morti e feriti appena sovvenuti da pochi camerati.

Baciai colle lagrime la salma ancor tiepida del tenente Longo, colpito alla gola da una bomba a mano, mentre affrontava il nemico sulla soglia del ridottino.

Qualche giorno prima, all’ultimo momento della partenza per la trincea, il bravo ufficiale, presagendo un sinistro, mi aveva parlato accoratamente della moglie e dei suoi teneri figliuoletti!

/78/ Un grido di speranza accolse il mio arrivo. Facciamo le prime medicazioni, e poi, formate con fucili e palette tre barelle per i feriti che reclamano immediato trasporto, usciamo sul sentiero del ritorno. Il doloroso convoglio era composto esclusivamente dei feriti, di sei portatori e del cappellano che camminava avanti portando la bianca bandiera. Appena gli austriaci osservarono il movimento, dalla soprastante cresta delle Alpi Paiole, iniziarono un fuoco di fucileria che ci accompagnò per più d’un’ora e rese sommamente difficile il pericoloso viaggio. Ripetutamente rivolto verso quei crudeli, io alzavo la mia bandiera, agitandola ed accennando alle barelle, dolorosa conseguenza della loro triste vittoria: ma essi rispondevano con raffiche più nutrite di pallottole, che ci fischiavano e miagolavano intorno.

Dovemmo scostarci dal sentiero troppo battuto e fare la strada a tratti frettolosi, cercando qualche sasso, dietro cui riparare. Il sole di mezzogiorno ammolliva le nevi, che cedevano improvvisamente sotto ai piedi, facendo barcollare e inciampare i portatori, e strappando, dalle carni lacere e dalle ossa spezzate dei feriti, grida di dolore esasperato. Al tenente Ricci, già ferito mortalmente, questo strapazzo fu fatale: mori poco dopo! Il tenente Scano, giovane sardo, ribollente di vita e di bontà, ebbe a soffrirne una vera agonia, e mi fece temere che chiudesse gli occhi prima di giungere alla trincea.

Gli austriaci continuavano a sparare. Quella ferocia non ebbe fine che dopo un paio d’ore, quando cioè ci fummo rapiti allo sguardo de! selvaggio nemico.

lo comprendo che l’accanimento inevitabile della mischia possa togliere il lume degli occhi e far velo anche al cuore: ma il fatto d’un cappellano, bersagliato freddamente e ostinatamente, mentre alla luce del sole reclama pietà per i suoi feriti, vittime della compiuta vittoria del nemico, mi pare assolutamente inammissibile, senza supporre un cuore di iena in quei disgraziati.

/79/

Ascensioni di sangue

Se l’attesa del pericolo supremo agiva quale potente forza d’elevazione, il pericolo non lasciava quelle creature senza sovrumane commozioni verso il bene.

Lo scatto all’assalto è la più tragica scena di guerra. Il fuoco accelerato dei cannoni che suonano confusamente a stormo e il sibilo di granate volanti, e il martellar delle mitraglie, e lo schianto delle tozze bombarde, e le scosse continue dell’aria e della terra e i lampi sinistri tolgono ogni parola alla massa di assalitori pigiati in un ridottino. Nessuno fiata: pare che immobile, coll’elmetto in capo e il fucile impugnato, ognuno ascolti il battito del proprio cuore. Sono momenti sacri.

Il cappellano, con voce tremante, dice l’ultima parola «Due raccomandazioni vi faccio, pel vostro bene, in questo momento supremo. Ubbidienza anche ai minimi cenni dei vostri capi: molti potrebbero perdere la vita per non ascoltare un ordine del proprio ufficiale. Poi, mettetevi nelle mani di Dio, domandandogli ancora il perdono di tutti i vostri peccati; ed io vi dò la santa assoluzione... E avanti con Dio! Per l’intercessione della Vergine e dei Santi, siate forti e siate salvi!».

Le lagrime spuntano e cadono abbondanti da molte ciglia.

Un ufficiale mi prende per le mani, e con tono di preghiera mi dice: «Padre, venga a dire due parole ai miei soldati, che stanno poco discosto».

V’è chi mi bisbiglia un’ultima confidenza, chi m’affida unoggetto caro e prezioso, chi mi prega di prender nota dell’indirizzo della sua famiglia, per farle pervenire la notizia degli eventuali sinistri. I miei taccuini sono pieni di queste firme, intercalate da frequenti impronte di pollici insanguinati, come di dolorosi suggelli.

Ma tutti si esprimono colle parole più brevi e sommessamente.

Si fissa l’orologio con maggior ansia; si osserva il tiro delle nostre artiglierie. Le vedette annunciano che il tiro è stato allungato sul rovescio delle posizioni nemiche. L’ora fissata /80/ scocca: abbracci, baci, strette di mano... un’ultima parola, un augurio, una preghiera, una benedizione, e si balza dalla trincea, si valicano i reticolati e si vola contro il nemico.

L’opera efficace di distruzione della nostra artiglieria, la lestezza degli assalitori, tengono la maggior parte nell’efficenza del successo; ma nella capricciosa sorte della battaglia, che per un nonnulla può riuscire piegata a un termine opposto a tutti i calcoli e a tutte le previsioni, bisogna vedere la mano d’una Provvidenza Divina, che dà la vittoria o la sconfitta, la vita o la morte. Una sola mitraglia nemica, negletta dagli as[sa]litori, può sembrare strumento della vendetta divina, e annientare un battaglione sull’orlo della vittoria. Non sempre e neppure di frequente ci siamo meritato il favore del Cielo!

Prima ancora che le ondate d’assalto balzino dalle nostre trincee, vi sono dei colpiti: dopo lo sbalzo, poi, ve n’è sempre in grande abbondanza.

Il primo soccorso ai feriti è dato dal cappellano. I comandanti, nel momento dell’assalto, non sono preoccupati che dell’esito dell’operazione: ogni altra cosa pare loro estranea. I camerati non possono dare che un aiuto assai effimero, perchè è fatta loro proibizione di sottrarsi, per qualunque motivo, dal combattere col nemico. I portaferiti sono quasi sempre troppo inferiori al bisogno, e pel numero esiguo e per la mancanza di qualità morali e dello spirito di sacrificio richiesto ella loro missione: parecchi disertano dai campi più pericolosi e più bisognosi del soccorso; altri pure s’imboscano vigliaccamente in qualche sicuro anfratto. I medici hanno lavoro, a cui non bastano, nell’operare i feriti più gravi che vengono loro portati nei primi posti di medicazione, riparati il meglio possibile dal tumulto del combattimento.

Dunque al primo conforto dei feriti e dei morenti non v’è persona più adatta del cappellano.

È vero che il posto assegnatogli ufficialmente pel tempo di combattimento era il posto di medicazione reggimentale, dove confluivano i feriti dai diversi punti della linea. La carità verso i soldati, il loro bisogno spirituale, il consiglio dei superiori dovevano suggerirgli volta per volta se fosse conveniente restare al posto ufficiale, o non piuttosto spingersi /81/ avanti sul terreno della vera zuffa. Normalmente nel portarsi avanti il suo ministero acquistava molti vantaggi, poichè molti morivano sul campo, mentre che la maggior parte dei feriti, sopravissuti fino al posto di medicazione reggimentale, si conservavano almeno sino alla prossima sezione di sanità, dove potevano avere ogni assistenza spirituale. Inoltre, la presenza del sacerdote sull’estremo campo di battaglia era un fattore morale d’eccezionale valore per i nostri combattenti; era tale consolazione per loro, che di essa non si potevano privare se non per altri non meno impellenti motivi.

Fra gli arditi, che nulla stimavano meglio del coraggio e nulla più disprezzavano della codardia, era una vera necessità morale portarsi con le prime ondate d’assalto, con le pattuglie stesse di punta, dovunque v’era un pericolo maggiore di morte. Tornava dolce assai sentire, talvolta, qualche fiamma nera mormorare al cappellano: «Padre, ora stia indietro; non si arrischi con la nostra pattuglia; perchè il pericolo è troppo grave». E non meno dolce era potergli rispondere: «Figliuolo, ci sei tu e quindi ci posso stare anch’io in questo pericolo; la mia vita non è più preziosa della tua. Ma Iddio ci scamperà tutti». Questa risposta era la chiave di quei cuori: con essa noi potevamo entrarvi ed esserne i padroni assoluti.

Tutto, adunque, porta il sacerdote in mezzo ai suoi soldati, nel furore della mischia. Però egli non è un combattente, e non può mostrarsi tale che a scapito sommo del suo ministero. Sua unica arma è la piccola Croce, che porge al bacio dei morenti.

Il campo di battaglia diventa un carnaio orribile, un inferno risonante di altissime grida di disperazione e d’invocazione: gli urli, le bestemmie e le preghiere sono più laceranti degli schianti fragorosi. Gli scoppi che frantumano i sassi, fendono i reticolati e tutto tritano, diluviando sulla carne umana la sfregiano, la maciullano selvaggiamente. I colpiti sono stesi a terra nelle pose più strane, come li ha abbandonati il colpo feritore: alle volte con le membra seppellite nel terriccio e nelle schegge taglienti, alle volte carbonizzati dalla vampa di scoppio e coperti di cenere. Chi è rimasto irrigidito sul colpo; chi non dà più segni di vita, nè pare morto; chi giace prono /82/ a terra mormorando l’ultime impercettibili parole. Qualche forsennato, cogli occhi fuori dell’orbita e la schiuma alla bocca, mi fa cenni disperati, e mi lancia grida che paiono insulti.

Altri colpi piombano a rimescolare quel caos di strage, a crivellare orrendamente quella carne già morta o morente.

«Cappellano, cappellano, mi salvi. Aiuto, aiuto!», risuona da tutte le parti: ma l’invocazione più comune è questa: «Mamma, mamma!».

Chi potrà, allora, su quel campo selvaggio, tener le veci della madre, se non il sacerdote che dal Cristo ha imparato ad amare nella fortezza e nella delicatezza materna?

lo corro da un agonizzante all’altro; porgo al bacio supremo l’effigie del Re dei martiri; amministro con la formola brevissima, l’estrema unzione; mormoro parole di consolazione; suggerisco le più ferventi orazioni giaculatorie, fasciando, tappando zampilli di sangue, sollecitando e aiutando i trasporti.

Se è vero che la disperazione spreme bestemmie da qualche incosciente e delirante, non mancano però le grandi testimonianze della pazienza cristiana e dell’eroismo religioso.

«Mi lasci, mi lasci; io reggo ancora. Porti via quel poveretto, che sta peggio assai di me» – dice un giovane con una coscia squarciata, al quale io sono accorso, giudicandolo in condizione pessima; ma la sua carità è più forte dello spasimo, che pure deve bruciargli acutamente la ferita.

«Cappellano, i miei soldati, i miei soldati... salvameli» – mi urla un tenentino, dal petto fiaccato e dalla bocca piena di sangue.

«Dia anche a me l’olio santo, che almeno possa morire da cristiano» – mi sussurra un caporale, reggendosi con le mani i visceri filanti sangue e cadenti dal ventre aperto.

«Preghi per me! – mormora e rantola flebilmente un omettino, che l’emorragia copiosa da una spalla maciullata ha già reso pallido cadaverico: – preghi per me che non posso più pregare».

Molti urlano: «Cappellano, reverendo, signor tenente, non mi abbandoni: Lei almeno mi resti vicino».

/83/

Immolazioni serene

La notte fu rotta da un solo allarme provocato da una pattuglia nemica, che subito venne fugata.

Nella luce rosea dell’alba seguente ronzavano numerosi aeroplani tricolori, mentre le Fiamme Nere si preparavano a balzare nuovamente dall’argine, per snidare il nemico dalle posizioni che aveva abbandonate il giorno avanti. L’operazione fu tanto efficace quanto veloce: ma ci costò alcune dolorosissime perdite.

Il ventotto ottobre è una delle più memorabili date del nostro reparto, pel ricordo del caro sangue versato colla serenità grandiosa dei martiri. Credo che non dispiacerà ai lettori ch’io racconti qui alcuni eroici sacrifici.

Il primo caduto di quel giorno è il tenente Attilio Bonansinga. Stava al reparto da otto mesi: v’era giunto da Altino, mentre fervevano le speranze di prossime azioni. Subito parve meravigliosamente accordato con quella nostra milizia vivace e ardente, come fosse dei più anziani, poichè portava nell’animo le tre fiamme dell’ardito: giovinezza, amore ed entusiasmo.

Aveva nel viso la più fresca primavera: i grandi occhi neri riflettevano la bontà d’un’anima quasi infantile: era un ragazzo pieno d’ingenuità e di schiettezza, ma talvolta tra quelle gioconde fantasie il suo pensiero saliva ad alte e mature comprensioni.

Parlava della mamma e della famiglia con l’accoramento del collegiale che non è ancora avvezzo alla lontananza dei suoi cari. Quanto all’amor di Patria egli aveva avuto le migliori lezioni; poichè aveva trascorso la sua infanzia all’estero, in Francia, ove aveva sentito più forte il desiderio della sua Italia. I piccoli affetti con la lontananza scompaiono, ma i grandi si radicano più forte nell’anima. La Costa d’Azzurro e la bianca Cètte (non Cétte) città della costa francese; nel 1928 fu ufficializzata la grafia Sète Regina delle Puglie: Bari Cétte, appollaiata sui verdi monti della Provenza, /84/ non gli avevano fatto dimenticare il suo glauco Adriatico nè la candida regina delle Puglie.

Scoppiata la guerra si arruolò diciottenne tra i bersaglieri e corse al fronte colle piume in testa e l’entusiasmo in cuore. Ferito una prima volta, ritornò presto al Battaglione d’Assalto. Nel giugno ebbe una seconda ferita e una seconda proposta di ricompensa. Lo rivedemmo presto al reparto; lo salutammo Aiutante Maggiore.

Era forse il primo fra quella schiera di ufficiali giovanetti che, punti dalla nostalgìa della famiglia, si avvicinavano di più al Cappellano per bisogno di tenerezza.

L’astro della sua vita, come per tutti i nostri militari ventenni, era la fidanzata, per dolce incitamento della quale aveva ripreso le pratiche religiose. Teneva con lei una corrispondenza tanto intima ed elevata che non si potevano leggere quelle lettere senza commozione. Cito due brani di queste, e le cito perchè furono già pubblicate, molto a proposito, in una piccola memoria stampata pei suoi funerali:

«Noi Arditi l’abbiamo giurato: o vittoria o morte. E Iddio giusto, che conosce i sacrosanti diritti delle nostre aspirazioni, con certezza esaudirà i nostri ardenti voti. Trieste sarà nostra e il cielo benedirà l’Italia fatta più grande, più una, sia pure a mezzo del nostro giovane latin sangue».

«Dubitare della vittoria è follìa con Arditi di simil tempra. Noi tutti siamo pronti a dare tutto pel solo bene della Patria. Il Signore premierà i nostri sacrifici o in vita o in morte. Mi sarà serbata la dolce consolazione di vedere avverato il mio sogno?».

Purtroppo la gioia sperata non gli fu concessa: alla mattina del ventotto, mentre dietro l’argine si preparava all’assalto, una piccola granata gli scoppiò all’altezza della gola lacerandogli le vene. Lo rialzammo subito, ma i suoi begli occhi, chiusi per sempre alla terra, già erano immersi nella lucente felicità degli eroi.

/85/ Poco dopo la morte del tenente Bonansinga venne colpito gravemente il maggiore Riccardo Fedozzi, comandante del battaglione.

Nessuno di noi, che lo conoscemmo, lo dimenticherà mai... Egli era veramente il padre degli Arditi: in cinque mesi di permanenza tra di noi ci apparve sempre l’uomo degno di starci innanzi come l’esempio più bello del valore e della bontà. La sua nera barba patriarcale, lo sguardo dolcemente penetrante erano popolari al reparto. Egli amava i suoi ufficiali e i suoi Arditi. Non lo circondava quel rispetto timoroso che destano quasi sempre i comandanti: l’affabilità quasi borghese e familiare del suo tratto gli otteneva l’obbedienza più pronta. A lui ognuno poteva manifestare senza reticenze le vedute ed i bisogni particolari, certo d’essere compreso. Aveva l’arte delle correzioni giuste, calme ed efficaci: non puniva se non in casi estremi e sapeva difendere i suoi dipendenti quando la giustizia lo reclamava, anche di fronte alle autorità superiori. Talvolta girava attorno ad un ufficiale o soldato parecchio, e accortosi che non era il tempo opportuno, si ritirava e attendeva l’ora propizia per fare con serenità paterna quegli ammonimenti che rendevano sempre migliori. Si dava conto egli stesso delle azioni che il battaglione doveva eseguire: e quando rilevava che forse il sangue dei suoi Arditi sarebbe stato sparso senza degni frutti, trovava sempre la via di migliorare il piano delle operazioni.

Gli Arditi che videro il suo coraggio durante l’offensiva del giugno, parlavano del loro Maggiore come di un vero eroe. Nell’offensiva d’ottobre era sempre rimasto in testa al suo battaglione: anzi eseguì personalmente qualche pattuglia di somma importanza e di grande pericolo, per la quale avrebbe potuto servirsi di un dipendente: la sua coscienza però non glielo permetteva.

Al mattino del ventotto era uscito all’attacco in testa alle compagnie e le dirigeva verso una casa da espugnarsi, quando una pallottola di mitraglia gli trapassò l’addome. Si piegò leggermente senza cadere, indicando ancora ai combattenti l’obbiettivo dell’azione, poi chiese una barella. Lo accompa- /86/ gnai al vicino posto di medicazione, ove constatammo la gravità della ferita: aveva l’intestino aperto.

Calmo e sereno mi consegnò le carte e gli ordini da rimettersi al suo successore, e scambiando i miei auguri con parole d’incitamento per tutto il reparto, sollevato sulla barella, fu portato via da quattro Arditi...

Lo rividi all’indomani in una brevissima visita, disteso sul bianco letticciuolo dell’ospedale di Carbonara. Era stato operato, quindi doveva rimanere in perfetta quiete. Il pallore della fronte era uguale alla bianchezza delle lenzuola. Aprì gli occhi, mi guardò, sorrise e mi disse con un fil di voce:

«E i nostri Arditi?».

«Vanno avanti, si fanno onore con poche perdite».

Abbassò le palpebre e sorrise ancora in segno di compiacenza. Ma i suoi occhi si accoravano di nostalgìa.

Alcuni giorni dopo, quando già stavamo a Podgora, presso Gorizia, ci giunse la terribile novella. Non volevamo crederla, ma quando il tenente Orelli ci assicurò di aver assistito al funerale e di aver deposto sulla tomba una ghirlanda di fiori a nome degli ufficiali, non vi fu più dubbio.

Il dolore immenso della sua perdita ci fece sentire la grandezza del bene che gli volevamo.

Altro sangue si sparse in quel giorno: il tenente Felice Galanti ebbe una pallottola di shrapnel nella schiena: il tenente Luigi Gigliotti, calabrese, fu malconcio da una dozzina di ferite, nell’affrontare un nido di mitragliatrici che ci dettero grande fastidio: dal mattino alla sera si dovettero accerchiare e attaccare, con tutti i nostri mezzi, le case trincerate dai gruppi di mitraglieri. Verso sera una di queste difese era ancora attiva e minacciava seriamente la nostra quiete notturna: parecchi assalti s’erano spezzati contro il baluardo che resisteva e rispondeva con raffiche di estrema violenza. Esponendo il caso al Generale comandante del settore, otteniamo la cooperazione di un cannoncino da montagna. I bravi arti- /87/ glieri vengono a portare il pezzo e le munizioni fin sulla nostra linea avanzata, orgogliosi di prestar mano alle Fiamme Nere. Dopo pochi colpi i formidabili difensori si affacciano alle porte e alle finestre alzando le mani per arrendersi.

Interrogai i prigionieri se nella casa fossero rimasti dei feriti e mi risposero che ve n’erano due. Avrei voluto andare a raccoglierli subito, ma il giovane, intelligente capitano Marchesani mi sconsigliò di portarmi di notte in un terreno sconosciuto e soggetto ad agguati nemici.

Nella prima luce del mattino seguente (ventinove ottobre) con due arditi di fiducia andai a soccorrere i due feriti e li trovai in cattive condizioni. Faccio loro comprendere che io sono sacerdote, e quindi fascio ad uno le gambe e all’altro il torace e li adagio sovra certe coperte che trovo sul posto. Ho appena terminata l’opera pietosa che rialzandomi, mi vedo attorno, alla distanza di quaranta o cinquanta metri, delle facce austriache, incorniciate nei caschi, che mi guardano tra i rami, e poi s’avanzano nella mia direzione. Non posso credere a quello che vedo: ma constatando che quelli sono austriaci in carne ed ossa, ordino a mezza bocca ai miei due arditi di tenere il moschetto in posizione di sparo; poi grido ad essi di arrestarsi e faccio cenno che sto medicando i loro compagni. Quelli si fermano, guardano con occhi spalancati.

Fatto audace da quella insperata prima vittoria, grido: «Le mani in alto e avanti per due», e quelli si guardano in viso e poi lentamente alzano le mani e vengono verso di me a due a due, facendo grandi inchini e gettando gli occhi senza compassione sui due feriti che gemevano pietosamente. Sono una trentina e paiono assai più felici di arrendersi che io di catturarli. Si fermano allineati a coppie, discoste pochi passi l’una dall’altra, sempre colle braccia in alto, impalati come statue. Quando sono giunti tutti, ordino agli ultimi di raccogliere i compagni feriti e di portarli con noi, all’ospedale, ma quelli si scusano adducendomi ragioni che io non comprendo che dai gesti: dicevano di essere stanchi... di non poter far fatica... allora prendo una verga e con quella li minaccio. L’argomento è persuasivo, onde danno mano alle cocche delle coperte su cui stanno i compagni e s’avviano. Ma /88/ tanto malamente strascinano quei poveri disgraziati, che i feriti gettano grida disperate ad ogni urto.

Ecco, noi italiani avevamo avuto il sonno turbato al pensiero di due feriti nemici rimasti senza soccorso, ed eravamo andati alla loro ricerca col pericolo della nostra vita stessa; ed essi, gli austriaci, erano crudeli perfino coi loro fratelli morenti!

/89/

L’ultimo giorno

Nella regione del Montello l’armata interalleata aveva passato il Piave e liberato parecchi paesi; era venuta l’ora di azione anche per la Terza Armata. Da tre giorni mi trovavo sulla sponda sinistra del fiume di fronte alle Grave di Papadopoli con l’undicesimo reparto d’assalto che formava l’estrema destra dell’armata internazionale.

Lasciai quel magnifico battaglione con la promessa di tornare presto, e mi portai al Comando della Terza Armata per avere indicazioni precise sulla dislocazione degli altri reparti; poi mi portai nella trincea dove stava appostato il ventottesimo battaglione. Vi giunsi verso le quattro del mattino del giorno 30 ottobre e il capitano Costa con l’Aiutante Maggiore si avviavano alle compagnie sonnecchianti nelle trincee di partenza. Nei pochi giorni che il battaglione era stato in linea aveva subito numerose perdite: di fronte stava un nemico ben munito e ancora aggressivo, onde gli ufficiali nostri mi parvero assai perplessi sull’esito dell’azione. Cercai di sollevarli a migliori speranze col racconto delle belle vittorie cui avevo assistito nei giorni precedenti.

È bene che tutti in Italia e fuori sappiano che l’ultima vittoria non si ottenne su un nemico o fiacco o fuggiasco: se è vero che negli ultimi giorni l’esercito austriaco scompaginato arretrò, nei primi sostenne con vigoria feroce l’impeto dei nostri assalti, si oppose ad essi in ogni modo, violentemente contrattaccando: la vittoria fu bella perchè fu dura.

Il racconto di ciò che io vidi in quella memoranda giornata del 30 ottobre è una piccola onesta testimonianza di questa verità. I fatti ai quali fui presente sono presso a poco simili a tutti quelli che avvennero su tutta la vasta linea di attacco. Dal Trentino al mare in quei giorni non ci fu che mirabile valore.

Alle cinque precise ebbe inizio il bombardamento: ma a dire il vero non era cosi nutrito come noi l’avremmo desiderato. Alle sei si dovevano varare le imbarcazioni e traghettare, ma il fuoco di reazione delle bombarde e mitragliatrici /90/ nemiche sulle nostre linee protrasse di oltre mezz’ora l’operazione: di modo che si scopersero all’alba i tre scali da cui doveva partire ciascuna compagnia del reparto. Parecchi ufficiali e soldati furono presi sotto quei tiri fatalmente aggiustati; il tenente Novelli fu colpito mentre con attivissimo ardire spingeva i pontieri al varo. Là pure fu ferito il capitano Petri.

Traghettai col capitano Costa nella imbarcazione di mezzo: la nostra barca passò tra le colonne d’acqua sollevate dalle bombarde nemiche che scoppiavano nel fiume. Quando fummo al di là, un fischio del capitano raccolse la compagnia. Un nugolo di Il petardo Thévenot era il tipo di bomba a mano più usato dal corpo degli Arditi petardi vola dalle mani e cade sull’argine, ove d’un solo sbalzo arrivano gli Arditi sorprendendo gli austriaci che gettano le armi e alzano le braccia. Alcuni, trincerati nei baracchini tentano una inutile disperata difesa; petardi e lanciafiamme li riducono all’impotenza. La prima compagnia occupa la trincea avversaria: appena abbiamo tempo di fare la constatazione gloriosa, un sorriso ci sale sulle labbra e nel cuore si distende una soddisfazione così larga e profonda che non ci pareva potersene godere delle migliori nella vita.

V’erano sui fianchi parecchie mitragliatrici avversarie che vomitavano piombo e le pallottole ci fischiavano alle orecchie ma non turbavano in noi la certezza del possesso della trincea. Intanto si avanzava leggermente a pattuglie; dalle erbe selvaggie e dalle foglie ormai ingiallite dei gelsi si sollevavano lievi vapori che i primi raggi del sole andavano sciogliendo nell’aria: le ombre caute degli arditi strisciavano. Si udiva nel grande silenzio cadere dai rami toccati la brina notturna.

Occupata la strada che corre parallela all’argine da Romanziol a Sabionera, ci fermiamo nel fosso ove distribuisco un po’ di sigarette.

Le pallottole fischiano ancora basse basse sul nostro capo, ma noi continuiamo a discorrere sotto voce con grande allegria, consumando le buone «macedonia». Cerchiamo il collegamento delle estremità colle compagnie che avrebbero dovuto trovarsi sui nostri fianchi. Sulla destra ci aveva raggiunto la seconda, ma ohimè! in quali condizioni: aveva perduto tutti gli ufficiali e buona parte della truppa. Il tenente /91/ Nadalini, il gentile e delicato bolognese, è morto! Pure il tenente Priano, l’artista dall’anima infantile, ha lasciato il suo gran corpo colle membra che parevano modellate da Michelangelo davanti a un nido di mitragliatrici. Il padre del Priano, cui la guerra aveva strappato gli altri due figli, ci aveva chiesto qualche giorno avanti notizie dell’unico sopravvivente, e la nostra lettera, scritta prima del trenta, per rassicurarlo sulla sorte del figlio, gli giunse dopo il triste fatto. Egli, ignaro della disgrazia, ci ringraziò con parole che ci fecero piangere.

Più triste era la condizione della compagnia di sinistra. Invano io la cercai tra le macchie che stavano da quella parte; ci rimisi il mio povero attendente che, spintosi dieci passi più avanti di me, fu portato via dagli austriaci colà appiattati, lasciandomi tuttora incerto sulla sorte sua.

Invitato dal comandante del reparto a seguirlo, riprendemmo da soli a percorrere la via che avevamo fatto nell’avanzata, dirigendoci all’argine: ma un gruppo di austriaci che aveva notato il nostro movimento, alla distanza di trecento metri fece una scarica di fucileria: ci buttiamo a terra e dopo poco ci rialziamo, ma non facciamo pochi passi che sentiamo nuovi colpi più vicini. Ci stendiamo nuovamente: il capitano riesce a mala pena a trovare nel fondo delle tasche due petardi, buoni per una difesa disperata. Per nostra fortuna incontriamo un ardito dal quale egli si fa prestare il moschetto che scarica contro i disturbatori. Possiamo fare ancora alcuni passi, ma costretti nuovamente a rifugiarci in un fosso, teniamo nuovamente lontani gli assalitori con alcune moschettate. Così, sparacchiando a vicenda, con altre due o tre tappe raggiungiamo l’argine e andiamo a trovare i resti della terza compagnia, che stavano aggrappati ai giunchi del greto del fiume. Essendo riuscito vano l’attacco contro le mitragliatrici appostate sull’argine, erano stati ributtati lasciando disseminati pel terreno morti e feriti: non vi rimaneva che un solo ufficiale, il tenente Zaccarini, e anch’esso contuso.

Là potei consolare molti feriti e curare il traghetto dei più gravi, i quali passarono fra le granate e le bombarde che il nemico non si stancava di gettare contro gli approdi. Allora solo ci rendemmo conto della gravità della situazione. Le /92/ due ali nemiche non avevano ceduto, anzi si erano rafforzate di mitragliatrici che spazzavano a ventaglio: le nostre due compagnie avanzate potevano, a tutto agio del nemico, essere chiuse fra le due formidabili prese della morsa e venire attaccate da tutte le parti. Infatti, bersagliate di bombarde e mitraglia, dovettero abbandonare le posizioni sulle quali le avevamo lasciate: parte si spinse avanti col tenente Fulmini e parte ritornò all’argine.

Dopo alcune ore di consiglio col comandante di un reggimento che allora tentava il traghetto, ci fu ordinato di raggiungere e ristabilire la linea occupata nel mattino. Con un cenno raccogliamo le Fiamme Nere, risaliamo l’argine e, in fila indiana, ritorniamo nel fosso di dove eravamo partiti.

Degli ufficiali non v’era rimasto che il comandante e il cappellano: degli altri si sapeva solo che erano feriti o morti. Un ardito mi offrì una scatoletta di carne e un pezzo di galletta che divisi col capitano bevendoci sopra un sorso di acqua fangosa. Il capitano, col suo berrettino in capo, senza elmetto, conservava la solita allegria.

Con qualche ardito ci spingemmo avanti cautamente, senza trovare collegamento con quelli che avevano seguito il tenente Fulmini. Incontrai invece fra le macerie di una casa un soldato dalle gambe spezzate, il quale, appena mi vide, voleva consegnarmi il portafoglio pregandomi di farlo pervenire alla famiglia: accettava la morte con la rassegnazione d’un santo, ma io lo persuasi a lasciarsi trasportare. Adagiato su un asse lo portammo per un pezzo, ma quando mi allontanai per cercare un laccio onde arrestargli l’emorragia, fu tale una scarica di granate attorno a quell’infelice che il violento spostamento d’aria lo uccise.

La nuova linea venne fatta segno a un bombardamento feroce: il capitano diè ordine di retrocedere di quindici passi: ma il nemico pure ci veniva col tiro rendendo impossibile ogni ulteriore occupazione. Allora ci toccò retrocedere all’argine. Quando all’ordine del comandante gli arditi si alzarono, si udì il gracidio sordo delle mitragliatrici che da quattro parti, davanti e di dietro, falciavano tutto il campo. Vidi un uomo che ci rincorreva di dietro alzando le mani. I soldati mormorarono: /93/ «Un austriaco». Io lo guardo attentamente e vedendogli il viso insanguinato, mi fermo: era un ardito contuso e sfigurato che a mala pena era uscito dalla terra in cui l’aveva immerso una bombarda. Un pietoso compagno mi aiuta a strascinarlo fino all’argine, ma là giunto, anche questi viene colpito da una pallottola esplosiva che gli lacera orribilmente una coscia. In quel mentre scorgo degli austriaci alzarsi, agitare le braccia da quel punto dell’argine dove essi avevano costituito il loro caposaldo di destra. «Si arrendono, si arrendono», gridano gli arditi e si lanciano in massa verso quella parte. Ma gli austriaci di tratto scompaiono e fanno scattare le mitragliatrici contro la massa dei soldati che avevano creduto all’orribile inganno. Mi assicurarono poi molti feriti nostri che quei crudeli traditori d’ogni legge si alzarono nuovamente sulla trincea a sghignazzare contro i lamenti degli italiani.

Vi sono dei momenti tragici in cui anche l’anima dell’ardito si sente scossa. In quel punto io mi vidi perduto, e avrei preferito la morte piuttosto che assistere a tutto quello strazio della nostra carne sanguinante. Bisognerebbe non avere amato con cuore di fratello per assistere ai patimenti atroci di questi ammirabili giovani pronti ad ogni immolazione, ubbidienti sino alla morte, senza sentirsi l’anima divisa da una profonda ferita che non si chiuderà mai, campassi anche mille anni! Il Cielo mi sorresse e mi diè la forza di compire la mia amara giornata!

Sull’imbrunire traghettai il Piave e corsi a vedere il medico tenente Pagani, il quale pure aveva avuto il suo lavoro! Ritornai più tardi sul campo e colla guida amorosa di un bravo ardito genovese potei rintracciare il battaglione disteso in giro alle posizioni del giorno. Quei bravi arditi che avevano passato l’intera giornata in mezzo ai più aspri pericoli e che allora riposavano accosciati in un fosso e facevano il turno di vedetta a stomaco vuoto, colle membra irrigidite dall’umida brezza notturna, mi commossero fino alle lagrime! Quanto sono buoni e cari questi giovani figli d’Italia, ardenti come il fuoco e pure in fondo dolci come bambini! Con gran piacere salutai il tenente Fulmini che, senza giubba, batteva i denti; alcuni ungheresi l’avevano afferrato per il colletto ed egli lasciò loro la giubba tra le mani e si aprì la via col pugnale.

/94/ La notte calma e stellata in cielo, fu pure tranquilla in terra: non si udì una fucilata.

Il nemico aveva fortemente reagito il giorno innanzi par prepararsi la fuga notturna. Infatti al mattino il battaglione in capo alle brigate prese la rincorsa verso la Livenza. Gli arditi avevano le ali al piede.

Arrivai con una pattuglia di punta nel paese di Cavalieri la popolazione ci corse incontro piangendo ed abbracciandoci, e malediva ai barbari oppressori raccontando più colle lagrime che colle parole le infinite sofferenze. Nel fondo del tascapane ritrovai qualche pezzo di cioccolata per i bambini, qualche mezzo toscano per gli uomini. Un ardito innalzò il tricolore sul campanile di dove tutto il giorno avanti avevan cantato le mitragliatrici austriache. Il parroco era assente, ma la buona perpetua, tutta festosa a noi e tutta ingiurie per quei «fioi de cani» che le avevano insozzata la casa, mi trovò un bicchier di vino, una fetta di polenta, e una coscia di pollo sfuggita alle ultime requisizioni degli ungheresi: ecco un banchetto che in quel momento mi parve di proporzioni omeriche.

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Croci sulle zolle

Nella fornace ardente della battaglia le vite venivano consunte e si scioglievano in una evanescenza crudele. Quale traccia di queste immolazioni infinite rimase sull’altare dell’olocausto? Le poche spanne di terreno conquistate da ogni soldato procombente contro il nemico, perdute e riconquistate e riperdute nell’ondeggiare della sorte della battaglia, sconvolte e scheggiate dal ferro, non ci dicono nulla di colui che le ricoprì della propria agonia, e che vi è scomparso poi come foglia secca rapita dal turbine, come spruzzo iridescente ringhiottito dall’oceano impassibile.

Unico segno dell’inestimabile sacrificio su quelle zolle consacrate è una piccola croce di legno che porta in fronte un nome, sciupato dal sole e dalle intemperie. L’immenso campo di battaglia è diventato un immenso cimitero, inghirlandato dagli umili segni della redenzione cristiana, ai quali resta affidato il pio ufficio di tramandare la memoria dei morti per la Patria.

Ogni salma deposta in quella terra ha la sua piccola croce.

Non si poteva dare ai tumuli insanguinati un sigillo più glorioso e più sacro di questo! Se nella placida quiete dei nostri cimiteri, tra i fiori e i marmi degli avelli domina l’insegna della fede, a maggior ragione essa doveva diventare il segno del sangue eroicamente sparso, degli occhi che si chiusero nella speranza di un premio celeste, unico premio proporzionato al proprio sacrifizio. Nulla può sostituire quelle piccole croci; monumento alcuno può emularne il significato prezioso e l’altissima eloquenza.

Le croci funerarie del campo divennero un argomento e un incitamento continuo alla religione; agli occhi dei superstiti delle tragiche battaglie esse cambiavano i tumuli dei compagni in veri calvari di immolazioni religiose e di mistiche speranze.

La morte, dominata dal segno cristiano, non sembrava più una fatalità esecranda, incitante alla disperazione e alle bestemmie, ma diventava il dolce sonno della risurrezione e fa- /96/ ceva pensare con santa nostalgìa alla luce perpetua e beatifica, nella quale esultano le anime dei nostri morti.

L’«oggi a me, domani a te», che ogni croce ripeteva ai superstiti non era un grido di disperazione, ma l’ammonimento salutare e dolce del morto al morituro, del fratello al fratello, era un dolce «arrivederci in Cielo». E questa voce placida e verace veniva ascoltata. Tra le fosse dei cimiteri di guerra rifioriva il culto e la speranza cristiana.

Molti estranei del fronte, visitatori profani che non sono vissuti nel crogiolo purificatore delle battaglie, odono uscire da quelle tombe implorazioni e incitamenti di vendetta; ma noi che siamo vissuti al fianco di quegli eroi e abbiamo raccolto l’ultimo rantolo della loro agonia, non vi sentiamo vaporare che un’essenza aromatica di virtù cristiana. L’apostolato religioso esercitato dai nostri morti è conosciuto da chi, colle mani ancor profumate dal sangue loro appena ricomposto nelle affrettate sepolture, accoglieva e rendeva lieve ai voli celesti l’anima dei compagni che avevano assistito al mesto ufficio.

A quelle fosse recenti mancarono le lacrime delle madri e il singhiozzo degli orfani. I parenti lontani vivevano nell’ansia continua, ma nulla sapevano della grave perdita appena avvenuta. Forse, nel giorno stesso del seppellimento, giungeva ancora a casa una lettera scritta dalla mano ormai morta per sempre, ma era l’ultima lettera: il giorno dopo e tutti i susseguenti, il postino non aveva più nulla per quella famiglia, che incominciava a sospettare di qualche sinistro. Se l’estinto, prima di morire aveva lasciato al cappellano l’indirizzo dei suoi cari, perchè fossero avvisati di qualunque sua disgrazia, il sacerdote scriveva alla famiglia; altrimenti doveva attendere di esserne richiesto per comunicare la notizia della morte. Nel compilare quelle lettere cercavamo di estrarre dal fondo del cuore le espressioni più soavi, ed avremmo voluto scriverle non coll’inchiostro, ma col nostro stesso sangue, per addolcire la tremenda notizia. Narravamo gli ultimi istanti, ripete- /97/ vamo le parole e i ricordi estremi, indicavamo il luogo preciso della sepoltura e tutti gli onori che si erano resi alla cara salma. E poi, allorchè ci tornavano le risposte, irrigate dal pianto inconsolabile delle madri, con le parole di desolazione delle spose e degli orfani, andavamo a prostrarci ancora su quelle tombe per interpretare con maggior commozione l’affetto delle persone care obbligate alla lontananza.

Le tombe dei nostri cari morti erano il luogo preferito, in cui l’animo nostro si sollevava e pareva quasi godere la conversazione di amici puri e veri, nella placida ospitalità della loro casa. Vi era tanta pace, e soprattutto tanto affetto fra quelle piccole tombe! Vi si respirava un’atmosfera di speranze celesti che dilatava il cuore, e gli dava l’illusione di vivere quasi nella diafana regione della luce perpetua.

La fede e la preghiera infrangono le barriere che separano i vivi dai morti e creano le dolci comunioni degli eletti.