P. Reginaldo Giuliani O. P.
Croce e Spada

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La Croce pur tanto amata dalla gente abissina, che ne ha fatto il suo vessillo, non potrà trionfare se non quando la Spada avrà tolto il potere dì nuocere a un’autorità che è lo zimbello del fanatismo e della superstizione.

Croce e spada in Eritrea

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Croce e spada in Eritrea

L’antico motto, già grido di guerra dei cavalieri iberici che liberarono la Spagna e l’Europa dalla Mezzaluna La Tizona è la spada del Cid Campeador «Tizona y Cruz» – Spada e Croce – è di pretta ispirazione latina, italica. Nessun’altra frase ha più concisamente condensata tutta la nostra cristiana civiltà. Per due millenni contro barbarie, vestita o di ferro e fuoco o di irriducibili e violente cocciutaggini mentali, la Croce incesse sul braccio dei pacifici apostoli, difesi all’avanguardia e alle spalle dai cavalieri che nell’idea cristiana attinsero valore ed eroismo, come altri pretese di vedervi un esclusivo e torbido pacifismo. Antichi e modernissimi combattenti efficacemente concorsero alla esaltazione della fede cattolica e con l’opera e con l’esempio.

Questo connubio di Croce e Spada, non errato in via di principio, non fittizio ed accidentale, ma confermato dalla nostra storia, pare rinato ora in quest’Africa Orientale, quasi un idillio della più autentica giovinezza fascista. Per spezzare la congiura ostinata di un sacerdozio decaduto nelle superstizioni più volgari, eppure strapotente, non è atta che la vindice spada. I vecchi missionari che consumaronsi nel micidiale clima equatoriale, videro il seme evangelico, gettato nella buona terra del docile popolo d’Abissinia, impedito ognora da insormontabili ostacoli politici suscitati dalla sorda opposizione dei /102/ Cascì (qäšši) “prete” in lingua tigrina Cascì. La Croce, pur tanto amata dalla gente abissina che ne ha fatto il suo vessillo, non potrà trionfare se non quando la Spada avrà tolto il potere di nuocere a un’autorità che è lo zimbello del fanatismo e della superstizione.

La evangelizzazione dell’Abissinia

Le origini del Cristianesimo in Abissinia risalgono ai primi secoli. I contatti che questa parte dell’Africa tenebrosa ha mantenuto in ogni tempo con l’Oriente ne facilitarono la evangelizzazione. Il Padre della fede è ritenuto quel grande monaco cattolico che fu San Frumenzio, che dagli Abissini oggi è ancora chiamato Abba Salàma, Padre della pace, o Kessatiè Birhan, mostrante luce. L’eresia copta degli Alessandrini non tardò a signoreggiare completamente questo popolo, che di natura sua è docile, e pare nato, come tutti i figli di Cam, per servire.

L’Abuna, o arcivescovo della capitale, è sempre uno straniero, un egiziano inviato dal patriarca copto di Alessandria.

Gli eretici, come gli infedeli, tentarono ininterrottamente lo zelo dell’apostolato cattolico, e quindi a riprese abbiamo gli amorosi successivi assalti dei missionari europei che il martirio del clima e dei tiranni non fece giammai indietreggiare alle porte dell’impero del Negus Neghesti.

I primi missionari europei dell’Abissinia
furono i domenicani

Il movimento cattolico iniziato dai grandi patriarchi medioevali San Francesco e San Domenico non fu rinchiuso nel bacino mediterraneo. I due fondatori, con la parola e con l’esempio lanciarono i loro figli agli estremi confini della terra. I primi Domenicani si gettarono con ardore ed ardire alla conquista della parte nordica dell’Europa e dell’Oriente.

Nel 1274 il patriarca dei Giacobiti: fedeli della Chiesa monofisita di Siria, fondata da Giacomo Baradeo nel VI secolo. Giacobiti in Gerusalemme aveva fatto l’abiura nelle mani di Fra Filippo, priore dei Domenicani /103/ di Terrasanta; e questo stesso neofita scriveva al papa Gregorio IX: «Abbiamo inviato dei nostri fratelli in Egitto al patriarca copto Abuna Kiorlos, e questo patriarca ci ha pure fatto intendere il desiderio di tornare alla vera fede». Queste buone disposizioni del patriarca copto di Alessandria potevano preludere ad una conversione in massa di tutta l’Abissinia.

Tutto ciò era frutto pure delle crociate: fra i militari insuccessi della prima crociata di S. Luigi, Re di Francia (1248-1252) si ebbero dei grandi successi nella espansione del cattolicismo fra i diversi riti separatisti di tutto l’Oriente. A Gerusalemme vi fu sempre una comunità di monaci abissini: a quel tempo essi fraternizzarono con i latini, e in modo particolare con i dotti Domenicani che snebbiarono la loro mente dagli antichi arzigogoli della malafede greca, di cui è tessuta la eresia monofisita. I monaci abissini si rivolsero al patriarca latino di Gerusalemme, chiamato Ignazio, che consacrò loro un vescovo siro, detto Abba Job, e lo inviò quale vicario apostolico in Abissinia.

I Domenicani non solo furono i promotori della elezione del vescovo siro, ma lo accompagnarono nella sua missione etiopica.

La Missione domenicana entrò nel Tigrè, regione che abbraccia tutta la nostra vecchia Colonia Eritrea e si estende ancora per altrettanta terra verso il Sud.

Il principe di questa regione si convertì facilmente, forse anche per volontà del Negus, che già era al corrente delle disposizioni del patriarca dei copti. I Domenicani «rovesciaron le cose nel paese», come dicono le antiche cronache, facendo sorgere dappertutto missioni cui affluivano i neri abissini simpatizzanti con i bianchi figli del Gusmano. Molti abissini entrarono nell’Ordine stesso: si moltiplicarono le case, e la leggenda parla di conventi domenicani in cui vivevano sin novecento religiosi etiopi. Si tratta forse di paesi interi viventi la piena vita cristiana, come nelle riduzioni americane descritte dal buon Muratori. Certo è che queste missioni fiorirono quant’altre mai. Oggi ancora si mostrano presso Debrè-Damo sui confini dell’Agamiè e dell’Achellè Guai le rovine /104/ della residenza del vescovo e dei Domenicani: così a Gulò-Mokadà, presso l’attuale forte «Cadorna», e a Dahnè nell’Agamie, le note rovine della chiesa domenicana detta Enda Ptòs. Non rimangono che ruine di questa che fu una delle pagine più belle della missionologia cattolica.

Troppo presto divampò la persecuzione su tanta fioritura.

Il Negus Iagba-Tsion (1283-1298), con i suoi cinque figli, fu il Nerone etiope, che con la solita politica di bandi, confische, proscrizioni e morte cercò di svellere dal paese ogni vestigio cattolico. A Neebi (Fekàda) i Domenicani furono tutti massacrati: così in tutte le residenze moltissimi Domenicani europei e abissini subirono il martirio per la fede.

Ciò nonostante le Missioni domenicane continuarono con periodi di una certa prosperità: sempre sotto la minaccia di qualche Negus persecutore e delle invasioni mussulmane. Nel secolo decimoquarto, e propriamente verso il 1329, il primo vescovo latino penetra in Abissinia, nella Nubia, nella persona di Fra Bartolomeo da Tivoli, domenicano.

Francescani, Gesuiti, Lazzaristi e Cappuccini evangelizzarono poi l’Abissinia e con essi i due grandi italiani, il cardinale Guglielmo Massaja, e il venerabile De Jacobis, la cui salma è composta onoratamente nelle ridenti verzure di Ebo, presso Seganeiti, importante centro cattolico, curato con zelo da due venerati Cappuccini piemontesi.

Oggi in Abissinia lavorano diverse congregazioni religiose. Il Vicariato apostolico dell’Eritrea è affidato a Cappuccini lombardi che nell’Asmara hanno costruita una magnifica cattedrale con annesso un non meno magnifico (ma, ahimè, sempre troppo angusto alla bisogna) «Ospizio dei meticci».

Lo zelo dei padri Lazzaristi francesi e dei Cappuccini italiani ha creato in Eritrea un clero indigeno cattolico, che conta oggi, oltre settanta sacerdoti. Ne è a capo un giovane prelato: Mons. Chidanè Mariam Cassa, dottissimo e gentilissimo, che ha la sua residenza in Asmara presso la cattedrale dei cattolici di rito etiopico.

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La costruzione della chiesa di Adi-Cajeh

Nel cuore dell’altipiano eritreo, a oltre cento chilometri dall’Asinara e ad una trentina di chilometri dal vecchio confine, sta appollaiata, su uno sperone, re delle sottoposte valli, la solatìa Adi-Cajeh, candida nelle sue poche casette, gialliccia nei molti «tukul», rossa nella argillosa terra che le ha appunto dato il nome tigrino di Adi-Cajeh, paese rosso. Sedici nazionali, compresi gli ufficiali del Presidio, ne formavano l’abituale popolazione italiana: molti sono i copti e i musulmani e un centinaio di cattolici indigeni. Ora, mentre i cattolici bianchi potevano adunarsi in una bella chiesina custodita con amore dal P. Pacifico da Caraglio, agli indigeni non era concesso pregare Iddio che in una miserabile stamberga, dove si erano rifugiati, dopo che (alcuni anni fa) era pure rovinato il piccolo «tukul» che per una cinquantina d’anni aveva servito quale chiesa comune dei bianchi e dei neri. I cattolici di Adi-Cajeh avevano pure avuto nel passato un altro tempio, costruito dal mai obliato Venerabile De Jacobis. Ma il Negus Joannes, in una scorreria anteriore alla nostra occupazione, l’aveva incendiato e ne aveva quindi consegnato le rovine ai cascì che lo fecere risorgere: e sinora rimane l’unica chiesa copta del paese.

Nei primi tempi della permanenza in Adi-Cajeh dei Battaglioni CC. NN. d’Eritrea mi resi conto dell’abbattimento dei poveri cattolici indigeni e specialmente del loro ottimo sacerdote, l’Abba Oeldè-Mariàm, e cercai di risolvere le difficoltà, che parevano insormontabili, per iniziare una costruzione qualsiasi. Ma come intraprendere un tal lavoro, mentre uomini e materiali sono tanto necessari per altri lavori? Mi incoraggiò il nuovo residente destinato ad Adi-Cajeh, principe Pignatelli, che poi fu tanto largo di soccorso.

Parlai con ingegneri e geometri, ma questi, con le loro lungaggini verbose, mi fecero comprendere niente altro che la verità del vecchio proverbio che «chi fa da sè fa per tre»: mi misi di buon animo a fare l’ingegnere, l’impresario e l’assistente edile. E con uguale coraggio leonino, feci tracciare nella seconda settimana di luglio, le fondamenta dall’unico /106/ muratore Camicia Nera, che riuscii, con arte, senza violare alcun ordine superiore, a portare sul luogo. Ma la mattina seguente, anche quel solo muratore mi mancò, e rimasi a meditare ed a pregare col buon Abba, sull’informe angolo appena nato.

Non tardò la Divina Provvidenza a venirci in aiuto: due bravi borghesi, messi a nostra disposizione dalla Società Italiana Costruzioni e Lavori Pubblici S.I.C.E.L.P., altri operai straordinari, un gruppetto di muratori indigeni, Tre assidue Camicie Nere concesse dal Comando dei miei Battaglioni alzarono in breve le muraglie di pietra dello spessore di sessanta centimetri.

L’opinione pubblica si mutò dinanzi al fatto: e avemmo aiuti insperati. Ricordo l’ottimo mio generale Filippo Diamanti, il signor generale Dalmazzo, che furono signorilmente larghi di ogni aiuto. Ricordo l’ingegnere A. Bandini, direttore generale della S.I.C.E.L.P., che fra l’altro offrì l’eternit per il tetto, e il direttore della stessa Società in Adi-Cajeh, ingegnere Ceroni, che fece eseguire una porta degna di una cattedrale, il tenente Paci del Genio Militare, mio antico, allievo all’Accademia Militare di Torino, che mai si mostrò seccato delle mie richieste insistenti.

Il fatto si è che la chiesina, che misura otto metri di ampiezza e circa venti di profondità, ed è il più vasto ambiente della regione, in un mese e mezzo fu compieta, con l’aggiunta di una casetta parrocchiale di tre bei vani, e di un campanile pure di pietra e cemento dell’altezza di dieci metri. Quest’ultimo costruito in meno di una settimana da una decina di giovani militi concessi, anche dopo la partenza dei Battaglioni da Adi-Cajeh, dalla generosità del mio generale. Sul campanile perciò una pietra porta l’iscrizione: «Camicie Nere d’Eritrea – Gruppo Generale Diamanti – 1935 - XIII».

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Il moretto bandiera

La mano d’opera degli operai indigeni e nazionali fu coadiuvata in maniera caratteristica da un folto gruppo di morettini, che raggiunsero sino il numero di quaranta, assoldati con diversa retribuzione ed il cui ufficio era portar sassi e calce.

Ai piccoli dai cinque ai dieci anni bastava una serale distribuzione di caramelle: per la quale dal mattino alla sera andavano e venivano portando sassi, ciascuno secondo la propria capacità. Ben è vero che sentivano sovente la mia voce imperiosa: «Càltifu... Amsè imnì – Presto, portate sassi». Ordine imparato a memoria dai nazionali.

Un muratore milite, di quella dolce Napoli che dà un sigillo perenne e inconfondibile, alle parole, ai gesti dei suoi figli, ripeteva fra l’ilarità dei moretti: «Caltfùtte, amsètta iminìtta».

I più grandicelli (da quattordici a sedici anni) erano impegnati in fatiche superiori e ricevevano uno stipendio che variava sulle dieci lire settimanali. Era però necessario abbondare in regalie, per coprire almeno le nudità più palesi. Quante paia di calzoncini abbiamo regalato!

Fra gli altri moretti vi era un ragazzetto non ancor quattordicenne, che mi parve la più pura espressione delle grazie abissine. Con un profilo strettamente semitico, nero quanto il carbone, slanciato e forte, l’orecchio destro traforato da due anelli, due occhioni candidi, furbi e buoni, pronto a buttarsi a terra a baciarti i piedi per ogni regaluccio, pronto agli impeti eppur dolcissimo. Portava un bel nome abissino: Ghebres Arcàn. A quindici chilometri distanti aveva lasciata la famiglia, a Senafè, ed era venuto in cerca di lavoro. Al termine della prima settimana, mi portò la moneta affinchè gliela conservassi: segno evidente che la sua fiducia in me era giunta al colmo per un abissino, che di natura sua è diffidente assai, in materia finanziaria.

Gli somministravo pel vitto una liretta al giorno: su cui egli faceva molti risparmi. Compresi una volta di più che la golosità non è il vizio predominante del popolo etiopico: che /108/ si accontenta di una piccola razione di burgutta (o pane cotto nella cenere) e per conseguenza non si nutre neppure a sufficenza, crescendo perciò debilitato di forze.

Ghebres Arcàn aveva bisogno di essere vestito come tanti altri: mi mostrava spesso i suoi cenci luridi implorandone la sostituzione. Gli comperai un paio di calzoncini verdi, una maglietta rossa e un bel «nesalà» o lenzuoletto bianco.

Quando fu rivestito dei tre colori, i compagni, che lo amavano, gli fecero gran festa intorno, ed egli tutto orgoglioso, volgendosi al donatore, proclamò fortemente: «Anè ifetuè talian – lo amo gli italiani».

Da allora Ghebres Arcàn fu detto da noi: il «moretto bandiera».

Gentile piccolo folletto, che rappresenti quella docilità vivace, quella fedeltà completa dei giovinetti del tuo sangue, virtù già notate nei commoventi episodi narrati dal cardinale Massaja, noi speriamo in te, negli innumerevoli fratellini abitanti al di qua e al di là del crollante confine, e sappiamo che Chiesa e Italia, madri amorose di popoli, riusciranno finalmente ad impedire l’inselvaticamento di tanta linfa vitale di bene che Dio pose nel cuore della gente d’Etiopia!

Nel giorno consacrato alla festa dell’Assunta (nel calendario abissino ogni festa è in ritardo di otto giorni dalle nostre) le fanciulle vestite a colori sgargianti, battendo il tamburello, andavan cantando per le vie di Adi-Cajeh: «Noi siamo vergini e la Madonna è vergine: e il Tigrè diventerà presto tutto italiano». Che la profezia si avveri presto e si amplifichi su tutta la terra d’Abissinia. Le anime pure l’aspettano, lo vogliono e lo proclamano.

I celesti protettori

Allorchè il progetto della costruzione della chiesa di Adi-Cajeh stava per naufragare sotto l’ondeggiare delle difficoltà, sorse in me il proposito di affidarne la riuscita alla intercessione di due Santi a me ugualmente cari: San Domenico, il Patriarca mio che suscitò i primi missionari dell’Abissinia, e /109/ il grande San Giovanni Bosco, il più recente dei Santi italiani, i cui figli potranno fare un gran bene alla gioventù abissina.

Feci voto di consacrare ad essi i due altari laterali della futura chiesa.

Oggi, con il patrocinio di questi due principi della santità, che di giorno in giorno si rese a noi ognor più evidente, il voto è compiuto. Nella penombra della bella chiesina il Sacro Cuore di Gesù tende le sue braccia dall’altar maggiore; ai suoi fianchi sorgono due altari con le pale su cui una Camicia Nera dipinse rispettivamente San Domenico che, pregando la Vergine, vede i suoi figli avviarsi verso i «tukul» d’Etiopia, e San Giovanni Bosco che si stringe al cuore un povero morettino.

Ci voleva proprio l’aiuto dei due grandi Santi a compire il miracolo di queste difficili ed affrettate costruzioni! E per esse il cappellano militare non ha per nulla cambiata la sua divisa in quella del puro missionario: Croce e Spada anche in questo caso continuarono a fiorire nel millenario idillio. E ciò, tanto più è vero, in quanto la costruzione di una chiesa da parte degli italiani, che non sono più quelli che sonnecchiavano massonicamente nella Colonia Eritrea sino a pochi anni fa, ha, presso questi popoli tanto diversamente eppure tanto profondamente religiosi, delle ripercussioni morali potentissime.

Mi si disse che in tutta la Colonia Eritrea, e al di là dei confini, si parlò con simpatia degli italiani, costruttori di chiese. Il capo dei Mussulmani di Adi-Cajeh fu a visitarmi durante la costruzione e mi disse: «Tutto questo è bene, perchè è per il Signore: e anch’io darò la mia offerta».

A chi oggi guarda i tre corpi di edifici e si meraviglia nel conoscere la brevità del tempo impiegato a costruirli, il cappellano sorridendo risponde: «Queste non son che le grandi manovre delle mie Camicie Nere. Questo non è che il progettino delle grandi cattedrali che siam pronti a costruire in Adua e in... Addis-Abebà».

Ottobre 1935-XIII.

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La marcia delle Camicie Nere
dei battaglioni eritrei
dalla frontiera al colli dell’Entisciò

Al Corpo d’Armata Indigeni, cui appartiene il gruppo dei nostri battaglioni, fu affidato un compito preponderante, benchè non appariscente, nel primo balzo sulle frontiere dell’Impero Etiopico.

Un triangolo tattico doveva conficcarsi nel colosso: i due Corpi d’Armata nazionali marcianti su Adigrat e su Adua dovevano venir garantiti da una puntata verticale, che procedendo quasi ad uguale distanza dall’uno e dall’altro, li collegasse e spezzasse le comunicazioni nemiche tendenti ad eventuali concentramenti. La nostra colonna si trovò perciò di fronte principalmente ad un nemico singolare, forgiato non con forze umane, ma dalla stessa natura. Si trattava di aprire una strada fra monti aspri, dirupi, profonde vallate, strada che in antecedenza non era stata segnata che dalle carovane rare dei contrabbandieri.

Ma la genialità tattica dei nostri Comandi e la volontà inflessibile di queste meravigliose truppe superò ogni ostacolo e gli ottanta chilometri impervi sono stati segnati dai tacchi solidi eppur volanti delle Camicie Nere, le quali ora dominano i colli sovrastanti alla vallata magnifica dell’Entisciò e si riassettano per nuovi balzi, anelanti a più aspri incontri.

I battaglioni lasciarono la collina di Mai Aini al primo mattino del giorno 2 ottobre. In un mesetto di permanenza in quella deliziosa posizione, dominata dall’Amba Tachillè (pietra aguzza levata contro il sole come una saetta) allietata dal fiume che corre ai suoi fianchi, gli industri militi si erano creata più di una comodità.

Come per incanto la brughiera era scomparsa sotto un sormontarsi di terrazze, rette da muri a secco, sotto un’artistica rete di viali e giardinetti coronanti gli attendamenti: il tutto compreso fra due poggi, dominati l’uno dalla villetta del generale, l’altro dallo spiazzo della bandiera e dalla graziosa cappelletta, arieggiante con la cuspide, alle nostre chiesette alpine. Era questo l’ultimo nido curato con agio e con estetica /111/ da quel meraviglioso artista che è il milite. Ma il milite ogni giorno levava lo sguardo ai lontani monti di Adua e tendeva verso quella mèta lontana il suo spirito, come l’uccello si libra dal nido. E il giorno sospirato come una festa spuntò finalmente! Brevi i preparativi, subitanea fu la partenza. A turno i battaglioni sfilarono davanti ai piccoli presidi di artiglieria del Forte «De Amicis», che presentavano le armi e invidiavano la sorte dei partenti. S’infilò la Valle dei Leopardi per la strada da pochi giorni aperta dai nostri battaglioni, e si scese nella pianura dell’Azamò. I più che tremila uomini compatti e ordinati nella magnifica colonna, guidati dai comandanti montati sui muletti, seguiti dalle salmerie, iniziarono la marcia, che ebbe per prima tappa Mai Atal, dove si passò l’intero pomeriggio e la notte susseguente.

Sopraggiunsero intanto i carri veloci e altri reparti motorizzati fra gli evviva delle truppe; questi mezzi carreggiati non poterono poi intraprendere la nostra strada impervia: tuttavia ci han dato in quel momento una maggiore e più entusiastica comprensione della solennità del momento.

Le nostre pattuglie già avevano perlustrato ambe le sponde del Belesa, che segna perfettamente il confine: vi avevano segnato il guado pel mattino seguente, e avevano notato che le vedette nemiche, avvistato il nostro avvicinarsi, eroicamente si erano decise per la ritirata.

L’onore di violare i confini dell’impero etiopico fu riservato al nostro 3° Battaglione, il «Battaglion Romano», come dice l’inno ufficiale composto dal nostro poeta, il centurione Baldi. Il «Battaglion Romano», capeggiato dal comandante seniore Gigli, armato di spirito e di moschetto, accompagnato dal cappellano e dalle salmerie, precedette tutto il gruppo che pel guado si buttò attraverso all’immensa brughiera fluviale con le mani irrigidite sui moschetti e i cuori in delirio. Gli occhi illuminati dall’aurora luccicavano di commozione e di ardire: tutta la forza di Roma conquistatrice, tutta la volontà del Duce pareva serrata nelle nostre mascelle.

Qualche ora dopo si allacciavano i collegamenti con le colonne di destra, e venivamo raggiunti dal veloce squadrone della cavalleria indigena, destinata quale pattuglia volante /112/ alla testa della nostra colonna. Il cielo intanto veniva solcato da velivoli coi quali intrecciammo frequenti comunicazioni tattiche. Si camminò tutto il giorno per terreni diversi, ma sempre aridi e privi d’acqua. Circa quarantadue chilometri furono percorsi in quel giorno dalla interminabile colonna. La fame e più la sete torturavano molti. La stanchezza parve in certi momenti toccare il colmo per i più deboli, che si abbattevano sui margini del cammino, confortati più con le parole che altrimenti dai compagni. È necessario che l’Italia sappia di quali sofferenze è materiata questa nostra corsa africana: a noi basta aver la coscienza di cementare colle nostre privazioni quella vera grandezza di Roma imperiale, che non può venir costrutta dalle verbosità dei gaudenti, ma solamente dal sacrifizio dei forti. Legge divina e legge di natura vuole che la vera gloria, individuale o sociale, sorga come il sole da un’alba arrossata. A sera, dopo la corsa tra foreste, per salite ripide da cui rotolarono muli e carri, greti di secchi torrenti sondati per trovarvi un cucchiaio d’acqua, eccoci in una stretta gola apprestata lestamente a difesa per la sosta notturna. Nel centro prende posto il nostro attivissimo generale; i battaglioni si assidono all’intorno: nell’oscurità, circondati dalle vigili pattuglie, tutti si accomodano sulla nuda terra.

Passano le brevi ore di riposo e prima dell’alba si è di bel nuovo in piedi, pronti un’altra volta a serrare le file. Ma un grido di gioia presto irrompe: «Mai! Mai!», acqua, acqua... vi è acqua abbondante per la nostra sete e per quella, non meno interessante, dei nostri muletti. Ecco un fiumicello e più avanti un altro più grande, dalle acque limpide e sonanti quasi di torrente alpino. Quale refrigerio! Ciascuno è rifatto e rifornito; le borracce son piene e piene ancora molte gavette dei militi: l’esperienza insegnò a tutti che l’acqua non è mai troppa sotto il rabbioso sole equatoriale, come mai troppe sono le coperte nelle notti africane.

E si continuò a correre: tre giorni di marcia continua, interrotta solo dalle necessità tattiche, dalle misure prudenziali contro gli agguati delle bande armate e dalle necessità del brevissimo riposo.

Meravigliosi si mostrarono i muletti abissini di cui sono /113/ fornite le nostre salmerie, ma più meravigliosi i Militi che al termine di queste faticose giornate sono freschi e pronti ad ogni evento. Alla sera della terza giornata era necessario avventurare un pattuglione dentro una non vicina valle, per rintuzzare una banda di quattrocento armati che, secondo i nostri informatori, aveva cattive intenzioni contro di noi.

Tutto un battaglione, il secondo, guidato dal nostro bravo seniore Valcarenghi, si mise in marcia: tutto, dico, compresi gli scritturali che affidarono la cassa del battaglione alla custodia dei salmeristi per correre anch’essi all’impresa, freschi e arditi come i compagni, quasi che a nessuno pesassero gli ottanta chilometri appena ingollati.

Ed ora ecco i nostri battaglioni aggrappati alle creste che circondano il crocevia delle carovaniere fra Adua e Adigrat. Il Comando del Gruppo ha preso posizione su una vetta che si protende sulla valle e fa arditamente sventolare il tricolore: commovente fu il momento in cui issammo la bandiera: era la domenica prima di ottobre, circa le ore diciassette, quando per i paesi italiani si snoda la processione della Madonna del Rosario, in ricordo della vittoria riportata dai cristiani a Lepanto. E qua sul monte, il sacerdote aveva recato il tricolore che ora saliva sotto il cielo africano per forza delle baionette: e il sole che baciava il tricolore dava pure barbagli all’argentea croce arabescata, retta dalle mani di un «coscì» strabiliato.

Nel breve spazio terminale della vetta sorgono le piccole tende del Comando circondate da una selva di telefoni ed apparati ottici, disposti e vigilati perfettamente come sempre dal capo manipolo Pietro Morglia. Questo punto strategico, collegato con tanti mezzi celeri con tutti i reparti, è come il cervello del corpo che si stende a vista d’occhio.

Ampio è il panorama. In lontananza scorgiamo ancora l’Amba Terica e la solenne Amba Gheà (o Gran Casa) che torreggiano fra le brume quali cattedrali ciclopiche. Sul fianco ecco le vette che incoronano Adua, quasi sultana vegliata da giganti. Di queste vette ne conto circa una trentina, o isolate come il famoso dito di Adua, o a face, quasi tutte tondeggianti al pari di colonne, grigie di colore, contrastanti con lo smeraldo che le recenti piogge hanno disteso a valle.

/114/ Quando, cinquant’anni or sono, ras Mangascià giungeva a questi monti portando nelle orecchie l’irrisione incitativa di Menelik: «Vuoi essere re? Devi riconquistarti il regno», questi monti parvero far pregustare al giovane e lascivo principe la vittoria sugli odiati stranieri: ma oggi il volere del Re d’Italia, l’ordine del Duce, hanno commosso anche i giganti di pietra; e noi sentiamo un’altra voce ben diversa, che lingueggia dalle vette e dai fianchi dei monti abbandonati per sempre dal vile ras Sejum, e questa voce ci spinge avanti a seguitare la conquista, mentre affidiamo sicuri alla Patria la gloria di Adua riconsacrata all’Italia da duplice sacrificio, a distanza di quarant’anni.

Che la nostra conquista sia ormai definitiva non siamo noi soli a pensarlo, a dispetto di certa inciprignita politica europea. Ma anche le popolazinoi di queste valli, chiuse ad ogni contatto, prive di cognizioni politiche, provviste però, come tutte le genti semplici, di una intuizione infallibile, ci hanno seguito con continui atti di omaggio e sudditanze. L’apparato formidabile delle nostre forze avrà certo detto loro che l’Italia di Benito Mussolini non è più quella che passa, ma bensì quella che rimane. Dalle piccole «Bieté Cristian» o pievanie copte, nascoste fra le macchie dei boschi sacri, sono usciti i «cascì» in piviale (sudici cenci da rigattiere) recanti la grande Croce abissina in segno di pace e d’amicizia e guidanti sciami di paesani. Offrono al generale uova, granturco e qualche capretto, e ne ricevono in cambio sonanti talleri. La figlia del famoso degiac Lamma, col capo coperto di un ampio borsalino, giunse da un paese lontano a far atto di omaggio, accompagnata dalla moglie del Fitaurari e più sotto balambaras e degiac sono termini della complessa gerarchia militare e civile abissina Fitaurari, o capo-paese, e da altre donne trillanti il gorgheggio singolare con cui le donne abissine dimostrano le grandi gioie.

L’Aquila Sabauda e la Scure Littoria sono ormai conficcate nella epidermide coriacea del colosso etiopico. Non manca certo in noi la volontà, nè là certezza di ghermirne il cuore. Nè le provate difficoltà logistiche, nè gli ambiti incontri con le barbare zagaglie renderanno vane la fede e la speranza nostra. Iddio stesso, che ha benedetto gli inizi, ci accompagnerà in ogni passo della santa crociata.

Ottobre 1935-XIII.

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L’avanzata nel Tigrai

A marce forzate
con le Camicie Nere del generale Diamanti

Non so proprio dire se per ragioni di analogia oppure di contrasto avvenga in me il fatto che, volgendo lo sguardo in giro al fantastico panorama del Tigrai, mi ritorna ognora in mente il titolo del vecchio libro che rese celebre il mio compianto amico Guido Rey 1861-1935, alpinista, scrittore e fotografo. Durante la I Guerra Mondiale prestò la sua opera per la Croce Rossa, e fu gravemente ferito. Alpinismo acrobatico (1914) tratta delle sue scalate sulle Dolomiti. Guido Rey: Alpinismo acrobatico.

È vero che l’alpinismo acrobatico per secoli in Abissinia continuarono a farlo solamente le infinite tribù di scimmie che si sono sempre esercitate su queste crode. Gli indigeni impigrirono nel fondo delle valli o sulle molli pendici: e se qualche ardita carovaniera è stata incisa nelle rocce a superare rilevanti dislivelli, ciò non fu fatto che per la pura necessità di quelle minime comunicazioni che intercedono fra i paesi del mal connesso Impero del Negus Neghesti.

Arena di arditezze

Al contrario la fisionomia del paese offre, di natura sua, la più meravigliosa arena a tutte le umane arditezze. Occhi, cuore, polmoni e muscoli trovano qua la cote del più sottile affinamento. L’altimetria si aggira attorno ai duemila metri, e talvolta, come nel massiccio del Semajata, supera i tremila; i displuvi che si versano nei due bacini del Nilo e del Mar Rosso vanno digradando per tavolati di arenarie su cui poggiano fantastiche rocce vulcaniche rilucenti di basalti e trachiti. I massicci tavolati pianeggianti sono poi normalmente rotti agli orli da una linea orizzontale che fa scendere a valle uniformi strapiombi di cortine rossastre, le quali, allorchè vengono investite dalle prime ombre della sera, segnano il paesaggio di un mesto listone. Su quella linea però si stendono fioriti pianori, quasi primavere pensili perennemente pioventi dal cielo, siepate di ambe capricciose che paiono sogni di un gigante inebbriato.

/116/ Ecco tutta la vallata del Faras-Mai dominata da un merlato castello di pietre; ecco sulla sinistra una grande roccia in cui si profila nettamente una testa d’aquila rostrata: più avanti, verso Hausien, domina un isolato fascio di colonne levigate dal vento, troneggianti sul plinto di un verde tappeto.

Costeggiando la carovaniera del pianoro antistante, gli occhi non si staccano dal vago spettacolo di quel curioso monumento, e s’osserva con crescente ammirazione che quelle colonne prendono la forma della facciata di un tempio, anche perchè lo strapiombo regolare delle retrostanti rocce traforate vi si connette quale muraglione laterale, rosso di quel vecchio color mattone delle cattedrali trecentesche che oggi ancora s’alzano sotto il sereno cielo lombardo.

Musiche indigene

La flora accompagna, qual veste appropriata, le caratteristiche del paesaggio: acacie, mimose spinate, ulivi e fichi selvatici, qualche colossale sicomoro, e più in basso cespugli di gelsomini, agavi, euforbie dalle punte fiorite di bottoncini rossi quasi fiammelle sul candelabro; e finalmente, a valle, pascoli perenni alimentati dalle acque che, assorbite dalle vulcanite, conservate in polle, ora stagnano coronate da alghe e da palmizi, ora scendono rumorosette quali gorgheggianti torrentelli alpini.

Non mancano i terreni coltivati, normalmente a leguminacei, cereali e lino; ma questi uomini orientali, più che di dar mano all’aratro o alla vanga, si deliziano nel vellicare oziosamente i dorsi degli ovini, poichè tutta la popolazione è principalmente dedita alla pastorizia, come tutti gli abitatori delle regioni montuose.

Invano però cerchereste nelle mani nere il flauto o la fistola dai sette fori degli antichi pastori dell’Arcadia, o anche la modesta cornamusa o la zampogna del ciociaro. Il sinfoniale a tutto ripieno che la natura selvaggia scatena su questi monti è impotente a svegliare il millenario sonno di questo popolo sordo e muto alle espressioni estetiche: a mala pena qualche /117/ lieve nota, quasi sempre stonata, si aggiunge dagli uomini incolti al concerto della natura. In quella macchia fiorita del Faras-Mai, in cui si nasconde la rozza chiesetta di Enda Micaèl Zattà, avevamo alzato le tende del Comando del Gruppo CC. NN. d’Eritrea. Ma la prima notte stessa, quella susseguente alla lunga marcia, il nostro riposo fu disturbato, poichè verso le tre cominciò a sentirsi un suono: tin, ton, tan... tin, ton, tan... Era il «cascì» che batteva uniformemente quelle tre lastre di pietra sospese a un arido ramo, che formano il concerto di ogni chiesa copta. Il tono, l’ordine delle note rimase sempre invariato: e il giuoco pareva interminabile. Ma i frizzi dei disturbati persuasero finalmente il disturbatore della pubblica quiete a troncare quella stucchevole nenia.

Attenzione di camicie nere

Mentre la terra abissina si solleva a tanta altezza, si assottiglia e quasi si spiritualizza nelle punte delle ambe e nei petali dei fiori e pare quindi una naturale pedana delle umane esaltazioni, il suo popolo è rimasto tanto in basso, appiattito in una uniformità volgare di sentimento e di espressione.

Per questa volta almeno ha torto il poeta di affermare che: Torquato Tasso 1544-1595 Gerusalemme Liberata, I LXII “La terra molle e lieta e dilettosa, / Simili a se gli abitator produce.” «Simili a sè la terra – gli abitator produce».

Il vero alpinismo in Abissinia è incominciato con le nostre azioni militari. Alpinismo in pieno, anche se, lungi dall’essere ornato degli aggeggi di quello di moda presso i sedentari nazionali che cercano salute e vanto nelle escursioni festive, esso getta l’uomo armato del semplice necessario a lottare contro tutti gli elementi dell’alta montagna.

È da notarsi che già vi è una grande preparazione morale nella massa stessa della truppa a godere degli spettacoli che si presentano man mano più sorprendenti. Non è solo l’ardente patriottismo, non è neppure il fascino delle recenti memorie che aureola i nomi di Adua, Macallè, Amba Alagi, che fa vibrare tutta l’anima nostra. La squisita sensibilità italica, nata per il bello, adusata a percepirlo integralmente, a gustarlo a /118/ fondo, qui trova un pascolo esotico inesausto. L’estetica dei boschetti di euforbie, i contrasti fra l’orrido e il fiorito, fra la landa e il coltivato, fra gli immensi cortinaggi rocciosi e i viridari più intensi, il profumo dei gelsomini e dei mentasti e il sapore agro delle salvie spinate c’inebria.

L’attenzione della Camicia Nera è sempre desta, tanto nello spiare il nemico che viene incalzato, quanto nell’ammirare e nell’assaporare le sorprendenti bellezze panoramiche. E poi queste montagne d’Abissinia sono pure, generose, ristoratrici di forze. È vero che «pane e panorama», come dice il milite, non è sempre sufficiente, ma noi proviamo per esperienza quotidiana che il sacrifìcio torna meno difficile, la privazione meno sentita, l’entusiasmo più trabocchevole in questa atmosfera sottile e nella corona di tante meraviglie naturali. Le quali non annoiano, non stancano, chè, anzi, sono curiosamente appetite sempre di più dall’anima giovanile della truppa. V’è l’ansia di camminare, di andare avanti, di vedere cose nuove, di incontrarsi con nuovi ostacoli. Le soste diventano uggiose se protratte ai quattro o ai cinque giorni, in capo ai quali esplode la comune impazienza nei discorsi che non parlano che di riprendere il cammino, che di partire. «Partir c’est un peu mourir», si dice dai Francesi. Per noi, al contrario, partire è vivere.

Le soste sono necessarie. Un insegnante della Valle d’Aosta scriveva ad un amico, ufficiale presso i Battaglioni, come i bimbi della sua scuola, dinnanzi alla distesa carta geografica in cui la nostra avanzata viene segnata dalle bandierine, chiedevano con insistenza il perchè della lentezza delle nostre operazioni. Molti altri, io me lo immagino, i quali, come questi cari bimbetti valdostani, non hanno la testolina proporzionata alla grandezza del loro cuore, hanno ripetuto la stessa domanda: alla quale facilmente dà risposta colui che conosce la vastità dei territori abissini e tutte le difficoltà logistiche che essi presentano ad una truppa che marcia e che ha necessità di continuo rifornimento.

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Partenza all’alba

Come nel cuore di tutti i veri italiani, dai figli della Lupa, ai veterani, oggi il Fascismo ha acceso la dinamica volontà della marcia in avanti, così e più ancora, come è facile immaginarlo, questo incendio divampa, e nel genio del Duce che pur deve manovrare contro gli scogli degli egoismi internazionali, e nella saggia direzione dei Comandi Superiori che, guidando i Battaglioni, devono pensare alle condizioni del terreno, alle coperture di protezione, al vettovagliamento, e nello spirito di una truppa eccezionale che è tediata dal bivacco e che non anela che a mettersi in moto.

L’ordine di una partenza è accolto con gioia, è eseguito con entusiasmo. Normalmente si parte nelle prime ore del mattino, perciò i movimenti al campo si iniziano nelle ultime ore della notte. Fantastica è la scena che si presenta a chi da un’altura domina quel quadro. Nel cielo crepuscolare, frastagliato dalla nera cornice delle cime, occhieggiano ancora le stelle. Le ombre notturne sono rotte dal lingueggiare di centinaia di fiamme attorno a cui si delineano profili e scorci degni di venir eternati da un novello Gherardo delle notti. Cadon le tende, si affardellano gli zaini, si imbastano i muli: e quando il sole sorge, con la sua luce illumina un gruppo di Battaglioni distesi in perfetto ordine di marcia sul sentiero che taglia la falda del monte o scende nel fondo ancor tenebroso della valle o sale verso un passo del colle. Nell’aria è tutto un vario getto di canzoni che vibrano in una ispirazione superiore alla gamma tradizionale della soldatesca in marcia, poichè quasi tutte sono canzoni della Rivoluzione Fascista.

Le note armoniose dei maestri Puccini e Blanc non hanno mai accompagnato più degnamente «il sole che sorge», il mattinale sole dell’orizzonte, che è il sole di gloria della novella romanità.

La marcia dura normalmente quanto la giornata. Il passo sovente prende il ritmo della corsa. Il sentiero è più spesso aspro che pianeggiante: si sale e si scende cento volte per gl’infiniti colli dove la mulattiera diventa talvolta lunga, stretta /120/ e incassata nella roccia, quale una trincea carsica. Non mancano gli ingorghi con le relative attese, ma le soste sono sempre brevi e il tempo perduto viene presto recuperato da repentini acceleramenti. Nè la stanchezza, nè qualche intermittente scarica di fucileria di dispersi nemici fermano il ritmo della corsa o le canzoni in cui perennemente fiorisce la consapevole gioia dei cuori.

Entusiasmo e sacrificio

E la montagna africana continua ad offrirci a piene mani le sue grazie vergini e selvagge: e l’atmosfera sottile, e il profumo dei fiori, e l’acqua fresca dei celati impluvi, e la policromia luminosa che abbraccia cielo e terra, e i contrasti dei rabbiosi ardori solari con il gelido pallore notturno dell’ampio plenilunio.

Ruskin assai freddamente (oggi potremmo dire: inglesemente) derideva i pionieri dell’alpinismo europeo qualificando le prime ardite ascensioni quali «giuochi di alberi insaponati scalati per il piccolo premio». Alle irrisioni dell’esteta inglese, gli Italiani possono contrapporre i canti del Giovanni Bertacchi (Chiavenna SO 1869 - Milano 1942) storico della letteratura italiana, autore del Canzoniere delle Alpi 1895 Bertacchi, la cui poesia, che è tutta una esaltazione dei valori spirituali del più sano alpinismo, non può venir meglio sintetizzata che dai versi:

Nè mai vi miro, di perpetui geli
inargentate, rupi di granito,
senza che il cuore all’alto, all’infinito
con novo, intenso desiderio aneli.

E che l’esercizio del più intenso alpinismo sia sprone continuo del cuore a salire alle altezze spirituali, alle vere altezze dello spirito umano che sono i cieli della rinunzia, della dedizione, lo sentiamo soprattutto qui in Africa, dove la nostra /121/ corsa fremente di entusiasmo e di canzoni viene intrecciata con il quotidiano sacrificio per gli alti ideali della Patria Fascista e della civiltà.

Ma vi è sempre il desiderio vivo di offrire di più, vi è una solidarietà fraterna, dominatrice di ogni egoismo, che commuove. Quando S. E. il Generale De Bono, presso una base dei nostri rifornimenti assisteva all’incendio casuale di una macchina che trasportava a noi i viveri, vedendo l’autista scoppiato in dirotto pianto, lo interrogò sul motivo della sua inconsolabile desolazione. E la Camicia Nera, fra le lagrime rispose: «Eccellenza, piango perchè penso al dispiacere che arrecherà al mio Generale la notizia di tutti questi viveri distrutti: ne soffriranno i miei fratelli che sono in trincea». Nè fu calmo che quando S. E., con paterna bontà, lo ebbe assicurato che sarebbe stato dato ordine alla Sussistenza militare di ripetere immediatamente il prelevamento dei viveri perduti.

Eroismo e pietà

Tanto la Camicia Nera ama i superiori e i commilitoni.

Gli stessi sentimenti sono nutriti verso tutti i combattenti che l’Italia ci ha dato quali fratelli, più che compagni, in questo lontano campo di battaglia. Recentemente nel territorio di Hausien è caduto il giovane sottotenente Aldo Lusardi del 16° Battaglione Indigeni. Ferito sul campo, egli aveva chiuso gli occhi fra i compagni che poi avevano dovuto interrarlo senza che un sacerdote presente ne celebrasse i rituali suffragi. Il mio generale Filippo Diamanti subito ordinò che attorno alla tomba si adunassero le nostre Camicie Nere, e che il cappellano sopraggiunto compisse nella forma più solenne il rito funebre. E poi lo stesso generale ideò e curò l’esecuzione di una tomba che certo riuscì il meglio che si possa fare in questi luoghi ed in queste circostanze.

/122/ I monti del Tigrai, che van ricevendo tributo di sudore e di sangue dall’ardente giovinezza italiana, saranno degni fratelli dell’Alpe, del Grappa, del Carso nel presentare all’Eccelso, quali veri altari, l’offerta per la Patria, e nel ricordare per sempre, monumenti d’eternità, i sacrifici nascosti o palesi di cui essi furono stimolo e teatro.

Dicembre 1935-XIV.

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Muli e muletti abissini

Non v’è legionario dell’Africa Orientale, che, dotato di quello spirito di fraternità universale e francescana che è proprio delle genti italiane, non sia stato punto talvolta da una commossa affettuosità verso il quadrupede che per le petraie, sulle sabbie e tra le spine sopporta con noi da mesi la quotidiana fatica.

Stivati nel fondo delle navi, soffocati dalle calure di Suez e del Mar Rosso, viaggiarono con noi muli italiani e siciliani: ogni battaglione era fornito del numero regolamentare ed anche di più. Ma presto l’ambiente esotico, il caldo e la peste mieterono vittime fra gli equini. I mancanti furono sostituiti dai complementi locali. E come di fianco alle truppe nazionali combattono i bei battaglioni indigeni, così di fianco al mulo di razza italiana, grosso e solenne come un monumento, abbiamo visto porsi il focoso muletto abissino.

Nella vita moderna la maggior parte, dei trasporti di persone e di materiali viene effettuato non più con i vecchi quadrupedi, ma con gli automezzi: così pure è avvenuto nelle congestionate retrovie sorte come per incanto sotto il braccio dell’operaio italiano nella nostra crescente colonia. Però, verso le prime linee, sondate nell’impervio terreno, il motore non può sostituire il mulo, nè l’autista il vecchio salmerista.

Dove si addensano le incognite dei pericoli, dove oggi l’esplorazione dà all’uomo l’ebbrezza eroica ispirata dal motto: «Viam aut inveniam aut faciam», là vi è il mulo, o superbamente sellato e montato dai comandanti delle belle compagnie, o umilmente imbastato e recante le armi pesanti ed il fardello dei combattenti. Molte fatiche dell’esercito peregrinante nell’impervio Continente Nero sono addossate alle robuste groppe del forte quadrupede. Tutte le nostre vie, prima d’essere allargate ed assodate dai rotabili, sono segnate dallo zoccolo ferrato o no dell’animale, e spesso dal suo corpo abbattuto sui margini appena tracciati della mulattiera, pascolo alle iene, ai corvi ed ai nugoli di falchetti montani.

Il mulo, ibrido voluto dall’uomo per il proprio servizio, pare sentire istintivamente lo scopo che la natura e l’uomo gli /124/ hanno assegnato. Fra i nostri muletti molti se ne trovano che con una testardaggine veramente mulesca non muovono un passo se non cammina davanti a loro l’uomo.

Puoi dare curbasciate a sangue, puoi sparare a certi recalcitranti animali, non li costringerai ad incamminarsi se non quando avran vista avanzare l’ombra dell’attendente. Questa bizzarria è comunemente ritenuta un difetto, specialmente quando, in arcioni, hai bisogno di prendere un’improvvisa e solitaria direzione e la contrarietà della bestia ti fa smaniare e inutilmente inferocire: ma, a ben considerarla, potrebbe apparire anche una virtù: la virtù di seguire sempre l’uomo. Inoltre, nel mulo, appare evidente quel mimetismo universale che modifica e livella gli esseri ed ha coniato l’evidentissimo proverbio: «Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei». Non solo le virtù strettamente morali, ma pure le qualità fisiche paiono talvolta rompere la scorza dell’individualismo per travasarsi da un essere all’altro in una, sia pur relativa, comunione d’ambiente. L’animale che convive con l’uomo depone gli istinti feroci, si addomestica e pare talvolta umanizzarsi, e per la stessa legge sovente l’uomo s’affratella coll’animale ed imbestialisce.

Questo rilievo è facile a noi che osserviamo le relazioni che passano fra l’animale ed il milite che lo ha in consegna, fra il mulo e il mulattiere. L’ordine o la trascuratezza di questo nel dare il foraggio, nell’abbeverata, nella pulizia non solo sono sempre manifesti nell’animale, ma si direbbe che tutti gli istinti della bestia vengano modificati dalla cura dell’uomo. Un mulo eccellente diventa bizzarro per l’incuria del custode o per l’inettitudine del cavalcatore: mentre che una bestia indomabile si fa docile nelle mani o sotto l’arcione di provetti.

Non è quindi da tenersi in poco pregio, in Africa soprattutto, l’occupazione del salmerista. Non si può considerare le salmerie come il rifugio di tutti gli inetti agli altri servizi del battaglione. Ci vuole arte e scienza e cura in ogni servizio della Patria. La scienza e l’arte saranno impiegate dai nostri bravi ufficiali veterinari: ma la cura modesta, paziente, talvolta eroica viene data dalla generosità inesausta delle nostre Camicie Nere addette alle salmerie, fra cui trovi spesso qual- /125/ che artigiano, qualche cittadino che evidentemente non aveva mai avuto famigliarità di sorta con i muli, e che tuttavia, con l’intelligenza abile a tutto e con lo spirito di sacrifìcio, che compie miracoli, riesce ad adempiere alla perfezione il non aristocratico dovere.

È interessante assistere al governo alla mano che gli uomini van facendo al quadrupede. Uno psicologo rileva con la maggior evidenza tutte le qualità umane che nel libero tratto con la bestia incosciente, spontaneamente fioriscono. La gentilezza dell’animo di alcuni si abbandona a certe tenerezze di parole e di modi che sanno di ingenuo affetto.

«Io e il mio mulo ci diamo del tu», scriveva una Camicia Nera ai parenti lontani, con un’espressione indovinata della mutua intima comprensione.

Vi è chi al mulo dà gli ordini con parole garbate, lo esorta, lo sprona con gentili espressioni e ragiona con l’illusione di essere compreso.

Chi può dire gli artifizi, i sacrifici che fanno certi solerti mulattieri per procurare alla loro cara bestia un miglior foraggio o una manciata di avena in più della razione? Quando poi la soma da porsi sul basto è giudicata superiore alle forze dell’animale ben conosciuto ed altrettanto amato, il mulattiere non risparmia le rimostranze e prende le parti del suo tutelato meglio che se fossero le proprie.

Ed ha ragione, anche perchè gli incidenti incresciosi della strada sono a danno sia del mulo che del mulattiere. Quando alla soma sono impari le forze, quando il carico non è ben distribuito, il quadrupede s’attarda o s’abbatte ed il poveromo che l’ha in consegna passa dei brutti guai, perchè deve uscire dalla colonna per attendere lunghe ore di giorno e di notte un rinforzo che quasi mai giunge, sui margini sovente infestati dalle bande armate. Mi si raccontò che dopo una recente imboscata del crudele e selvaggio nemico, fu trovata la salma di un combattente aggrappata al collo della sua bestia, parimenti uccisa: la solidarietà del legionario d’Africa col suo fedele servitore, il mulo, non può meglio essere rappresentata che da quel groviglio dei due corpi, sì diversi ep- /126/ pure fusi nel sangue, straziati nella stessa battaglia, per la stessa causa, dallo stesso barbaro avversario.

E pur senza questa immolazione, i nostri muli ci offrono continuo argomento di meditazione su molte virtù, e potrebbero ispirare un poema intero a un favolista moderno.

Il carico deve essere proporzionato alla sua forza specifica e individuale: il muletto abissino porta una soma che si aggira sui settanta chilogrammi. Il cammello porta di più: ma è più lento. Il cavallo pure sopporta maggior peso, ma ha minor resistenza ed è più prezioso. L’asinello porta sempre un peso minore: e tuttavia il suo concorso nei nostri trasporti non è disprezzabile. Ma l’asino viene adibito ad un prezioso servizio di complemento nei battaglioni: molti asinelli ci furono consegnati dall’amministrazione militare e furono presi in forza regolarmente ed a questi se ne aggiunsero delle diecine reclutati per via o, come si dice dai militi, «arruolati» a portar gli zaini al seguito dei plotoni ed a scendere quotidianamente alle fonti, coperti dalle numerose borracce per il rifornimento idrico. L’asinello non richiede alcun speciale foraggio e quindi senza difficoltà può seguirci nelle nostre corse, alle quali i rifornimenti sono sempre limitati.

Ma neppure il mulo ha molte necessità: i muletti abissini soprattutto paiono aver ridotto all’estremo i requisiti del loro meschino vivere. Soventi sprovvisti di biada in terreni aridi, disseccati dalla stagione, ci siamo chiesti se proprio fosse il caso di credere che queste povere bestie vivessero d’aria, come i camaleonti delle antiche favole. Gli equini che l’uomo ha assunto al suo servizio furono normalmente forniti ed armati di ferri agli zoccoli: ma i muletti di questo paese non hanno neppure bisogno di questo ammenicolo. I maniscalchi sono superflui per i muli abissini, che hanno un’ugna densa e forte per mordere senza danno le rocce più dure.

Tutti gli indigeni vanno scalzi su questa arida terra dell’Africa Orientale, dal muletto all’ascaro, dallo schiavo al Negus, il quale ultimo oggi più che mai pare scalzo, scalzo come un cane o come un mulo.

Vi fu un tempo in cui, consumate le scarpe nella marcia continua e tardando a giungere i nostri rifornimenti, pure /127/ buona parte dei nostri militi camminavano scalzi. I piedi facevano sangue e spesso si piagavano con noiose piaghe tropicali: ma non cessarono dal battere la terra africana, dall’andare avanti, senza arrestarsi, senza richiedere la visita medica. Occupando il paese di Abbi-Addi alcuni militi camminavano in queste tristi condizioni, sulle quali fu richiamata l’attenzione del generale Filippo Diamanti. Ed egli rispondeva: «Non fatemi piangere di più: purtroppo lo so che sono scalzi». Fu provvisto anche a questa bisogna, ma è bene non dimenticare nessuno dei molti sacrifici, che sono fatti degni di sopportare, per carità di Patria, i legionari d’Africa.

Non è difficile scoprire nel mulo altri pregi preziosi. Nella diuturna convivenza, noi abbiamo, per esempio, apprezzato assai il suo silenzio relativo. Il cavallo ha un nitrito di nobiltà che raramente dà fastidio, anche perchè di rado si fa sentire. Ma gli altri nostri quadrupedi spesso ci infastidiscono.

Il cammello gibboso, che fra tutti ha una voce più sgradevole, pare dilettarsi di lacerare i ben costrutti orecchi: si lagna mentre lo si carica, e ne avrebbe forse motivo: ma si lagna pure quando viene scaricato. Si lagna quando è costretto ad accosciarsi e anche quando si alza.

È nota la sgradevolezza della voce asinina. Bene è vero che, come dice il proverbio, «raglio d’asino non sale in cielo», ma è pur vero che di notte i nostri accampamenti rintronano di sonorosissimi ragli che disturbano il relativo riposo notturno e che svelano al nemico la nostra celata presenza.

Il mulo è più taciturno perchè più modesto e sapiente: anche per questo motivo si può dire che nel suo ibridismo trionfa l’elemento paterno del nobile cavallo sulla maternità asinina.

Si vorrà fare colpa al mulo abissino della sua innata focosita? Ma dove gli uomini sono barbari, sarà comprensibile che le bestie siano focose, ombrose e bizzarre. Gli scalzi Ras, assisi su una sella di legno, mal celata da un tappetino arabo, acquistano vanto dai movimenti impetuosi dell’umile cavalcatura. Del resto sprone e curbàsh frusta «curbas» sapranno domare e piegare al servizio dell’abile cavaliere anche le più riottose tendenze della più stupida ombrosità. In qualche caso bisogna però /128/ confessare l’inutilità dei conati del domatore; vi sono certe bestie pienamente ribelli, testarde all’inverosimile. È propria della natura del mulo la cosidetta testardaggine, e bisogna ricordarlo soprattutto quando ci si incontra con animali tipici. Il mulo non è nato pecora e una sua docilità non è normalmente frutto che dello stimolo sapiente dell’uomo. Ciò è tanto vero, che quando si vuole indicare la massima cocciutaggine d’un ragazzo si dice che egli è testardo come un mulo. Nella testardaggine questo animale segue sempre l’istinto naturale, proprio all’opposto di quanto succede, per esempio, per il mulattiere bestemmiatore, di cui si possono ripetere giustamente i versi di Shakespeare: «Egli ha ragione e se ne vale per essere d’ogni bestia più bestiale».

Inoltre, quando all’Italia delle sanzioni e a noi combattenti d’Africa canta in cuore un italico ritornello che suona così: «Tieni duro!», siamo tentati pure di esaltare la tenacia di queste innocenti bestiole che, con quell’apparenza di virtù che natura pose in loro, ci insegnano a fortemente volere sino alla morte, sino alla vittoria.

E veramente la tenacia di questi muli è forte sino alla morte: la fatica da sola non li abbatte: contro le privazioni del necessario si mostrano estremamente resistenti. Molti vendono fiaccati e poi piagati sul dorso dai basti inadatti. Altri sono presi dalla peste equina, fatale epidemia che li decima crudelmente, senza però nuocere alle persone. L’epidemia stessa che all’estremo li abbatte inesorabilmente, non li costringe a lunga inerzia. I poveri colpiti continuano a lavorare sino all’ultimo, sì che paiono, come il Don Ferrante manzoniano, non ammettere l’esistenza della peste sin che la peste non li porti via.

Mentre sto scrivendo agonizza il muletto abissino che per otto mesi fu la mia cavalcatura in terra africana. Sin da quando mi fu assegnato gli imposi il nome di «Areghit», che in africano significa «vecchio». Con tal nome l’appellai, non perchè realmente esso sia vecchio: non conta infatti che sette anni: età matura, non di vecchiaia per un mulo. Ma il suo pelo rosso-grigiastro e una certa andatura solenne e grave gli dava una cert’aria di maturità, per cui da tutti fu stimato indovi- /129/ natissimo l’epiteto. Benchè non fosse nato con le ali ai piedi, come certi suoi fratelli abissini, con una buona curbasciata si metteva ad emulare nel trotto e vinceva nella resistenza i migliori. Mi ha servito inappuntabilmente nelle corse affocate dei battaglioni, portando pure gli zaini dei militi più stanchi, ed era sempre il primo ad essere sottoposto ad un improvviso carico dall’ultimo sopraggiunto a ricercare un mulo nelle comuni salmerie. Perciò era comunemente conosciuto e prediletto.

Ora è là in un campo, isolato, all’ombra magra di un’acacia spinosa, con gli occhi gonfi e le nari tumide e la bocca schiumosa: sta per lasciarci, con dispiacere mio e di quanti lo conoscono.

Noi amiamo queste care bestiole, per i servizi che ci rendono, per la fedeltà che paiono mantenere alla mano che li guida e che pure talvolta li deve percuotere. Ci sentiamo affratellati ad essi nell’impresa e nella morte. Anche coloro che non diedero mai il nome alla società protettrice degli animali, hanno cure affettuose pei muletti e non incrudeliscono contro di essi: pure i più giovani, i «balilla» dei nostri battaglioni, che si divertono a lanciar sassi ed a sparare qualche furtiva moschettata contro le scimmiette fuggenti sui monti, col mulo han delle tenerezze che commuovono. Uno di questi ragazzoni mi diceva un giorno: «Quando sarà finita la guerra vorrei fare un monumento al mulo: io sarò in arcioni, e avanti al mulo d’Abissinia, a reggere le briglie, metterò il... Negus».

Dicembre 1935-XIV.

Illustrazione fra le pp. /128/ e /129/
Muletto

«... sul mio bel muletto ho fatto cinque ore di cavalcata per vedere i reparti ...»

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Camicie nere all’assalto

Dal momento in cui i nostri Battaglioni ebbero l’avventura di varcare per primi i confini dell’Impero Etiopico, furono arsi dai desiderio di misurarsi con il nemico a viso aperto, in una vera e propria battaglia. Per quasi tre mesi si è compressa in cuore questa ansia, poichè nel settore affidatoci dal Corpo d’Armata Eritreo la guerra fu principalmente contro le asprezze dell’indomata terra africana. Il nemico continuò a fuggire incalzato dalle nostre avanguardie e solamente di tanto in tanto ci concesse l’onore di qualche duello di fucileria. Doveva però suonare l’ora bramata di uno scontro bellico in pieno stile. Le Camicie Nere lo presentirono parecchi giorni innanzi, ed il nostro Comando, con una perfetta chiaroveggenza strategica, predispose ogni cosa.

Dopo l’occupazione di Abbi-Addi, i Battaglionf vennero schierati sulle alture a nord di Debra Amba, in difesa della capitale del Tembien e della selletta montana che dava il passo alle nostre retrovie. Si erano aggiunti a noi due Battaglioni indigeni ed una Batteria da montagna. Si formò così un piccolo esercito, sicuro di sè e pronto a tutte le evenienze. Precise informazioni confermate dai messaggi degli aerei ci riferivano d’ora in ora l’accesso di nuove truppe nemiche: si parlava di circa ventimila armati che s’annidavano negli anfratti del Ghevà a covare un’offensiva pronta a sferrarsi contro di noi. Quotidianamente dalle nostre alture scendevano pattuglioni allo scopo di perlustrare il paese e la valle e di prendere eventuali contatti con i celati appostamenti del nemico.

Nel pomeriggio del giorno 17 dicembre, sulla cresta altissima di Debra Amba, al nostro tergo, furono avvistati gruppi nemici, che, scoperti, aprirono un insistente fuoco di fucileria. Venne immediatamente distaccato un reparto allo scopo di rintuzzare quegli audaci che dalle vette stavano minacciando una discesa. Si accese un intenso fuoco: fu una pioggia di pallottole sul nostro campo, soprattutto al centro; le nostre mitragliatrici rispondevano squittendo rabbiosamente, mentre /131/ gli uomini della pattuglia fermavano arditamente le avanguardie nemiche nel folto della boscaglia.

Apparve evidente al nostro Comando che il nemico fingeva quell’attacco sul fianco per attirare da quella parte attenzione e forze, onde sferrare poi un vero assalto sul fronte prospiciente la valle. Si stette quindi più che mai all’erta, per tutta la serata e per tutta la nottata. I fatti della giornata successiva, 18 dicembre, dovevano dare piena ragione a queste previsioni.

Di buon mattino gli abissini riaprirono il fuoco dalla cresta di Debra Amba: celati dalle boscaglie che fasciano quella vetta, famosa per il convento copto che s’alza sul suo rovescio, scaricavano con insistenza i fucili sul nostro accampamento e non furono sgominati che dai colpi perfettamente assestati delle nostre artiglierie.

Intanto, alla prima luce, un ordine di operazione distaccava un intero Battaglione di CC. NN., il secondo del nostro Gruppo, e lo gettava nella vallata, con precisi obiettivi, alla ricerca del nemico.

I compagni rimasti al presidio della piazzaforte, dal ciglio tutto orlato di mitragliatrici, guardavano l’invidiato Battaglione preceduto e fiancheggiato dalle pattuglie di sicurezza, disteso a valle e sveltamente diretto verso l’Amba dell’Albero, prospiciente la valletta in cui si cela Abbi-Addi; 16 ufficiali, 480 uomini di truppa sono agli ordini del seniore Luigi Valcarenghi, che del suo Battaglione ha saputo fare, con tenace preparazione, una perfetta massa d’assalto, quasi un reparto di quei vecchi Arditi che egli comandò sul fronte del Piave.

Lungo la direttrice di marcia forti gruppi nemici impegnarono le pattuglie dell’ala sinistra, che, prontamente rinforzate, poterono permettere l’avanzata rapida di tutto il Battaglione verso il suo obiettivo. Se non che gli esploratori avvertivano il comandante che la posizione era difesa da numerosi armati asserragliati in un recinto.

Un deciso ordine getta gli esploratori e la compagnia di avanguardia all’attacco frontale, mentre altre due compagnie devono aggirare cautamente e lestamente il nemico. I primi assalitori, tutti bravi ragazzi friulani, capeggiati dal capo ma- /132/ nipolo Israele Barnaba, d’un balzo soverchiano l’avversario. La manovra riusciva in pieno, tanto che, senza perdita alcuna, pur tra intenso fuoco nemico, in brevi istanti i nostri occupavano il campo costringendo la massa avversaria alla fuga. Sul terreno, fra morti e feriti, il nemico aveva lasciato i cadaveri di quattro dei più influenti capi del Tembien.

Mentre i nostri si dispongono a difesa per ogni parte della posizione conquistata, si accorgono che il nemico, riavutosi dalla grave perdita, corre ai ripari. Sono notati folti gruppi che scendono dai roccioni sovrastanti il paese di Abbi-Addi e si ammassano fra i «tukul», mentre altre colonne di centinaia di armati accennano a un aggiramento. Il fuoco delle nostre mitragliatrici continua a battere con insistenza e con evidentissima efficacia tutti questi movimenti di accerchiamento.

Verso le 13,15 il Battaglione, giusta gli ordini, deve iniziare il suo ritorno alla base di partenza. Il nemico, accortosi del movimento, si fa più audace. Tutto all’intorno, fra le pietre ed i cespugli, fu un brulicare di bianchi sciamma, un levarsi di fucili e di mitragliatrici. Precisi ordini del nostro Comandante raccolsero allora tutto il Battaglione su due rialzi, dove le CC. NN. rispondevano arditamente al fuoco nemico. Il maggior numero di feriti si ebbe in quelle due ore di ininterrotto fuoco. I medici Bellusci e Mancini si prodigarono eroicamente, dando fondo ai rifornimenti degli zaini di sanità.

Dal posto di comando il generale Diamanti seguiva tutto lo svolgersi del combattimento. Pronti ordini gettano, verso i nostri, due compagnie di rincalzo: la seconda compagnia del XII Battaglione Eritreo e la terza compagnia del nostro IV Battaglione, comandata dal centurione Capparelli. Queste, appoggiate da tre carri veloci, prendono di fianco la colonna aggirante e con le raffiche della mitraglia le infliggono forti perdite, costringendola a ripiegare in disordine. Interviene l’artiglieria che martella in pieno il nemico in fuga.

Mentre la massa nemica fugge, nuclei sparsi continuano, con quella tenacia che è propria di questi combattenti primitivi, a tenere i nostri movimenti sotto il loro fuoco.

Le perdite nemiche accertate risalgono a qualche centinaio. Da parte nostra si ebbero due morti nel Battaglione in- /133/ digeno, quindici feriti fra le Camicie Nere e di più una ventina di altri feriti leggeri.

Nè vi è da meravigliare se dopo ore di continuo fuoco infernale le nostre perdite non siano state proporzionate alle ingenti perdite del nemico. La guerra bisogna saperla fare. Il numero dei caduti non sempre dice l’eroismo della truppa, perchè i combattenti autentici sanno che ordini oculati, disciplina perfetta, preparazione tattica della massa possono impedire più d’una strage e conservare alla Patria vite preziose. Le nostre Camicie Nere, con lunghi mesi d’esercitazione, si sono rese addestratissime: in questo primo drammatico incontro con le forze nemiche hanno rivelato – fra l’altro – una qualità essenziale del combattente coloniale, la parsimonia nell’impiego delle munizioni. Non un colpo a vuoto: ogni pallottola ha avuto il suo bersaglio.

E poi non v’era che da leggere negli occhi scintillanti di ciascuno per vedervi quella serenità permanente dello spirito, non turbata neppure dalle più tragiche situazioni, che è la migliore condizione di una efficace riuscita bellica. Anche i feriti furono meravigliosamente sereni.

Il Duce sarà certamente soddisfatto di quei suoi Battaglioni, i primi che Egli volle inviare all’impresa.

Dicembre 1935-XIV.

/134/

Natale di sangue

Dopo il combattimento del giorno 18 dicembre, ci giunse il rinforzo di un’intera brigata di ascari, guidata dal generale Dalmazzo. Si potè quindi estendere la fronte, ridiscendendo a valle ed occupando la collina che fronteggia Abbi-Addi. Su quella posizione che portava evidenti i segni del recente combattimento, si appostarono due nostri battaglioni, mentre un terzo rimaneva a difesa della selletta di Vuerì e un quarto continuava a formare il presidio del Passo di Abarò, nel cuore delle montagne verso Macallé.

Il nostro Comando pose le tende all’ombra del grande ed unico sicomoro che sta sulla vetta. Sul terreno ai piedi dell’albero una larga chiazza di sangue raggrumato ricordava che due giorni avanti un giovane tiratore abissino era stato abbattuto dalle nostre mitraglie, mentre, occultato fra gli alti rami, era intento a sparare sui nostri. S’alzarono là presso, le antenne della stazione radio, col tricolore. Due batterie piazzarono i pezzi vicino alle nostre tende. Il Comando della seconda brigata indigeni prese posto sulla falda del colle ed i battaglioni degli ascari s’attendarono verso il fondo della valle.

Non tardarono gli abissini a rivelarsi con scariche intermittenti di fucileria dalle falde dei monti sovrastanti e soprattutto dall’Amba Tezellè, che si eleva dominatrice a sud-ovest di Abbi-Addi. I colpi venivano normalmente preceduti da un suono di trombetta quale si usa da noi nelle fiere villerecce. Evidentemente era questo un segnale di comando dei regolari dell’esercito del Negus. Scoperti così dai nostri, venivano controbattuti con precisi colpi di artiglieria.

Lo scontro con le nostre truppe si ebbe nella domenica, 22 dicembre. Sin dal primo mattino i battaglioni di ascari, rafforzati da qualche compagnia delle nostre Camicie Nere, si diressero verso il paese e, superatolo, infilarono le mulattiere che si arrampicano nei crepacci dell’asprissima montagna. Tutta l’Amba Tezellè era brulicante di nemici che si mostravano sfacciatamente sulla vetta e scendevano in orde ad incontrare l’assalto dei nostri ascari.

/135/ Le artiglierie appoggiavano l’avanzata, lo celebrai la Santa Messa festiva accompagnato dalla scarica continua dei prossimi cannoni.

Gli scontri furono parecchi: in qualche punto l’orda nemica scendeva come un torrente di energumeni, armati alla rinfusa o di “...nuovissimo moschetto belga...” si tratta del fucile automatico M1918 Browning, sviluppato a partire dagli ultimi tempi della I guerra mondiale, che negli anni ’20 e ’30 fu prodotto in diverse varianti ed esportato in tutto il mondo anche da fabbriche di altri paesi tra cui la belga FN Herstal col nome di FN Mle 1930 nuovissimo moschetto belga a ripetizione e a mitragliatrice, o di vecchi archibugi, o di lancie, o di semplici bastoni. L’impeto barbaro fu contenuto non senza grandi sacrifici. Verso l’una pomeridiana sentimmo che una nostra batteria di montagna, piazzata sui roccioni dominanti il paese, ripeteva celermente i colpi: evidentemente, circondata dal nemico, sparava a zero. Esso era infatti giunto a cinquanta metri dai pezzi, e non fu respinto che da un efficace e celere soccorso delle prossime truppe. La lotta durò sin vero sera, riaccendendosi ad intermittenza qua e là per le forre dove il nemico cercava lo sfogo a valle, e dove lo trattennero efficacemente i nostri blocchi.

Intervennero pure gli aeroplani. Un aviere di ricognizione fu ferito: tre apparecchi da bombardamento, dopo lungo volteggiare, scoprirono i concentramenti avversari e scaricarono le bombe sulle vallette retrostanti.

Le perdite nemiche salirono ad oltre il migliaio. Il numero degli ascari curati per ferite al nostro posto di medicazione fu di un centinaio. E noi, nazionali, piangemmo la morte di ben sei ufficiali dei battaglioni indigeni: le salme di due dei quali poterono venir subito recuperate e furono da me composte in onorata sepoltura. Le altre salme rimasero sul terreno nemico: e testimoni oculari ci riferirono le orribili mutilazioni cui furono soggetti gli agonizzanti nostri fratelli.

A notte, tra i feriti venne portato alla nostra sezione di sanità un prigioniero, raccolto sul campo con una gamba spezzata. Egli aveva tutta la fisonomia degli amhara e portava appeso al collo il sigillo della dignità di «balambaràs». Compiuta la medicazione fu trasportato in barella al nostro Comando, dove fu sottoposto a lungo interrogatorio. L’interprete gli traduceva in amharico le domande e ripeteva quindi in italiano le risposte che egli dava.

Confortato e meravigliato del nostro umano trattamento, /136/ egli proclamava la sua riconoscenza a Dio ed al Governo italiano: ci diede delle informazioni che, confrontate con quelle di altri prigionieri, apparvero veritiere. Si seppe così con sicurezza che al di là del monte Tezellè i diversi capi avevano raccolto un esercito di oltre tredicimila uomini e che si attendevano le forze di ras Sejum per scatenare un’offensiva su tutto il Tembien.

Illustrazione fra le pp. /134/ e /135/
Da otto mesi...

«... da otto mesi nelle terre d’Africa con i militi che preparano le sorti della nuova Italia imperiale ...»

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Trascorsero due giorni in una relativa tranquillità, lo potei così, per gli accordi presi con S. E. l’On. Bisi, che era in funzione di Aiutante di campo del generale Dalmazzo, scegliere il luogo per il cimitero ed inumarvi le salme dei nostri morti. Fra di essi feci pure seppellire l’unico ascaro cattolico morto in seguito alle ferite riportate sul campo. Il suo corpo era stato avviluppato in diverse lenzuola e legato come un’antica mummia: e per farlo scendere nella fossa fu stesa, al di sopra, una tela che non venne rimossa se non quando fu totalmente compiuta l’inumazione. Intanto gli ascari compagni piangevano, chiamando ad alta voce il defunto: «fratello, fratello mio», e accompagnavano il pianto con lievi movimenti di danza.

In quei giorni venne fucilato, per tradimento operato a nostro danno, lo schiavo di un santone mussulmano, nostra vecchia conoscenza. Questo schiavo si chiamava Chianochiano-rrù sembra un soprannome beffardo di vaga assonanza napoletana «Chianochiano-rrù», e quindici giorni prima era stato deferito al nostro Comando quale principale autore di un furto.

Gli si disse allora: «Domani ti fucileremo», ed egli, da buon fatalista mussulmano, rispose freddamente: «Io sono già un uomo morto». Gli fu fatta grazia della vita e rimase anzi volontariamente alcuni giorni quale aiutante presso la cucina degli ufficiali. Andava al rifornimento dell’acqua, macinava il caffè e teneva allegra la brigata dei cuochi, da cui era stato soprannominato Taitù 1849-1918 moglie di Menelik II «Taitù». Il suo sorriso sciocco, diffuso sulla nera faccia scimmiesca, lo faceva giudicare un inetto avanzo di umanità. Ritornò poi al suo «tukul»: e il santone mussul- /137/ mano battè per più giorni il tamburo, per far festa al generoso manghestì “governatore”, qui probabilmente vuol essere una traduzione di “Duce” «manghestì» d’Italia. Ma presto si seppe che lo schiavo aveva fatto una capatina nel campo del degiac Amarù a riferire sulle cose nostre. Al suo ritorno la perfida spia fu celermente giudicata e giustiziata.

Persino nella mattinata del giorno 25 dicembre, sacro alla memoria gioconda del Natale del Cristo, si dovette procedere alla esecuzione di un amhara, svelato quale spia dallo stesso «balambaras» ferito e prigioniero, di cui parlammo dianzi.

Poche cose intorno a noi, in quel giorno, ci parlarono della grande commemorazione sì cara al cuore cristiano del nostro popolo. Il sole tornava rabbioso come sempre nel cielo incorniciato dai rigidi e secchi monti del Tembien. I soliti aerei vennero a compiere le ricognizioni sul campo nemico: ma, passando su di noi per darci il messaggio con le novità, ci gettarono qualche sacco contenente generi di conforto inviatici dai Comandi superiori.

Diviso il dono natalizio fra la truppa, ogni milite ebbe una sigaretta: piccola cosa, che fu gradita assai e pel pensiero e pel modo con cui era stata donata e perchè nei più giovani nostri gregari riconfermava la dolce nostalgìa dei doni natalizi di altri anni e di altri luoghi.

Pure in quel giorno la truppa attese ai soliti lavori per costruire le fortificazioni: ma per una mezz’oretta le opere furono sospese per assistere alla santa Messa. Dinanzi all’altarino eretto all’ombra del grande sicomoro e fasciato dal tricolore, stavano tre generali: il generale Scarampi del Cairo, il generale Dalmazzo ed il generale Diamanti. Con le Camicie Nere era inquadrato un grosso plotone di ascari cattolici. La banda dei battaglioni nostri eseguiva in sordina toccanti melodie, diffondendo nei cuori religiose e forti rimembranze.

Alla comunione alcuni militi si accostarono all’altare per ricevere il Pane dei forti e diedero lo spunto al discorso del cappellano, che parlò della pace interiore annunciata dagli Angioli nei cieli betlemitici e conservata nel mondo, per gli uomini di buona volontà, dalla virtù di quel Cristo, che dalla nascita alla morte fece della sua vita un richiamo a quella vita /138/ interiore che Egli rese bella, pacifica e gioconda anche nello strazio delle membra e fra gli orrori della guerra più crudele.

Nelle prime ore del pomeriggio natalizio si accese sul nostro panorama una visione fantastica. I «tukul» di cui è formata Abbi-Addi si incendiarono l’uno dopo l’altro, gettando nel cielo una selva di fiamme e di dense colonne di fumo; i tetti di paglia scomparivano divorati dalle pire: tutti, anche il gebì grande edificio a pianta circolare, di solito residenza di un capo «ghebì» che ci aveva ospitati qualche giorno prima, nè vi fu eccezione che per le chiese. Fatta prontamente dalle nostre autorità un’inchiesta sulle cause del fatto, fu scoperto quale autore un ascaro che motivò le sue ire incendiarie con questa dichiarazione: «lo devo vendicare il mio fratello, che quegli assassini hanno ucciso l’altro giorno». Il sangue non si smentisce!

Per tutta la serata le nostre batterie continuarono a tuonare. Nell’intimo cuore di ciascuno suonavano certo le melodie delle lontane campane di Natale, suscitando le nostalgiche visioni di mense «fiorite di occhi di bambini e di sante canizie di mamme adorate». Ma bisognava astrarsi molto dalla realtà circostante, dalle bocche fiammeggianti dei cannoni, dalle pire degli incendi, dalla povertà delle mense per poter rivivere ad occhi aperti la tradizionale e passionata gioia natalizia.

Alla cerimonia dell’abbassa-bandiera si volle arditamente dare tutta la solennità possibile. Al cospetto del nemico, che certamente spiava dai suoi covi, meravigliato di tanta arditezza, la banda dei battaglioni eseguiva la «Marcia Reale» «Il Piave», mentre il tricolore scendeva lentamente sul campo. Si eseguì poscia un concerto inframmezzato dal tambureggiare dei prossimi cannoni, che rendeva la musica maggiormente solenne. Le Camicie Nere assistevano con viva soddisfazione a quel singolare occaso del Natale. Un giovanissimo, al termine della cerimonia, mi si avvicina e con gli occhi accesi di entusiasmo mi sussurra: «Ora ho cenato... con la musica sola: ma questa, stasera mi sfama!».

/139/ Tre giorni dopo il Santo Natale un ordine repentino richiamava il Comando delle nostre truppe ad Addi-Zubahà, sulla via dei nostri rifornimenti. Due battaglioni, il secondo ed il quarto, rimasero con gli ascari a presidiare la Sella Vuerì, e gli altri scesero a quei luoghi già occupati circa venti giorni prima dalle nostre truppe e che ora erano fatti segno alla più crudele reazione delle bande armate, che infestavano le nostre vie di accesso.

Nel pomeriggio del giorno 28 dicembre, giunti sugli alti roccioni di Addi-Zubahà, ci rendemmo conto del perchè fosse stato ordinato il nostro intervento. Un autocarro militare da Tausocà, località situata a dieci chilometri da noi, sulla strada di Hauzien, aveva appena portato le salme di ventidue soldati del quarto gruppo salmerie e carreggio del nostro Corpo d’Armata. Il giorno innanzi quei ventidue salmeristi avevano marciato in una colonna che recava i viveri alla sussistenza: ma, giunti quasi al termine del viaggio, furono improvvisamente assaliti da trecento armati che tagliarono loro la strada, sbucando improvvisi dai folti cespugli che per lungo tratto la fiancheggiano. I nostri si difesero ingaggiando duelli, a corpo a corpo, che diedero forti perdite al nemico: ma il numero e l’agguato prevalsero e i ventidue italiani giacquero, mentre il nemico faceva man bassa sulle salmerie e bestialmente seviziava gli uccisi e li derideva con oscene mutilazioni e poi, con un canto feroce di barbara vittoria, si allontanava trasportandosi i suoi feriti ed i suoi morti. Quando quelle salme venivano estratte dal carro impolverato in cui erano state ammucchiate, nel constatarne una per una lo scempio, gli occhi delle Camicie Nere luccicavano di pianto e le mani, pietosamente insanguinate nel trasporto delle carni dei fratelli martoriati, andavano istintivamente ai pugnali pronti a scatenare giustizia sul brigantaggio, legalizzato dalla millenaria barbarie e dalla inettitudine, e forse dalla complicità diretta, dell’autorità sovrana.

La terra, in una lunga fossa comune, ci tolse dagli occhi lo spettacolo efferato di quel macello di umanità, mentre l’ultima benedizione del sacerdote implorava dal Signore pace alle anime, conforto a ventidue madri lontane, ignare ancora /140/ di tanto strazio, e giustizia stroncatrice delle barbare oscenità. Qualche giorno dopo, un’altra volta il nemico doveva rinnovare i suoi furori di iena contro di noi.

Il 3 gennaio del nuovo anno, quattro militi del primo battaglione, che erano scesi in capo alla colonna dell’acqua sul Mai-Sherghetà, furono circondati fulmineamente e trucidati. I compagni sopraggiunti misero in fuga gli assassini, che già si erano accinti alle oscene operazioni sulle vittime. Tre di queste erano già spirate. La quarta, orribilmente seviziata, visse ancor due ore di un’agonia spasmodica, ripetendo ai compagni accorsi: «Ditelo al Duce quel che ci fanno!».

4 Gennaio 1936-XIV.