I Nicola, restauratori in Aramengo
Guido Nicola, l’entusiasmo che sa di gioventù
Il Maestro che cominciò arrotando una falce

Quando le cose ci vanno storte, spesso usiamo la forma dialettale: “Andiamo a ramengo”; giorni fa, percorrendo la strada n° 458 che da Chivasso porta ad Asti, scorgendo il cartello indicante “Aramengo”, c’è sorta la curiosità di vedere se in quel paese erano state raccolte solo... cose storte.

La strada s’insinua fra le colline e dopo qualche centinaio di metri, improvvisa appare la chiesa, svettante “diritta” nel cielo, quasi a protezione del modesto nucleo di case.

Su di una lunga panca, “diritta”, addossata al muro, a fianco della buca delle lettere, una decina di persone è impegnata nella chiacchierata domenicale, an sël trav; la conversazione s’interrompe, aspettando la nostra domanda.

— Che c’è di bello da vedere in paese, oltre alla chiesa ed al panorama?

— “Il laboratorio di restauro del professor Nicola”

Improvvisamente ci siamo ricordati che Guido Nicola è considerato il più importante restauratore operante oggi in Italia, quindi un’intervista ad un personaggio di tale calibro è diventata prioritaria nei nostri programmi.

Lo scalpiccio dei nostri passi sulla ghiaia del cortile innesca un abbaiare corale (ben 21 cani da guardia), che viene tacitato dal richiamo di un signore in un camice bianco (quasi bianco per quanto lo permettono tracce di colori, distintivo di chi è abituato a maneggiare i pennelli), un signore non troppo alto, dall’aspetto mite che, di fronte alla nostra titubanza, ci porge la mano e con un sorriso disarmante, precisa:

“Oltre a quelli elettronici, sono il nostro antifurto, ma con me... niente paura.”

C’eravamo immaginato un professor Guido Nicola, alto, massiccio e supponente per cui il primo approccio ce lo ha reso immediatamente simpatico.

Altri camici bianchi vanno avanti e indietro; il professore ci presenta la figlia Anna Rosa, il genero Nick e la nuora Gianna, giustificando l’assenza del figlio Gian Luigi, impegnato con... qualche mummia e della moglie Maria Rosa che non contenta dei restauri di bandiere, divise e ventagli, stamani è andata ad assistere un’amica ammalata.

Rimandiamo la visita alle sale operatorie e di degenza degli oggetti d’arte: tele (anche di dimensioni eccezionali che raggiungono i 150 metri di superficie), tavole, affreschi, mosaici, statue lignee e lapidee... ; rimandiamo il tutto per accettare l’immancabile tazzina di caffé che Guido Nicola ci vuole offrire in casa, in quella che lui chiama la manica lunga dove è ospitato il clan Nicola.

Si entra in casa passando sotto un arco di rose rosse, attraverso le quali fa capolino una lanterna in ferro battuto; dietro la porta, salgono i vecchi fili elettrici con calza in cotone, avvolti a spirale e fermati dai piccoli isolatori in porcellana; due porte a doppio battente c’introducono in una saletta-studio dove, ci confessa il professore, ama intrattenersi, pur essendo la dimora del figlio.

La sensazione è quella di un reverenziale rispetto dei ricordi.

Gli episodi, le esperienze di una vita decisamente singolare emergono dai ricordi del nostro personaggio: è nato proprio qui ad Aramengo nel 1921 e tutti i suoi ricordi ce lo fanno paragonare ad una spugna che ha assorbito avidamente tutto ciò con cui è venuto a contatto.

“Ero bambino (ultimo di sette fratelli, tre maschi e quattro femmine), nel ‘36, a 15 anni, dovevo fare la sesta elementare, andavo a scuola a Cocconato, a piedi, per i sentieri dei boschi, quando papà che era cantoniere, muore; era il caso che mi dessi da fare. Vittorio, il barbiere, mi ha chiamato: vieni che t’insegno ...”

Fra i ricordi che lo legano al padre, emerge l’episodio della “ranza”: Guido non aveva il permesso di usare la falce ma, un giorno, mentre il padre era andato a riprendere la mucca che gli era scappata, prese l’arnese e:

“Mi misi ad arrotare, come più volte avevo visto fare da Fiurentin, a bate la ranza, con la crosa tra le gambe e poi ad affilare: dosent-tërzent (il caratteristico rumore della pietra sulla lama)... avevo imparato ”.

La spugna aveva assimilato la prima nozione.

Mentre da Vittorio mi perfezionavo nel maneggio di forbici e rasoi, con Cilestrin, Celestino, avevo imparato a suonare il violino. A sedici anni facevo parte di un piccolo complesso jazzistico e con Cilestrin e Baldo andavamo a suonare, accompagnati dalla crona (il contrabbasso) e dal piano, quello che portavamo in giro con il biroccio (il calesse).”

Il racconto prosegue e scopriamo che l’incontro determinante, risolutivo per il futuro maestro del restauro, avvenne poco prima della guerra, quando ad Aramengo giunse il famoso antiquario-restauratore-pittore, professor Borri.

Era stata sua moglie, una triestina a suo tempo sfollata quassù, che glielo aveva suggerito; Aramengo era considerato un paese sicuro, un paesino sperduto fra le pieghe delle colline, rifugio ideale per le innumerevoli opere che il mercante d’arte, venuto da Genova, in sentore di guerra, sperava di salvare.

“Davanti a quei quadri che non erano i soliti che io vedevo in chiesa (per sette anni sono andato a servire Messa) e vedendo lui dipingere, soggetti mitologici, paesaggi bellissimi... rimasi come folgorato e poi i suoi figli suonavano: una il pianoforte e l’altro il mandolino ed io... io il mio violino.”

Sentiamo la necessità di fargli prendere fiato, ché lo vediamo rivivere quei ricordi inebrianti con troppa partecipazione; approfittiamo per scattare qualche foto con la tazzina del caffé sospesa a mezz’aria, ma Nicola riprende:

“Il professor Borri, insediatosi qui dove c’era l’ufficio delle imposte, fra un viaggio e l’altro, si sedeva davanti al cavalletto a dipingere ed io, affascinato, l’osservavo e ogni giorno di più sentivo il desiderio di provareprofessore, vorrei provare? — ... comincia a disegnare... A me piaceva fare i cani, gli animali e lui mi osservava... e alla sera venivo a suonare con i suoi figlioli... A diciannove anni sono andato a fare il soldato e il professor Borri salutandomi disse — quando torni, vieni da me che ti voglio mandare a scuola .”

Guido Nicola ci racconta del periodo bellico, dei cavalli del Nizza Cavalleria e dei muli del genio alpino, dello zaino affardellato e delle pezze da piedi e dei privilegi derivanti dal mestiere imparato da Vittorio il barbiere.

L’otto settembre lo sorprese a Vigevano; ormai in abiti civili, prima di Trecate salta dal treno e, a piedi torna a casa.

Il 25 aprile è a Torino col tenente Burlando e il sergente maggiore Gino Biz (medaglia d’oro partigiana), su un millecento e sta scendendo da Via Villa della Regina:

“Ferma Aldo, ancioda! avevo visto via Cosmo, lasme andé! Era l’alba, così bardato di Sten, bombe Sip e cartucciere, suono al numero 4, viene ad aprire il professore, ancora in pigiama... “

Riportare ora tutto il racconto, anche se estremamente interessante, impegnerebbe almeno un paio di pagine; cerchiamo di riassumerlo.

Finiti quei giorni, quelli della Liberazione, posate le armi, Guido Nicola è tornato dal professor Borri che lo ha mandato alla scuola di restauro del professor Nicoli; per mantenersi, trova lavoro in una bottega di barbiere in via Napione 29, da un certo Naliati, un romagnolo avanti negli anni che gli cederà il negozio.

In casa Borri, Guido ritrova quella ragazzina che ad Aramengo, prima della guerra, suonava il piano; ora è una signorina di 16 anni che frequenta il Conservatorio. Riprendono a suonare assieme e dagli accordi fra violino e pianoforte... nasce l’amore.

Maria Rosa Borri diventa Maria Rosa Nicola e lascia gli agi della casa paterna per trasferirsi nel retrobottega di Via Napione, dove prende corpo il primo laboratorio di restauro.

“Insieme, piano piano, con mia moglie abbiamo incominciato a fare restauri; continuavo a carpire i segreti del lavoro, dai maestri per i quali lavoravamo; ricordo Nicoli, Abossetti e Patrito: quest’ultimo, un chimico, pittore e restauratore, pietra miliare della mia formazione.”

Sono ormai 56 anni che con Maria Rosa lavorano assieme; hanno trasmesso capacità e passione ai figli ed ognuno si è specializzato in un settore particolare.

Guido Nicola è insuperabile nel... guarire i dipinti murali a tempera, gli affreschi. Maria Rosa segue il restauro del materiale cartaceo, quali stampe, disegni e papiers peint (è forse l’unica restauratrice che riesce a dividere con il bisturi, un foglio di giornale nel senso dello spessore). Gian Luigi, il figlio, è impegnato con sarcofagi, statue e manufatti provenienti per lo più da musei (grande è l’esperienza che ha acquisito partecipando alle campagne di scavo e restauro promosse dall’Università di Roma a Tebe e Antinoe in Egitto e da quella di Pisa a Saqquara e nel Fayoun). Gianna, Nick ed Anna Rosa, nuora, genero e figlia, sempre corroborati dalla passione, dall’entusiasmo e dall’esperienza del padre, operano e coordinano con specifiche competenze (avvalendosi di apparecchiature sofisticate ed aggiornatissime quali raggi X, ultravioletti, fluorescenze, videomicroscopi a fibre ottiche ed anche carroponti e transelevatori), coordinando più di cinquanta addetti, legati da uno spirito di collaborazione che fa rivivere l’anima della vecchia bottega artigiana.

La nostra chiacchierata viene interrotta dalla richiesta di consulenza da parte di Anna Rosa che sta seguendo una cliente, la marchesa Bollini che ha dei problemi per un quadro del ‘500 cui sono venute le bolle.

Seguiamo maestro, allievi e clienti che vengono accompagnati attraverso i vari locali dove sono raccolti in temporanea ed occasionale convivenza opere d’arte di epoche diverse: un telero di Veronese ed un reperto dell’antico Egitto, una tavola giottesca ed un Pelizza da Volpedo.

Ora qua, ora la, il maestro ci spiega:

“Questo viene da Milano e viaggia su dei grandi rulli, quest’altro viene da Bergamo ed è smontabile (uno studio in tela per un grande arazzo), quella enorme tela laggiù viene da Napoli, è per un soffitto, erano 32 pezzi ed ora, ricomposto e restaurato, aspetta un salone adatto per essere riposizionato.”

Il professor Nicola spiega come avvengono le operazioni di rintelatura e foderatura delle tele, spesso di grandi dimensioni e ne evidenzia la difficoltà nella contemporaneità della stesura dei collanti e, sala dopo sala, capannone dopo capannone, tutti a temperatura ed umidità controllata, ci riserva l’ultima sorpresa:

“Ecco la peota, l’imbarcazione, compagna del più famoso Bucintoro, giunta da Venezia, navigando sul Po ed utilizzata dai Savoia, per matrimoni e cerimonie. Ora è passata alla Regione, era nei depositi sotterranei di Palazzo Madama e dopo il restauro, andrà al Castello di Venaria. Qui sono vietate le fotografie... “

Torniamo in casa con Guido Nicola nonno, orgoglioso dei nipoti:

“Due sono maschi, di mio figlio, uno lo aspettiamo di ritorno da Barcellona dove ha discusso la tesi per laurearsi in architettura e l’altro è al quarto anno di chimica e l’ultima è una bimba di 10 anni, figlia di Anna Rosa.”

Il professor Nicola ricorda tanti incontri avuti durante tutti questi anni, mezzo secolo d’attività di restauro, incontri con personaggi famosi.

Ricorda tra gli altri il pittore Guido Bertello che frequentava con la fidanzatina Alba, il laboratorio di via Santa Giulia, la bottega dove si chiacchierava d’arte, Bertello che ritrasse suo figlio bambino; ricorda Roberto Carità, soprintendente ai monumenti a Torino nel primo dopoguerra, poi a Roma all’Istituto Centrale del Restauro ed infine soprintendente ai monumenti e gallerie, a Sassari ed a Nuoro; persone che pure noi abbiamo avuto la fortuna di conoscere.

Dalla “ranza” alla “peota”, con... “rasoi, violino e pennelli ”, abbiamo seguito Guido Nicola e, tralasciando il valore dell’artista, di cui tanti altri hanno parlato e parleranno (a fine giugno, a Sasso Corvaro, assieme ad importanti personaggi internazionali quale lo svizzero Paul Bucherer, Jamil Sarwar di Kabul, Paolo Viti di Venezia, Sandro Cecchi Paone, Guido Nicola è stato premiato quale capostipite di una dinastia di restauratori), abbiamo scoperto una figura, un uomo che ha saputo imparare tutto dalla vita (la spugna che ha assorbito ogni cosa) e, con ineffabile semplicità trasmette con un candido sorriso, a quanti lo avvicinano, tutta la sua ineguagliabile competenza.

adriano fogliasso

Scritto a Pino Torinese, il 15 luglio 2002
Riletto con piacere tante volte, aggiungendo... altri piccoli coriandoli di curiosità e sensazioni