Massaja
Lettere

Vol. 2

/251/

269

Al cardinale Alessandro Barnabò
prefetto di Propaganda Fide – Roma

P. 1 – F. 106rEminenza R.ma

Sciap – Kafa 13. Giugno 1861.
* Lagamara die 20. Febbr: 1862.

Dopo dieci anni di notte finalmente si è fatto giorno per me l’altro jeri colla ricevuta di un piego contenente una di Lei veneratissima del 20. Aprile 1860., un’altra del 18. Settembre 1858., una terza del 20. Febbrajo 1857., una quarta del 29. Decembre 1859., una quinta che è instructio S. C. circa alcuni quesiti da me fatti da principio della mia entrata in Gudrù, una sesta che è una coppia → In supremo Apostolatus fastigio dell’enciclica di Gregorio XVI. di felice memoria sul commercio dei neri. Deo gratias, benché non sia ancora soddisfatto il bisogno di questa povera missione, perché sono molte le cose che si sono scritte, delle quali non ho potuto prendere coppia, attese le angustie di ogni genere che mi opprimevano, pure non nascondo la mia estrema contentezza nel ricevere questi documenti qualunque siano, perché i primi che mi arrivarono a consolarmi nel quasi totale abbandono ed isolamento di dieci anni; se non altro, ricevuto questo segno di paterna di Lei cura per questa missione, posso sperare di riceverne ancora altri, e ciò mi farà coraggio a scrivere, persuaso che V. Em. R.ma, e la S. Sede prenderanno interessamento per questa missione che io prima credeva disprezzata ed abbandonata; prima di tutto perciò debbo domandarle perdono del mio stile passato di lagnanze forse troppo impertinenti, [p. 2 – f. 106v] quale prego di non attribuire a mancanza di rispetto e di subordinazione, ma sibbene ad un’eccessiva esasperazione del cuore oppresso ed afflitto da tutte le parti, come potrà immaginarsi ed avrà potuto capire dal contesto delle mie lettere; io doveva morire cento volte vittima della tribolazione, ma Iddio ha voluto conservarmi per viste siano di misericordia, siano di maggior giustizia sua, non lo so. Comunque, sperando un benigno compatimento, senza trattenermi in cerimonie passo a risponderle brevemente sul contenuto delle suddette di Lei veneratissime, e sopra le risposte ricevute dalla S. C. ad alcuni dubbj proposti.

Nella di Lei veneratissima [del] 20. Febb.o 1857. mi raccomanda di fare nessuna innovazione nel rito, e di aspettare la correzione del Pontificale, Rituale e Messale Romano Etiopico, quale si stava lavorando, e le ordinazioni della S. Sede che saranno per sortire in tale circostanza. Io credo che a quest’ora Ella avrà ricevuto alcune mie considerazioni sul rito che conviene ai paesi di questo Vicariato; tuttavia credo bene farle di nuovo presente ogni cosa a questo rapporto, a scanzo d’impicj che potrebbero avvenire, ed anche perché Roma deve essere informata di tutto. Prima che i materiali del rito etiopico possono essere completati, esaminati, ed ordinati dalla /252/ S. Sede, spero che io sarò già passato al rito universale ed invariabile della Chiesa dei trapassati, perché conosco un tantino le difficoltà che vi si incontreranno a tal uopo; comunque io protesto di avere nessun’antigenio per detto rito quando venisse ordinato anche per questo Vicariato, [p. 3 – f. 107r] però, riflettendo che Roma deve essere informata, e ciò che può o non può convenire a questi paesi deve conoscerlo principalmente per le mie relazioni, mi credo obbligato a dire quello che sento in proposito. Secondo il mio poco calcolo la Chiesa deve conservare il rito Etiopico per due ragioni; la prima sarebbe senza dubbio l’ostinazione del paese, il quale, come tutti gli altri paesi orientali, sacrificano a preferenza la fede che il rito, ostinazione che nasce dall’ignoranza, la quale gli rende materiali ed attallati [attaccati] alle abitudini esterne, e pochissimo curanti del dottrinale; che io sappia questa è la ragione principale e dominante, se pure una seconda ragione non sarebbe quella di conservare questo rito come un monumento abbastanza antico che potrebbe servire d’ornamento alla Chiesa sempre circondata di maestose varietà; resterebbe ora a vedere se queste due ragioni debbano considerarsi superiori alle ragioni che possono trovarsi in contrario. Il rito etiopico è un rito nato zoppico e monco, come la maggior parte dei riti orientali destinato a passare una vita miserabile di una letteratura piena di corruzioni e superstizioni, e prossimo a morire colla larva di nazione che lo sostiene; piantato il rito bisogna pensare a piantare anche la letteratura etiopica che ne viene di conseguenza; il paese Galla e Sidama, è un paese indipendente di governo, di genio, di religione, di costumi, e di tutto; tra l’Etiopia ed i paesi Galla vi è un’antipatia incarnata, e trovo più inclinazione nell’Etiopia per fundersi nei paesi Galla, di quello che si veda nei Galla per fundersi nell’Etiopia, come provano le immense emigrazioni dall’Etiopia ai paesi Galla, le quali formano qui più della metà della popolazione, e si noti che l’Abissinese passato [p. 4 – f. 107v] nei paesi Galla, del giorno medesimo diventa un Galla più pertinace di quelli che sono di stirpe Galla, e più difficile a convertirsi, cosa che prova l’odio incarnato alle instituzioni religiose del proprio paese; in prova del che il Gudrù limitrofo del Gogiam Cristiano, conta una metà della sua popolazione goggiamesi rifugiati, e non se ne vede uno a portare il nome di Cristiano colà, più facilmente si trovano al di qua; le difficoltà del ministero che si opponevano in Gudrù, il nome di preti odiato a morte segnatamente dai Gogiamesi rifugiati e divenuti tutti Galla pertinaci; per altra parte poi la Chiesa e lo spirito dell’apostolato europeo con molte spese e fatiche dopo molti anni potrà, da quanto pare, sperare qualche cosa di consolante dalle fatiche di questo Vicariato Galla e Sidama; spese e fatiche enormi per trapiantare nei paesi Galla e Sidama un rito ed una letteratura corrotta, alla quale il paese non ha genio affatto, non saprei il perché, tanto più che la letteratura abissinese potrebbe essere anche un vehicolo per trapiantare qui le superstizioni di quel paese, delle quali i libri sono pieni. Questo non è ancor tutto, io credo sinceramente molto difficile e pericolosa l’operazione di tra- /253/ piantare il rito e la letteratura etiopica in questo Vicariato, ed eccole la ragione molto facile a comprendersi: noi missionarii europei non possiamo essere maestri ne di rito, ne di lingua etiopica, ed a questo effetto dobbiamo di necessità prendere dei dotti abissinesi, e per fare venire degli abissinesi nei paesi Galla si oppongono madornali difficoltà meritevoli tutti di gravissima attenzione: la prima difficoltà è che l’abissinese passato nei paesi Galla è più costoso degli stessi missionarii europei, più delicato, e più [p. 5 – f. 108r] pretenduto; la missione dovrà fare i suoi calcoli prima di tirarsi qui una quantità di gente simile. La seconda difficoltà che incontra la chiamata di dotti abissinesi in questi paesi, è che arrivati qui diventono molto orgogliosi e superbi, tanto cogli indigeni quanto cogli stessi europei, e ciò che non dicono nel loro paese, lo dicono qui, da una parola in su, non fanno che esaltare la loro Chiesa etiopica e nei loro discorsi la fanno eguale alla Chiesa latina, e ne portano ogni momento il paragone... aggiunga poi che gli europei non potendo essere forti nella lingua Ghez, perché dovranno sempre imparare molte lingue, il magisterio della fede diventerà senza freno, e nelle mani di questa gente piena di pregiudizii che tengono nascosti nel fondo del loro cuore, e poi lo mettono fuori a suo tempo; avvi ancora di più: l’Abissinese ha una religione basata sopra l’abitudine più che sopra la convinzione e sopra la grazia; dal momento che passa nei paesi Galla e vede rotto il filo delle sue abitudini, si dà al vizio con tutta facilità, ed il vizio lo porta allo spirito d’indipendenza e di scisma: di cinque allievi abissinesi allevati tutti dalla categoria dei servi, tre mi hanno dato gravi fastidj, di questi tre due Suddiaconi dopo che hanno costato molte fatiche sono ritornati nel loro paese al vomito, ed uno che è prete sono impiciato, non so come farlo partire: due sono buoni, ma l’esempio degli altri fa che gli temo più degli europei e debbo maneggiargli, benché abbia tutto a credere bene dei medesimi; i soli Galla sono tutti buoni. La terza difficoltà a chiamare qui dei dotti abissinesi, anche quando pajono buoni sono pieni di superstizioni che hanno succhiato col latte, e non le lasciano tanto facilmente: per esempio l’affare dei budda simile a quello dei maghi del nostro [p. 6 – f. 108v] medio evo, è un’affare serio, basta dire che qui in Kafa di quest’anno, taciati come budda o maghi saranno stati fatti schiavi più di due mille, ed altrettanti forse morti avvelenati dalla medicina velenosa che gli fanno bere; noi dobbiamo battere questo pregiudizio, come è chiaro, il P. Ajlù Michele, uomo zelantissimo e di una condotta buonissima in tutto il resto, pure non è ancora libero da questo pregiudizio, perché avvi in Abissinia; cosa si dirà poi dei dotti chiamati qui, e non armati di una fede e virtù eguale al P. Ajlù? vi è da temere che a spese dell’apostolato europeo non introduciamo qui tutte le magie terribili in Abissinia, e proprie segnatamente dei dotti. L’ultima difficoltà finalmente, per tacere di tante altre, sarebbe quella di piantare il rito etiopico distruggendo il rito latino già piantato, a cui il paese è già abituato e si abituerà sempre più per poco che si aspetti. Per una parte io veggo nessuna necessità di piantare il rito etiopico in /254/ questi paesi, i quali hanno veduto a piantare il rito latino senza nessun ostacolo; l’unico caso che Teodoro II ቴዎድሮስ Tewodros imperatore d’Etiopia dal 1855 al 1868 l’attuale Re conquistatore dell’Abissinia, venisse a conquistare questi paesi liberi da trecento anni e più, cosa che si deve temere, perché i paesi Galla sono privi di armi da fuoco per la diffesa, ed anticamente sappiamo che sono arrivati sin qui; in questo caso unico potrebbe farsi la questione se convenga o no, se possa o non possa essere un titolo più conciliabile per ottenere la tolleranza, benché sappiamo che in Abissinia ciò serve a nulla, e la moltiplicità anzi degli elementi abissinesi potrebbe in tale circostanza portare anche una fusione nella fede, cosa che non potrebbe tanto facilmente accadere colle abitudini latine, e con elementi latini, i quali [p. 7 – f. 109r] passando alla parte degli eretici, non potrebbero neanche dire la messa e battezzare – Per altra parte poi le difficoltà sopra notate sono gravi, e calcolando poi ancora finalmente i vantaggi sommi che recherebbe l’impianto del rito e della letteratura latina in questi paesi selvaggi, che non sono pochi, come ognuno può vedere, venendo questi paesi col rito e letteratura europea ad attaccarsi essenzialmente a noi, ed alla Chiesa madre, col vehicolo della lingua che può comunicar infiniti tesori di scienza e di spirito, cosa che, se piacesse a Dio di effettuare, col tempo potrebbe diventare anche alla stessa Abissinia un’appoggio e scudo per mantenerla nella fede cattolica; tutto calcolato, non credo di essere tanto fuori di strada dicendo convenire più il rito latino – Che in Abissinia si custodisca il rito stabilito è cosa giusta per non fare una violenza al paese con pericolo della fede, ma che si estenda di più questo rito in paesi che ne conoscono nulla, non soprei; quanto costino alla Chiesa questi frantumi di riti e di chiese orientali, monumento eterno della pertinacia loro nel non volere seguire la Chiesa madre seguita da tutto il mondo, in Roma deve conoscersi più di quello che si conosca da me, epperciò si saprà calcolare anche questo. In quanto a me, conosco il dovere di far presente le cose, ma conosco ancora quello di ubbidire alle determinazioni che si prenderanno, non bramando io altro che fare la volontà di Dio, unica merce che corre nel mio mercato. Come ho prima sopra questo oggetto fatto parecchie osservazioni, nel caso di decidere questo affare, potrebbe V. Em. R.ma, bramando conoscer bene tutto, fare esaminare bene dette mie lettere precedenti –

P. 8 – F. 109v Passo ora a parlare dell’affare dei schiavi, [come] cosa molto grave e delicata per questa missione, sia relativamente alla casa della missione, sia ancora relativamente ai Cristiani. Prima di partire dall’Europa nel 1846. ho avuto cognizione dell’Enciclica di Gregorio XVI. di fel. mem: di cui Ella si degnò mandarmi coppia, e sono venuto in questi paesi con delle idee molto severe a tale riguardo; nel 1847. trovandomi in casa dei PP. Lazzaristi, ho comprato due schiavetti Galla coll’intenzione di educargli, dei quali uno attualmente è Sacerdote, e l’altro ha dato in reprobum – Nell’Abissinia si trovano servi con paga, e si trova a comprare il necessario per vivere; nei paesi Galla, per la casa difficilissimamente si trovano servi, ma si trovano koloni che coltivano a metà i terreni, e si trovano /255/ anche grani a comprare, così con pochi schiavi di servizio si può ancora vivere meschinamente; qui nei paesi Sidama poi tutto è diverso: con qualunque paga non si troverebbe un servo per lavorare i terreni, per portare gli effetti da un luogo all’altro, perché queste cose sono proprie dei schiavi, ed i liberi a qualunque costo non lo fanno, a preferenza mojono di fame, e ciò che è più non si trovano grani a comprare in mercato, e per mangiare bisogna coltivare per necessità, e tutto per la mano dei schiavi; per questa ragione la missione di Kafa con circa 60. schiavi che ha, non è servita, ed ha sempre gran fame, perché la quantità di schiavi per una parte moltiplica la sortita pel mantenimento, e per l’altra essendo pigri, è poco quello che fanno, ed il vitto in Kafa è e sarà sempre una gran tribolazione, anche coll’abbondanza di mezzi provenienti d’Europa, a diversità dei paesi Galla in ciò molto migliori. Ciò premesso, per far conoscere [p. 9 – f. 110r] la posizione del paese sia per ciò che riguarda la casa della missione, sia ancora rapporto ai novelli Cristiani, premetto ancora la brutta condizione di coloro i quali non possono vendere schiavi; una storia accadutami nei paesi Galla farà conoscere questo: nel 1852. entrando in Gudrù, dovendo aprire la casa ho dovuto comprare di primo slancio quattro schiavi, tre femmine, ed un maschio; delle femmine una è fuggita dopo due settimane e non si è trovata più, una è morta dopo pochi mesi, ed il maschio è fuggito rubbando in casa effetti di gran valore; ritrovato dopo alcuni mesi, appena incominciava di nuovo servire un pochetto la casa, di bel nuovo se ne fuggì rubando; un briccone di costumi, uno spirito irrequieto che cercava querela coi vicini da tutte le parti, in un paese, dove se per disgrazia si versa sangue sarebbe stata compromessa la missione, al punto di dover sfrattare dal paese: come io non poteva venderlo, quando è fuggito ho ringraziato Iddio, perché così mi liberò dal continuo batticuore che aveva; passarono quattro o cinque mesi tranquillo, dopo improvvisamente mi viene l’annunzio che lo schiavo è stato ritrovato; per paura che mi rubasse più oltre e che mi compromettesse in facia al paese, ho fatto publicare che io non cercava questo schiavo, e che venendo non l’avrei più ricevuto; così il medesimo fu preso da un potente Galla che lo dichiarò suo schiavo, in facia al paese, ed io ho dovuto acconsentire, perché altrimenti qualunque cosa avesse fatto questo schiavo in paese sarebbe stato a conto mio, poiché nei paesi Galla lo schiavo colpevole di crime è mai cercato, è cercato bensì il padrone; un padrone poi ha bel dire che ha dato la libertà allo schiavo, perché servirà a nulla, non essendo per conto alcuno conosciuta la libertà data ai medesimi; [p. 10 – f. 110v] per disfarsi di uno schiavo pericoloso alla casa, non vi è altra strada, che venderlo, oppure ammazzarlo, oppure darlo a qualcheduno; la libertà che si suole dare in paese ai schiavi è una specie di adozione, per la quale bisogna dargli roba e dichiararlo erede come figlio, ma questa non fa per i cattivi, ne serve a mettergli fuori di casa per liberarsene. Dal momento che uno schiavo conosce che non può essere venduto, se coll’istruzione cristiana non aquista il timore di Dio, unica via per cui lo schiavo può divenire /256/ vero figlio utile alla missione, diventa inutile per il servizio, insoffribile a tutti, e molto pericoloso per la casa. Si è fatta più volte la questione se sia lecito cangiarlo con altro schiavo, ma io anche in questo ho sempre tenuto fermo, perché cangiare è lo stesso che vendere, trasferendosi il dominio in virtù di cui potrà essere venduto da chi lo prende; si è fatta ancora la questione se sia lecito ammazzarlo, quando avesse commesso un crime per il quale, a tenore del codice Cristiano meritasse la morte, ed io più facilmente sarei d’avviso potersi prendere questo partito per disfarsene, perché in paese non vi è governo, e dalle leggi del paese (trattandosi dei paesi Galla liberi) il padrone è il suo Re anche col diritto vitae et necis, non potendosi supporre un’uomo exlege [extra lege] e senza freno veruno, ma anche il partito di ammazzare ha delle difficoltà gravissime, che alla pratica non è eseguibile; nei paesi Sidama però, ed anche nei paesi Galla non liberi, non si può ammazzare lo schiavo senza licenza del Re. Anche il terzo partito di darlo a qualcheduno io lo credo illecito, perché una volta trasferito il dominio, il padrone che lo riceve potrà venderlo, e così il darlo può paragonarsi al venderlo; nel fatto surriferito io ho creduto di essere più [p. 11 – f. 111r] tranquillo perché lo schiavo era fuggito, ed io ho rifiutato solo di riceverlo, benché poi ho dovuto acconsentire all’appropriamento fatto da quel galla. Sul fine del 1858. la nostra casa di Limu trovandosi in bisogno di una schiava la comprò; poco dopo la compra i parenti di detta schiava di un paese vicino riclamarono al Re, affinché detta schiava venisse sequestrata e proibita di sortire da Limu, perché contavano di riscattarla; per questa ragione detta schiava non abbiamo potuto farla sortire da Limu per collocarla in un’altra delle nostre case, dove non fosse conosciuta, attesoché avendo una tacia d’infamia in Limu, quei della casa ed i vicini non la volevano più soffrire; nella visita che ho fatto a Limu, Monsignore Felicissimo, trovandosi impicciato per causa della medesima, mi domandò la facoltà di cangiarla, ed io, attesoché il Re l’aveva dichiarata riscattabile per una parte, e per l’altra i parenti non se ne curavano, considerando detta schiava come non ancora perfettamente nostra, ho permesso di consegnarla al Re, pregandolo di darcene un’altra; così avvenne la cosa, ed è questo il secondo fatto di questo genere da me permesso, attese le circostanze suddette, e posso assicurare che non sono affatto tranquillo anche di questo; l’aver raccontato questi fatti è per far conoscere le strettezze in cui si trova la missione a questo riguardo, epperciò conseguentemente anche qualunque cristiano dal non poter vendere i schiavi, perché ci troviamo in un paese che vive di schiavi, e le abitudini del paese suppongono questo elemento di necessità, ed il cangiare le abitudini del paese non è opera, ne di un giorno, ne di un uomo, ne di pochi anni, ne di poche persone. Ciò posto, non vorrei che Ella credesse anche solo momentaneamente, che io voglia patrocinare la vendita dei schiavi, vorrei bene estirparla in tutto il mondo, [p. 12 – f. 111v] qualora mi fosse possibile, come cosa apertamente contro lo Spirito evangelico; semplicemente si tratta di sapere alcune regole prattiche nelle brutte /257/ circostanze in cui ci troviamo. In quanto alla Missione non è questione di traffico nei schiavi, perché verrà mai in capo a nessun missionario di negoziare nei schiavi; la missione Galla anzi, può gloriarsi di aver comprato schiavi, e di aver dato generosamente la libertà a parecchj dei medesimi, appena comprati, e ciò unicamente allo scopo di far conoscere la massima evangelica nel paese; e da principio dello stabilimento della missione fra i regolamenti, il 12º è concepito così = i servi detti schiavi stati comprati, dopo cinque anni di servizio fedele aquisteranno la loro libertà = Solamente resta a vedere, se trovandosi impiciata e non potendo vivere senza far fuori qualche schiavo nocivo, e che potrebbe compromettere gravemente la missione, debba a preferenza esporsi al pericolo di andarsene dal paese; in Kafa la metà dei schiavi della missione sono più di sortita che di entrata alla medesima, perché non solo non lavorano per noi, ma dobbiamo dare loro terreni e buoi per mantenersi, e non contenti di questo ci rubano ancora, e ne abbiamo sempre qualcheduno nei ceppi per questa ragione, e siamo sempre fastidiati per il vitto, eppure non ci viene neanche in capo di vendere, cosa certamente infame. Transeat per la missione, bramerei sapere come regolarmi riguardo ai cristiani: in paesi dove tutto si fa con schiavi, occorrendo uno schiavo cattivo e che cerchino di venderlo o cangiarlo, massime quando il Cristiano fosse povero, e non avesse altra risorsa che quello schiavo; videndum se dobbiamo proibire sotto gravi pene, e privare del battesimo e dei Sacramenti coloro che non giurano questo; qualcheduno dei Cristiani è mercante, quando si accosta a noi [p. 13 – f. 112r] per il ministero promette di non comprare più ne vendere schiavi, poi trovandosi in qualche paese straniero impiciato, perché gli altri generi di commercio sono ricercati, si lascia lusingare qualche volta a ritornare al vomito, oppure perché il peculio che hanno portato con loro non si trova a cangiare che in schiavi... videndum se in tutti questi casi si debba usare tutto il rigore delle pene ecclesiastiche, oppure se possiamo tollerare qualche cosa per non perdere le anime, e qualche volta far finta di non sapere per non irritare di troppo – L’enciclica Gregoriana proibisce severamente il traffico; videndum se il caso precedentemente esposto si debba chiamar traffico; videndum quindi se detta enciclica proibisca in modo da obbligare i confessori fra questi paesi, e i Superiori, a procedere contro colle pene ecclesiastiche; detta enciclica, benché fatta per paesi nei quali forse le circostanze non erano così opprimenti, come in questi, pure non stabilisce pene; videndum se dobbiamo stabilirle noi; la privazione dei Sacramenti è una gran pena ecclesiastica che si avvicina alla scomunica – Avendo scritto una piccola teologia prattica per uso dei confessori in lingua del paese, ed avendola scritta col solo capitale che ho in capo, privo di ogni libbro da 15. anni, senza nessuna guida affatto, circa i schiavi ho scritto due o tre quesiti, il dottrinale dei quali è concepito in questi termini = Iddio ha creato gli uomini eguali, e padroni sulla terra... Per il peccato di Adamo la schiavitù è stata introdotta in castigo per malizia degli uomini, e da Dio tollerata anche nell’antica /258/ legge, (qui porto i precetti mosaici relativa- [p. 14 – f. 112v] mente ai schiavi di nascita israeliti, e relativamente ai schiavi di nascita gentili; quindi passando al Vangelo, ho detto che il complesso del codice evangelico si può chiamare un codice di emancipazione dalla schiavitù, essendo la schiavitù incompatibile colla carità evangelica e collo spirito di libertà dei figli di Dio; espongo come il Vangelo a misura che si è propagato ha estirpato la schiavitù in tutti i paesi, a segno che lo stesso nome di schiavo è proscritto; ho persino notato che tutti i paesi Cristiani nell’epoca attuale giurarono d’accordo di estirpare la schiavitù in tutto il mondo, anche fra gli infedeli, e diffatti arrivarono a proibirla nei paesi mussulmani medesimi. Posta questa base, volendo discendere a dare alcune regole pratiche ai confessori, ho posto questa base = benché il Vangelo sia un codice tutto di emancipazione dalla schiavitù, pure il Divin Redentore, per alti fini della sua sapienza, si è astenuto dal fare un precetto di proibizione esplicita, e con ciò pare che abbia voluto lasciare alla Sua Chiesa lo sviluppo del medesimo a misura che le circostanze l’avrebbero permesso = Dietro ciò sono disceso al particolare delle regole che devono tenere i confessori con quelli che vendono schiavi, o coi schiavi medesimi fuggiti dai loro padroni. Proibito il commercio dei schiavi sotto pena di privazione dei Sacramenti, anche del battesimo, per chi non rinunzia a tale traffico; il Particolare che non negozia, ma tiene schiavi per il suo bisogno, occorrendo o grave necessità di famiglia, oppure un grave crime commesso dallo schiavo, vendendo uno schiavo coll’ [p. 15 – f. 113r] unico scopo di disfarsi di una persona pericolosa alla casa, oppure di soccorrere al grave bisogno della medesima, non si debba perciò privare dei Sacramenti; un negoziante che ha promesso di astenersi, e si è astenuto qualche tempo, si è lasciato una volta indurre da una circostanza di sbilancio nel suo commercio a comprare e vendere, promettendo in seguito di astenersi, anche questi non sia privato dei Sacramenti; uno schiavo fuggito, occorrendo che sia Cristiano, e venendo al Sacerdote per il ministero, se questi è stato fatto schiavo dal Re in pena di crime capitale a norma delle leggi dei paese, oppure preso in guerra vera e legittima, ed è stato venduto secondo gli usi convenzionali del paese, allora detto schiavo per essere considerato sui iuris sia obbligato, potendo, alla restituzione del prezzo con cui è stato comprato al padrone; lo stesso debba dirsi di uno schiavo nato e stato allevato, se almeno per sei anni non ha ancora servito al padrone, e così compensato al diritto come paterno di educazione; tutti gli altri, o stati rubati, o presi per pura prepotenza, e stati venduti, se riuscirà loro di fuggire, dal momento che sono arrivati in luogo immune, siano considerati sui iuris ed obbligati a nessuna restituzione.

Ecco poco presso il dottrinale tenuto nelle mie istruzioni, e nel catechismo o teologia prattica che sto compilando in lingua del paese relativamente ai schiavi. Il Teologo d’Europa suole istruirsi sui punti di controversia comune nei nostri paesi, lasciando poi di esaminare a fondo certi punti poco comuni nei nostri paesi; così potrebbe essere accaduto a me, benché abbia spiegato [p. 16 – /259/ f. 113v] la teologia per molti anni, massime che debba scrivere e regolarmi coll’unico capitale antico senza nessun libbro affatto; la volontà sincera di salvare questa gente dotata di un cuore affatto degradato ed abbrutito, e trasportata da una corrente di abitudini, di costumi, e di leggi a noi affatto pellegrine e contrarie alle istituzioni evangeliche, potrebbe darsi che porti la mia tolleranza un punto più in là di quello che comanda il padrone che mi ha mandato, ma nel caso non sia ciò attribuito a difetto di volontà e di cuore, ma sibbene alla mia ignoranza ed insufficienza; come il vero giudizio sta alla S. Sede, io rimetto tutto alla medesima, disposto a correggere ciò che va corretto, se mi arriverà l’avviso prima di morire; in caso diverso la S. Sede medesima facia conoscere queste mie intenzioni a chi in buona fede avrà seguito le mie istruzioni, oppure vorrà abusarsi del mio nome; il ministro di Dio deve essere guidato da due punti di vista, uno di non tacere la verità, e l’altro di non fare il profeta dove non è mandato, aggravando il popolo in ciò che non è aggravato da Dio; il giusto mezzo per me è un gran fastidio, e timore, in questi paesi, dove non si può consultare la madre che il Signore ci ha dato per guida a nostro piacimento.

Venendo ora al terzo punto che è quello nel fundo delle disposizioni al battesimo degli adulti. Dico prima di tutto che anche questo è un punto di Teologia pellegrino al missionario proveniente di Europa, dove rarissimamente occorre di battezzare adulti. Ho detto poi sopra = punto... nel fundo, delle disposizioni al Battesimo, perché nelle mie domande ho bensì fatto un rapporto dei matrimonii, si e come si fanno in questi paesi [p. 17 – f. 114r] per informare Roma di tutto ciò che occorre, ed anche perché colui che si trova legato da vincoli di poligamia e simili ha bisogno di una dose di grazia triplicata e quadruplicata per rompergli, non tanto per l’affetto disordinato che possa avere ad una donna, quanto per i legami di figliuolanza, di parentela, e di contratto ratificato dalle leggi del paese anche relativamente alla Seconda, Terza e Decima moglie, sempre sposate in facia al paese con contratto indissolubile; nel riferire tutte queste cose, intendeva unicamente di tutto l’occorrente, giammai per mettere in dubbio la monogamia del Vangelo, perché mi sarei reso ludibrio giusto presso i dotti d’Europa; il mio scopo era solamente per ottenere dilucidazioni circa la scielta, cosa che ho ottenuto dall’eccellente istruzione speditami; a questo rapporto Le dirò che tanto i Galla quanto i Sidama, fra le mogli tutte sposate egualmente con vincolo indissolubile in facia al paese, la prima però è privilegiata, ed i figli della prima godono una specie di maggiorasco nell’ordine della successione, e ciò fra i Galla, non fra i Sidama, epperciò presso i primi per lo meno la prima moglie deve considerarsi come vera moglie in facia alla legge naturale, quale va sempre custodita, perché il Vangelo non è stabilito per scioglierla, ma bensì per rassodarla; non nascondo però che lo sposare la prima moglie ha sempre per lo più maggiori difficoltà per parte del marito, perché per lo più è vecchia, e trattandosi di doversi legare ad /260/ una sola il cuore umano rifiuta sempre la vecchia, come ognuno può comprendere. [P. 18 – F. 114v] Del resto, io non mi ricordo più precisamente i termini precisi delle domande da me fatte, perché non posso fare il dupplicato, ma mi pare che le mie domande, oltre la scielta della moglie da farsi dal poligamo, io esponeva ancora un’altra cosa di cui non trovo risposta, ed è il caso che, non convertendosi il marito, cerchi di convertirsi una delle moglii o seconda, o terza, o quarta che sia; questa donna assolutamente non può lasciare quel marito, perché è come schiava, essa con tutte le sue buone disposizioni cosa deve fare? in essa si trova l’amore all’unità coniugale, la disposizione di piuttosto morire che trovarsi con [un] altro maschio, ma non è moglie, epperciò il Prete trovasi impiciato, e non può amministrargli il battesimo, ed essa deve considerarsi nell’impossibilità di riceverlo, cosa che pare un poco straordinaria; io sperava di vedermi arrivare qualche chiave che ci ajutasse a spianare questa difficoltà, quale qui potrebbe darsi anche molto frequentemente se le donne fossero approssimabili per l’istruzione, ma per una parte sono custodite, e per l’altra il Sacerdote deve guardarsi dall’avvicinarsi troppo, epperciò sono rari i casi simili occorsi, ma bastano quei pochi a mettere alla tortura non solo la testa, ma anche il cuore, perché fanno compassione: che una donna prima di ricevere il battesimo e tutti i soccorsi ordinarii del Cristiano debba supporsi di una virtù erojca tale da resistere al marito con morale pericolo di essere amazzata, pare un poco duro; se fosse come nei nostri paesi che le figlie non sono maritate senza il loro consenso, transeat, ma qui sono date dai parenti secondo le loro convenienze, e non sono interpellate affatto, e può dirsi che si trovano nella vera necessità di peccare. A questo scopo, se non erro, si dirig- [p. 19 – f. 115r] geva la distinzione che io faceva tra il catecumeno, ed il battezzato; io argomentava così: l’abito delle virtù teologali fede, speranza, e carità sopranaturali, sono come la fonte da cui nascono gli atti sopranaturali delle virtù suddette, come poi detti abiti si ricevono nel santo Battesimo, io deduceva da ciò, che la fede, la carità, e la contrizione di un neofito adulto, tolto un caso straordinario di miracolo, come quello di S. Paolo, per via ordinaria non essendo ancora capace di atto sopranaturale per mancanza di base che io supponeva la fede e la carità abituale che si riceve nel battesimo, non possono essere e pretendersi eguali al battezzato; questo dottrinale l’ho scritto nel catechismo suddetto che ho scritto in lingua galla per istradare i Sacerdoti novelli nella teologia elementare e nella morale; da certe espressioni che veggo nell’istruzione speditami, mi fa dubitare anche di ciò, e pretendo miga di essere temerario per questionare, ma umilmente imploro di fare esaminare queste mie espressioni, e se debbono essere corrette, amo di essere avvertito per tempo; si dice che il vecchio aquista esperienza, ma non così della scienza, tanto più positiva, e potrebbe darsi che io prenda dei sbagli, ed in materia di dottrina i sbagli sono sempre gravi; nel caso, posso assicurarla che non sono ne saranno mai prodotto di /261/ malizia, ma sibbene di ignoranza, avendo la mia testa perduto molto, anche di quel poco che sapeva.

Risposto in breve alle cose più essenziali contenute nelle veneratissime lettere dell’Em. V. R.ma sopracitate, mi resterebbe ancora un mare di cose da riferirle concernenti gli usi, le superstizioni, e le corruttele più classiche tanto dei paesi Galla, che dei paesi Sidama per sapere quello che si può tolerare [p. 20 – f. 115v] e quello che non si può tollerare; guarderò di restringermi per quanto potrò. Vedendomi come abbandonato aveva già come fatto il sistema di non scrivere più e cavarmela come poteva, vedendo ora che V. Em. R.ma prende interessamento lascierò il mio sciocco proponimento e dirò tutto.

Prima di ogni altra cosa voglio informarla delle difficoltà che vi sono relativamente a Kafa, poiché nei paesi Galla, benché vi siano delle difficoltà, il culto cristiano essendo cosa nuova, il missionario può piantare a suo talento, non si trova colà un culto apparente da distruggere, laddove in Kafa considerato come paese cristiano, benché in realtà nulla affatto vi sia di cristianesimo si trovano certi elementi di culto superstizioso, i quali mettono alla tortura il cuore del missionario; conservargli o tollerargli per qualche tempo vi è il pericolo di connivenza con Belial, distruggergli vi è il pericolo di distruggere il poco di organizzazione cristiana che potrebbe servire di elemento per mantenere la missione, e pericolo anche di eccitare una persecuzione mortale, e forse espulzione dei missionarii, perché Kafa ha un attaccamento terribile ai suoi usi; nella crisi vi è anche il pericolo che molti, i quali si dicono cristiani passino al paganesimo, come sono già passati molti sotto i preti nominali precedenti; come pure vi è il pericolo che siano chiamati preti eretici dall’Abissinia. Preveggo io già la risposta che V. Em. mi farà, perché Roma lontana, nelle sue risposte tiene sempre la via più sicura e patrocina sempre per la parte della fede, ed ancorché qualche volta potesse convenire qualche tolleranza, non sta bene che sia raccomandata per parte della S. Sede, perché potrebbe diventare oracolo di corruzione in facia al mondo cattolico; comunque sia per essere [p. 21 – f. 116r] (continuazione della lettera a Propaganda 13. Giugno 1861.) la cosa io scriverò, e riceverò le risposte che mi verranno, le quali serviranno di lume a me ed ai posteri, ed anche di giustificazione a qualunque cosa che possa accadere.

1. Prima di tutto parlerò di sette chiese che ho trovato in Kafa, le quali da principio mi hanno fatto molto piacere, ma poi non ho tardato a scoprire nelle medesime un’ammasso di difficoltà non indifferenti per causa delle medesime. La Chiesa consiste nel tabot ossia altare portatile; questo incommincia già in Abissinia ad avere un certo culto che puzza di superstizione, quidquid dicant gli indigeni anche cattolici, poiché ho veduto colà che si porta in processione con grande solennità molto più venerato dell’eucaristia medesima, tenuto sempre invisibile, e dal popolo creduto anche ciò che non è, ma transeat là, la più parte del popolo sa che è un legno benedetto dal Vescovo, e potrebbe essere una semplice caricatura e /262/ propria degli orientali, che rispettano gli oggetti sacri tenendogli nascosti, e facendo mistero di tutto, come ho veduto fra i Copti dell’alto Egitto, ed in alcune chiese greche eretiche. In Kafa poi il tabot ha un culto portato molto più avanti, ed il popolo resterebbe scandalizzato al sentire che è un semplice legno benedetto, poiché è intimamente persuaso che sia il Santo di cui porta il nome in persona, ed il Santo poi, come S. Giorgio, S. Michele, S. Gabriele, sono pregati, adorati quasi eguali a Dio; qui si usa più di giurare per S. Giorgio che per Dio. Per rettificare questo culto del tabot ho fatto di tutto: ho ordinato da principio che mi fossero portati per benedirgli, [p. 22 – f. 116v] cosa che si usa anche in Abissinia, ed in quella circostanza gli ho messo dentro delle reliquie per rettificare un tantino quel culto; nel catechismo ho scritto minutamente la spiegazione del tabot per distruggere tutti i pregiudizii che vi sono a questo riguardo; non contento di ciò pochi giorni sono ho fatto publicamente la consacrazione di cinque pietre, spiegando ai circostanti ogni cosa; in tutto ciò che ho fatto, ho avuto delle difficoltà da superare per la parte degli stessi Sacerdoti indigeni piuttosto inclinati a favorire queste cose, benché nella sostanza siano impegnati anche loro a fare conoscere il vero senso, piuttosto guidati dal timore di scandalo del popolo, perché le loro viste non possono essere tanto lontane come sono le mie; per distruggere questo ho preso il partito di eriggere molte nuove cappelle tante che posso, e moltiplicare questi tabot per abbassare l’aristocrazia ideale degli antichi, i quali esercitano un prestigio troppo forte nell’immagina­zione del popolo superiore alla parola del Sacerdote. Da principio al vedere il tabot partirsi dalle Chiese per venire dal Vescovo, il popolo si è risentito ed ha fatto qualche dimostrazione contraria, ma ora si è assuefatto, e qualche Chiesa che non l’aveva fatto ancora, il popolo stesso ha domandato; giova perciò sperare che in questa parte il culto col tempo si regolarizzerà.

2. Una seconda cosa avvi nelle chiese, ed è il costume di amazzare bestie nelle feste, ed anche questo costume, introdotto dai preti antecedenti, benché non vi sia in Abissinia, è una storia che fa temere di superstizione; Come si sa da tutti l’amazzare era il sacrifizio della legge di natura, regolarizzato e fatto liturgico dalla legge Mosajca, e mantenuto dalle osservanze mussulmane, e di tutte le popolazioni selvaggie del globo, per quanto io sappia; [p. 23 – f. 117r] in Abissinia, perché i mussulmani amazzano dicendo besmillà che è una specie di sacrifizio, gli abissinesi anche Cattolici amazzano dicendo[:] nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito S.: per questa ragione l’abissinese anche cattolico che mangiasse carne amazzata dai mussulmani sarebbe persuaso nel suo cuore, e passerebbe anche presso il publico per apostata dalla fede; lo stesso deve dirsi dei mussulmani che mangiassero la carne amazzata dai Cristiani; se ciò debba considerarsi come superstizione, e se sopra di ciò sia stata interrogata Roma, non lo so, so che è cosa comune a tutti i Cattolici, epperciò anche nei paesi Galla, dove i Cristiani non mangiano la carne ammazzata dai mussulmani e dai Galla, questi ultimi però mangiano /263/ quella amazzata dagli uni e dagli altri dei suddetti; nel paese Sidama poi avvi lo stesso pregiudizio, ed il cristiano non mangia la carne amazzata dai mussulmani e dai gentili detti Sidama, mentre questi ultimi non mangiano quella dei mussulmani, ma mangiano quella dei cristiani come amazzata in nome della Trinità e come culto dei loro Padri, essendo anche i Sidama gentili rispettosi per i Preti, ed osservando anche loro le feste Cristiane promulgate dai preti, nel loro modo però, come le osservano a loro modo i così detti cristiani. Ciò posto venendo al nostro scopo: nelle feste tanto mensili che annuali, principalmente in queste ultime, secondo il computo etiopico, quelli che nell’anno han fatto voto a S. Giorgio, oppure a S. Michele, oppure a S. Gabriele, nella festa rispettiva del Santo si presentano alla chiesa con una candela alla mano, con una vacca quello che è potente, o con una pecora il povero: la candela è data in mano del prete che l’accende [p. 24 – f. 117v] in Chiesa avanti all’altare, mentre gli offerenti sulla porta pregano il Santo per le loro famiglie, per le loro campagne, per le loro mandre, per la loro salute, corporale, per avere l’amicizia del Re e simili, difficilmente per i loro peccati e per la loro eterna salute; ciò fatto il Prete coll’incenso che ha ricevuto in offerta unitamente alla candela, incensa il tabot cantando[:] Ecciò maarena Cristos (Criste eleison). Quindi sorte il prete dalla Chiesa e nelle gran feste trova che lo aspettano alla porta molte bestie offerte al Santo, quali riceve a nome del Santo toccando un momento la corda con cui sono legate; dopo questa funzione noi usiamo di predicare, e declamare contro queste osservanze, cosa che non facevano gli antichi preti, predichiamo il battesimo, il bisogno dell’istruzione, e le altre cose necessarie, ma il popolo impaziente di passare al bacanale, sente, ammira, ma è poco quello che approfitta; se ne parte dalla Chiesa e se ne va al luogo poco lontano destinato a questo macello, si ammazzano tutte quelle bestie dai ragazzi dei preti, perché devono essere amazzate da persone battezzate e vergini, cioè nubili, perché veri vergini dal mediterraneo in qua non si conoscono più, ed amazzato che hanno si divide la carne tra gli offerenti, i Preti, ed i Fabbricieri della Chiesa; il popolo quindi passa il resto della giornata mangiando carne e bevendo birra che hanno portato con loro; ecco il complesso genuino delle funzioni che si fanno alle Chiese nelle feste di uso; noi poi in qualche Chiesa abbiamo già incominciato a dire la S. Messa, e fare qualche battesimo in quella circostanza; e per far conoscere il battesimo, battezzando in ciasceduna funzione della liturgia ho ordinato che si facia la spiegazione in lingua del paese, a tale effetto [p. 25 – f. 118r] ho tradotto la funzione del battesimo, anche per uso dei Sacerdoti novelli, i quali sono ancora molto indietro nel latino per comprenderne il senso; ritornando alla funzione suddetta, dopo che il popolo ha offerto la sua candela e la sua vacca, per sentire che abbia sentito a declamare contro, lui se ne parte persuaso di essere giustificato e santificato da quell’oblazione, perché il Sidama ha un cuore così abbrutito, che è insensibile, e da valore a nessuna cosa fuori di ciò che è accostumato. In quanto all’oblazione della /264/ candela, meno male, si fa anche in Europa, però come cosa di soprappiù, ma quel[l]’amazzare la vacca o pecora, atteso il sopra esposto, non potrebbe alle volte essere considerato come sacrifizio; a questo scopo anche ho scritto a lungo nel catechismo ai preti ed al popolo in lingua del paese, dove ho fatto vedere la cosa nel vero senso, ma il popolo è molto tardo a sentire; un giorno il P. Ajlù Michele essendo stato mandato ad una chiesa di S. Michele appartenente ad un grande, ed essendosi fermato parecchj giorni ad istruire parlò di questo ammazzare, ed esortò il popolo a fare invece altri doni alla chiesa, allora quel grande personaggio disse: noi cosa sappiamo, gli antichi preti interrogati da me più volte sopra ciò che avrei potuto fare per piacere a S. Michele, essi mi risposero sempre che il meglio di tutto è amazzare; da ciò pare che il paese facia ciò con intenzione di fare un semplice dono alla Chiesa, e che i preti antichi abbiano introdotto quest’uso tirati dalla cupidigia della carne; Posto che ho parlato di questo grande personaggio dirò anche altre parole sortite dalla sua bocca in altra circostanza, mentre un’altro Sacerdote indigeno stava instruendolo, fece una esclamazione: [p. 26 – f. 118v] Iddio custodisca il vostro, e vi conservi sino alla morte in questi sentimenti per noi di ammirazione, abbiate pazienza ed otterrete tutto ciò che brama il vostro cuore; nessuno ci ha mai parlato così, e quei stessi che hanno incominciato sono caduti come gli altri, ma perseverando vincerete... Da ciò pare che il paese dopo un’anno e mezzo non creda ancora alla stabilità dei nostri sentimenti; diffatti l’idea che hanno gli stessi Galla dei Sidama è questa = il Sidama è attacatissimo agli usi del suo paese, disprezza il forestiere, non crede ai medesimi, ma presa che ha una massima non la lascia più; a dirgliela, se non fosse di questa speranza futura il mio cuore sarebbe all’eccesso disanimato da molte contrarietà che dirò poi dopo, ora ritorno a riprendere il filo degli usi e superstizioni –

Passato quello delle Chiese, passo ora a parlare delle esequie dei morti, cosa anche che mi affligge e mi fa temere assai di mancare alla fedeltà del ministero: gli orientali alla morte dei parenti usano di fare un convitto chiamato dagli arabi mussulmani tsadeca, e dagli Abissinesi cristiani detto taskar; è questo un costume così forte [che] in Abissinia che il figlio farebbe qualunque sacrifizio per non lasciare il taskar al suo Padre, pare che sembri loro di non poter entrare in Paradiso senza questo; questo uso è quasi nullo presso i Galla, i quali in sua vece sogliono amazzare sopra il sepolcro e lasciare quella carne alla disposizione dei poveri esclusivamente di ogni altro, cosa che sarebbe commendevole se quell’amazzare non avesse del sacrifizio castale sopra esposto; questo stesso costume poi rivive fortemente in Kafa, dove i Preti antichi hanno lasciato andare tutto il resto di pratiche e cerimonie che vi sono in Abissinia, ed’hanno invece [p. 27 – f. 119r] rinforzato questo punto, perché è un buon botteghino per il prete, quale suole mangiare nella circostanza di queste esequie una specie di decima in proporzione del patrimonio; queste esequie si possono dire il secondo atto di religione dopo quello delle chiese surriferito, nel quale hanno una /265/ gran fiducia i Kafini; quando muore qualcheduno adunque, dopo che è stato sepolto, i parenti si presentano al prete con una candela e due vasi di birra a domandare il primo fetat per lo più nel duodecimo giorno, e benché abbiano mai pensato ne al battesimo, ne alla confessione, ne ad altra delle molte pratiche cristiane usate in Abissinia, domandano al Prete che facia il fetat ossia esequie; si chiamano i vecchj, si instituisce il giudizio, e viene fissato il tributo che deve pagare al Prete; ciò fatto, e dato sicurtà, il Prete accende quella candela, legge un pezzo del libro, si beve quella birra, e se ne vanno per ritornare al ventesimo e trigesimo giorno nella stessa maniera; quello che non è potente per fare l’invito del taskar, viene anche nel giorno quadragesimo, porta la paga fissata, la birra, qualche pane, e qualche pietanza, e tutto si finisce in casa del prete; chi è potente e può fare il taskar, nel giorno quadragesimo, oppure più tardi secondo l’accordo, il prete si porta alla casa del defunto a fare le ultime esequie sopra il sepolcro, e fatte queste, benedice il convitto, e passa la giornata con loro, e poi ritorna a casa portando la sua propina per lo più di vacche; chi vuole abbundare fa replicare le esequie in casa del prete nel giorno anniversario per parecchi anni; questo è il costume antico dei preti eretici; al mio ingresso ho fatto publicare che dette esequie [p. 28 – f. 119v] non si sarebbero fatte più dopo due anni computando dal mio arrivo, e nel tempo stesso ho ordinato che in queste esequie di uso antico non si facesse altro che la benedizione dei comestibili, e che precedesse sempre la dottrina delle tre vie, paradiso, inferno, e purgatorio, colla spiegazione delle medesime, segnatamente a chi è utile il suffragio dei morti; avrei voluto proibire affatto dette esequie, ma tutti mi saltarono agli occhj dicendomi che così si sarebbe guastata ogni cosa, e che bisognava usar pazienza sino a che l’istruzione del popolo sia rinforzata, e che una parte del medesimo abbia avuto tempo ad istruirsi e prendere il battesimo; preveggo che neanche al termine fissato potremo levare questa cosa, non si manca di fare sempre la predica ordinata, ma i battesimi vanno molto adagio, perciò questo mi affligge molto; tutte le volte che si presentò la circostanza di – poter fare le vere esequie del rituale, tanto ai grandi che ai piccoli, le ho sempre fatte fare con gran pompa, onde stabilire la massima della differenza che vi è tra chi muore cristiano e chi no, possiamo dire che tutto il paese l’ha saputo, ma pure tutti dicono che allo spirare dei due anni bisognerà pazientare ancora, motivo per cui io scrivo questo, disposto a fare come la S. Sede mi scriverà di fare, perché non vorrei per altra parte prendermi [ciò] sulle spalle qualora occorresse qualche cosa che rovinasse tutte le speranze che vi sono in questo paese. Alcuni fanno riflettere che una volta levato l’uso di queste decime, le quali possono sempre essere sufficienti per una metà del mantenimento di tre o quattro preti, difficilmente si potrà rimettere poi; d’altronde queste esequie, ed il ricevimento [p. 29 – f. 120r] delle candele nelle chiese sono un’arma al prete per farsi ascoltare anche per tutto il resto; per farle capire questo le dirò che nel giorno del Corpus D.[omi]ni latino occorreva la festa di S. Giorgio /266/ mensile, ho mandato un Prete ad una chiesa di detto Santo appartenente al Guccirascià capo di tutta la casta Cristiana, ed ho proibito di ricevere la sua candela per più ragioni, prima perché ho conosciuto che è entrato nel consiglio della strage che si sta facendo per il titolo budda o mago, già stata citata sopra, ed anche perché ha violato il trattato che aveva con me di libera entrata ed uscita di Kafa, poiché alla partenza del P. Leone per Ghera, dove è andato per le feste Pasquali, tutto il paese si è messo sotto le armi e l’hanno obbligato a ritornare indietro, perché, come si dice, ed egli si scusa, si è sparso che era io travestito che sortiva di Kafa; vuol dire adunque che dopo tutti i trattati di libertà che abbiamo fatto, io sono prigioniere e non potrò più sortire a visitare la missione Galla, come Le dirò poi dopo; nel caso se vi è qualche speranza di aggiustare questo affare è colla chiave delle esequie e della candela.

3. Un terzo affare che mi pesa non poco sulla coscienza è l’affare della circoncisione; in Abissinia vi è la circoncisione, ma vi sono dei dotti, e si sa in dottrina che è una cosa proibita dalla legge Evangelica, benché in paese sia molto osservata, e vi siano anche dei preti eretici che non battezzano i ragazzi se non sono circoncisi, pure non è una tacia che finora sia sortita contro gli europei, dei quali nulla si dice; incommincia a rinforzarsi la cosa nel Goggiam, più nei paesi Galla fra la casta di origine Cristiana, in Kafa poi [p. 30 – f. 120v] la cosa è così incarnata che sarà sempre un grande ostacolo al ministero: gli antichi preti goggiamesi non lasciavano neanche avvicinare un ragazzo a lavar loro le mani e piedi se non era circonciso, per questa ragione la cosa prese così forza che se un Cristiano incirconciso entrasse in Chiesa, nel loro senso la Chiesa diventerebbe polluta. Dopo la venuta del P. Cesare sortì una volta dalla bocca di qualcheduno la diceria = il prete bianco non è circonciso = i grandi sentendo ciò fecero minacie ai loquaci, e tutto restò assopito, ne presero le parti, perché lui era passato dalla loro parte, e taque la parola evangelica che poteva ferire il loro cuore; venendo io con due altri preti, passati alcuni giorni dal mio arrivo, ho mandato due Sacerdoti al Santuario di S. Giorgio in occasione di una festa, ed avendo prima fatto publicare di portare tutti i ragazzi a battezzare, alcuni lasciarono di portargli perché non erano circoncisi, il Prete avendo gridato, e fatto portare anche degli incirconcisi si fece una publicità, e mi consigliarono tutti di girare l’affare, convenendo prima far precedere istruzione; la cosa fu assopita, perché il publico temeva i grandi, ma dal momento che i grandi hanno veduto la forza del ministero evangelico sopra i cuori, ed hanno calcolato che col tempo i preti avrebbero preso un’influenza troppo forte nel paese; per altra parte essendo tutti poligami solenni, e prevedendo che se il ministero si rinforzava, avrebbero dovuto cedere anche loro; a misura che il ministero si spiegava anche loro hanno incomminciato a sollevare un partito contrario, e perché mancavano di motivi plausibili in facia al publico, sortirono questo della circoncisione [p. 31 – f. 121r] non publicamente, ma di nascosto facendo prima parlare i mussulmani, e dissotto facendo correre la voce a /267/ tutti i cristiani; per questa via arrivarono a paralizzare il ministero, ed anche ad avvilirci un tantino presso il publico; come però noi siamo tutti uniti e presentiamo nella condotta una storia che [non] ha mai veduto, e che stordisce il paese, per una parte il publico ci venera e ci ama, ma per l’altra il partito dei grandi si fa temere e cerca tutte le vie per abbassarci ed avvilirci; le cose di Kafa perciò sono sospese, e lasciano temere una qualche sortita sotto pretesto della circoncisione; la metà dei Sacerdoti Gogiamesi essendo circoncisi, di sotto sono lusingati da mille diavoli sollevati in consiglio contro la causa di Dio e delle anime, e benché giovi sperare che saranno abbastanza forti, pure dobbiamo temere. In questo bivio volendo usare prudenza sta di mezzo la mia coscienza; ogni giorno facio proponimento di parlar chiaro, ed insegnare publicamente la vera dottrina, ma i Preti stessi mi esortano a pazientare, adducendo il silenzio dei missionarii d’Abissinia a questo riguardo e le decisioni antiche della S. Sede stessa che non condannò la circoncisione come semplice pratica del paese, non fatta come funzione religiosa, cosa che anche loro conoscono; per altra parte qui non è come in Abissinia, e noi siamo obbligati per sovverchia prudenza a privare del battesimo alcune persone, fra gli altri, giovani di casa abbastanza istruiti, quali per una parte non possiamo fare circoncidere per timore che il fatto diventi dottrina, e per l’altra si prolunga da un giorno all’altro il battesimo; temo che in ciò domini la prudenza della carne sopra il dovere del ministero, epperciò bramerei [p. 32 – f. 121v] una risposta che mi possa tranquillizzare in pratica; qualora fosse il caso di tollerare, e che non convenga una risposta formale, un solo incoraggiamento generico mi basterebbe; se poi è meglio rompere tutte queste trappole del diavolo a qualunque costo, allora io non temo neanche la vita, semplicemente non vorrei prendermi sulle spalle se occorre qualche cosa di rovinoso per il futuro di questa missione; in quanto alla circoncisione qui non si può dire un punto di osservanza religiosa, perché si fa indipendentemente dai Preti nelle case dei secolari, e la proibizione all’incirconciso per entrare in Chiesa è perché è come infame d’infamia più civile che altro, perché è anche cosa osservata nelle famiglie particolari relativamente a certi atti civili, come sarebbe il servire di compagnia a mangiare, attesoché il Kafino sarebbe infame se mangiasse senza compagnia di quella data casta, e di quel dato grado e qualità; vi sono molte di queste osservanze che si possono chiamare più civili che altro, come quella di non mangiare cavoli, di non mangiare galline, di non mangiare pecore in quelle date persone, in quei dati impiegati, in quelle date condizioni, cose senza dubbio puramente civili, potrebbe darsi che anche la circoncisione sia una osservanza simile, ma non oso pronunziarlo –

Oltre la circoncisione avvi ancora in Kafa un’altro solenne impicio, l’esclusione cioè di una razza infame da tutti gli atti civili epperciò anche religiosi; questa razza detta in Abissinia Wojto, dove è meno infame, ed abita nei boschi non molto numerosa, nei paesi Galla liberi non si trova affatto, bensì nei paesi dei Re, dove è anche /268/ molto infame ed è proibita di entrare nelle case civili, e nessuno beve e mangia coi medesimi, a segno che quei poveretti quando vanno in qualche casa [p. 33 – f. 122r] particolare sono ricevuti nel cortile, e debbono portarsi il vaso per bere e mangiare, altrimenti nessuno darà loro niente; nei paesi Galla sono chiamati Wata, e sono per lo più tutti schiavi dei principi, e sono soldati per custodire le proprietà regie, e per le esecuzioni di giustizia. In Kafa poi questa schiatta è molto più numerosa, porta il nome di Mangiò, e la sua infamia sorpassa quella di tutti gli altri paesi, perché qui sono neanche ricevuti nei cortili delle persone civili, e sono persino immondi i grani coltivati da loro. Io credo che questa schiatta sia la schiatta primitiva del paese padrona del terreno, sopra il quale si trapiantarono e regnarono caste straniere; la ragione di questa mia idea, che forse sarà nuova, è perché tanto la razza degli abissini, quanto quella dei Galla, e più di questa Sidama si sa che sono tutte razze straniere, laddove di questa razza detta Wojto, o Mangiò avvi nessuna tradizione che dica di dove vengono, sono sparsi dovunque, ed hanno dei costumi dovunque eguali; la loro proprietà è quella di mangiare qualsiasi specie di animali, e per loro nessuna cosa è immonda, ed in ciò sono forse più filosofi di tutte le altre caste onorate e regnanti; Comunque sia, ciò che fa per noi è che non possiamo avvicinargli affatto per non diventare noi immondi; se i civilizzatori europei, i quali fanno girare la testa all’europa col loro prestigio di uguaglianza, e pretendono di corrompere tutti gli ordini gerarchichi della società Cristiana, venissero qui ad esercitare un poco il loro zelo, invece che sanno lavorare solamente sopra le fatiche degli apostoli per corrompere, io sarei loro molto grato, perché avrei bisogno di distruggere tutte queste aristocrazie di caste [p. 34 – f. 122v] che si disprezzano a vicenda, ma i nostri perfezionisti europei sono fatti per lavorare sopra una civilizzazione arrivata al suo apogeo, non per piantarla di nuovo; ed io negli impicii debbo raccomandarmi a Roma per dei lumi onde sapere come ravvicinare questi figli di Adamo così lontani fra di loro, e fargli tutti fratelli; Frattanto quid agendum coi nostri Wojto? Se il P. Leone non mi avesse detto che quasi simile è l’affare dei Paria delle indie, dove si usano dei riguardi conosciuti da Roma, a costo di diventare immondo in Kafa non avrei lasciato di evangelizzare i Wojto, perché avrei avuto paura di essere acettatore di persone nella distribuzione dei doni di Dio: comunque, bramerei anche qui di avere i lumi dei Superiori, se cioè convenga studiare ad ogni costo qualche mezzo termine affinché questa razza non sia dimenticata, oppure cosa si debba fare, e se in conscienza per questa sola ragione di non farmi disprezzare, e non avvilire il ministero si possa in conscienza rifiutare a chi alle volte domandasse istruzione e sacramenti –

Avvi ancora un’altro impicio in questo paese [:] lo spirito magico che invade tutti i maghi di questo paese, detto Deocce; questa parola Deo in latino sappiamo cosa è, il ce di aggiunta nella lingua Kafina sarebbe il nostro in latino, oppure per; in lingua poi del paese Deo significa il bonum dei latini; i due sensi della parola sarebbero ec- /269/ cellenti, eppure questo Deocce è una divinità che da un secolo a questa parte, regna in Kafa e minacia di assorbire tutto: tutti i maghi sono invasati da questo Spirito, e da tre anni a questa parte il Re è diventato il capo dei maghi; prima questo Deocce risiedeva in un grande della stirpe reale, il quale, [p. 35 – f. 123r] sotto questo titolo possedeva un gran patrimonio; morto quel capo dei maghi, il consiglio di stato per far piacere al Re si adoperò in modo che i maghi radunati dichiararono che lo Spirito Deocce, lasciata la stirpe antica si portò nel Re, e così il Re diventò capo dei maghi, incorporò tutto il patrimonio a se, e si circondò di maghi; si dice che questi maghi avendo inteso le conferenze che il Re faceva coi Preti per far venire il Vescovo, e che ciò faceva appunto per fare un contro altare al gran capo dei maghi, fecero consiglio di fare il Re stesso capo dei maghi, e l’indovinarono; il Re che prima era tanto impegnato per la mia venuta, appena arrivato io ho trovato in lui tutte altre disposizioni da quelle che scrissero i preti, e deve attribuirsi il cangiamento a questo, perché il Re diventò capo dei maghi appunto nella circostanza della mia venuta; se questo Deocce non avesse guastata la cosa in Kafa si poteva sperare molto, così invece avremo da combattere. Questo Deocce potrebbe darsi che sia un’avanzo dei portoghesi, ed ecco come: il Patriarca Barmudes è venuto in Kafa con alcuni Portoghesi e si fermò qualche tempo, ha dovuto fare qualche proselito; dopo essendo andato, e non lasciando qui nessuna guida, restò questo nome di Deocce, che vuol dire in Deo; che poi dopo abbia preso l’aspetto di magia, questa è una cosa comune in questi paesi; gli stessi preti abissinesi arrivati qui, lasciavano le osservanze d’Abissinia e davano importanza alle cose di uso nel paese, come l’amazzare e simili, non fa stupire perciò, che rimasto il nome di Dio, tutto sia stato assorbito dalle osservanze superstiziose proprie dei nomadi; se domani la missione lasciasse il paese forse il poco da noi incominciato finirebbe per formare una nuova setta di maghi [p. 36 – f. 123v] benché sia più difficile, perché avvi già un deposito d’istruzione e qualcheduno che sa leggere e scrivere in lingua Kafina; il nome di Dio non è il solo nome portughese che vi sia rimasto; qui si dice anche Dono titolo di rispetto ad una persona, corrispondente al Signore degli italiani, come in Portugallo, e così di altri termini molti. Io aveva momentaneamente pensato di spiegare ai Kafini questo Deocce in questo modo per vedere se mi riusciva di avvicinargli, come ha fatto S. Paolo sul Deo ignoto, ma poi ho avuto paura di inviluppare la missione in un gruppo di superstizioni; e per questa ragione ho lasciato, d’altronde la riuscita sarebbe stata difficile. Comunque sia questo Deocce sta per regnare ed assorbire tutta la popolazione; ha un’influenza tale che gli stessi Cristiani sono obbligati a scongiurare, ed anche qualcheduno a giurare per il Deocce; certe formalità di semigiuramenti sono divenute non solo di uso, ma anche di necessità legale, e gli stessi Preti accostumati nel paese qualche volta [se lo] lasciano fuggire di bocca; se in paese non fosse considerato come una cosa sacra, si /270/ potrebbe dire che non è diverso dal per Bacco degli italiani, ma la cosa qui è diversa; anche sopra questo una breve risposta è buona.

Dopo aver percorso le cose che nel ministero mi impiciano di più, lasciando ancora da una parte tante altre superstizioni che si trovano ad impiciare il ministero, passo a parlarle di qualche affare che impicia la missione nei suoi interessi o nel suo governo; se non altro, essendo bene che Roma conosca tutto per tutto ciò che potrà accadere in avvenire, potendo io morire da un giorno all’altro, e la S. Sede mandando altri è bene che sappia le cose principali per istruire chi viene. Prima di tutto parlerò degli interessi della missione in concorso cogli eredi del fu P. Cesare da Castelfranco, di cui abbiamo tutto a sperare, che avrà [p. 37 – f. 124r] ricevuto misericordia di tutte le dolorose storie, perché è morto colla pienezza di sentimenti di penitenza cristiana. Questo poveretto ha lasciato due figli maschi battezzati da me quindeci giorni dopo il mio arrivo, uno col nome di Lorenzo, ed il secondo di Felicissimo; l’aver dato al primo il mio di battesimo, ed al secondo quello del mio Coadjutore, non è, per nessuna predilezione a questi figli del peccato, ma sibbene per un semplice lenimento per il momento creduto conveniente al cuore del neo convertito, il quale in quel momento ha dovuto fare grandi sacrifizii, a nuotare contro la corrente delle proprie passioni e lusinghe di tutto il paese, il quale a me prometteva di consegnarlo nelle mani, e dissotto lo esortava a tener fermo; il poveretto nella sua conversione non ha mancato di dichiarare in facia al Re ed a tutta la nazione che essendo lui monaco non poteva possedere niente, e che tutti i terreni a lui dati dalla nazione erano di proprietà ecclesiastica nelle mani del Vescovo con tutto ciò che si trovava in casa e fuori di casa di capitale, non essendo tutto ciò neanche sufficiente a rimborzare le spese fatte dalla Chiesa per la strada da Massawa a Kafa; data allora una piccola cosa di sussidio alla donna che nel contratto fatto di rinunzia alla presenza dei grandi, doveva incaricarsi di allevare i ragazzi, tutto il resto passò in possesso della mensa di Kafa; il più piccolo ragazzo che ancora tettava andò colla madre, ed il più grandicello stette con lui in casa; benché non ci fosse nessun dubbio affatto della sincerità di sua conversione, pure il sangue è sempre sangue, e nel breve spazio che visse non faceva che raccomandarmi di pensare a questi ragazzi in caso di sua morte (quale continuamente domandava al Signore, e può dirsi che predisse...), (solamente negli ultimi giorni aveva per loro una grande avversione) ed io per alleggerire le sue afflizioni ho sempre promesso che gli avrei considerati come miei proprii fi[g]lii; morto lui, il più grande restò in casa qualche tempo, poi i parenti [p. 38 – f. 124v] con industria se lo presero, e da ciò fa pensare che abbiano delle idee di domandare l’eredità, come tutto il mondo sospetta che la cosa non sia lontana; venendo il caso io risponderò senz’altro in conformità di quello che ho sempre detto, che cioè io non sono padrone di alienare il Patrimonio della Chiesa senza licenza del Papa, che se vogliono prenderlo lo faciano colla forza, perché io darò mai nessun consenso, ne entro in nessuna trattativa, perché /271/ non posso riconoscere detti figli come eredi, non essendo tali, non solo secondo i canoni, ma a tenore dei nostri trattati fatti prima di venire, ed a tenore della rinunzia fatta dallo stesso defunto P. Cesare, che meglio si direbbe publica dichiarazione; alcuni mi consigliano a fare un’aggiustamento, ma qualunque aggiustamento riconoscerebbe detti figli come eredi, e riconosciuti quelli crollerà la base stabilita fin qui della proprietà di tutto alla Chiesa, e dopo poco tempo se venisse in capo al P. Giacomo antico compagno del P. Cesare di separarsi avrà diritto di pretendere anche lui la sua parte, e così tutti gli altri Preti presenti e futuri, motivo per cui meglio che si facia un’usurpazione; io sono di questo sentimento, ma non rifiuto un’ordine superiore; anche qui perciò una di Lei breve risposta non sarà cattiva per ogni caso che l’affare aspetti qualche anno; quando i medesimi si dichiarassero fuori di ogni diritto, il dare qualche riconoscenza sarebbe cosa buona.

Passiamo ora a parlare della mia persona: Prima di partire di Lagamara forse più di due anni abbiamo incominciato le trattative col Re di Kafa, allora non ancora capo dei maghi; ci siamo convenuti in questi quattro punti: 1. Libero io di andare e venire, mandare e richiamare i Sacerdoti e chierici a mia volontà, senza neanche domandare il permesso. 2. Sia che io resti in Kafa, sia che io mi trovi nei paesi Galla, i Sacerdoti sono al mio ordine, ed il governo non dovrà [p. 39 – f. 125r] riconoscere altro che me, oppure il mio Vicario. 3. Le proprietà sia in stabili che in mobili tutte nelle mani del Vescovo, le questioni sulle proprietà fra il clero, e qualunque altra questione devoluta a lui – 4. Tutte le chiese e le questioni di patronato o di patrimonio delle medesime, di spettanza del Vescovo. In queste trattative entrarono persino i Principi Galla di Limu e di Ghera, i quali nella mia partenza mi giurarono che le avrebbero fatte mantenere. Appena entrato in Kafa conobbi subito nell’affare del Padre Cesare che non avrebbero mantenuta la parola, mentre invece di darmelo nelle mani loro medesimi lo lusingarono a tener fermo, come egli stesso mi disse poi dopo, e se non avesse fatto la sua parte Iddio, nulla avrei ottenuto. In quanto alla libertà di andare e venire e mandare, l’ho avuta per circa un’anno, pendente il quale i Sacerdoti e chierici andavano e venivano senza nessun permesso per i bisogni della cristianità di Ghera, da due o tre mesi a questa parte si spiegarono apertamente in contrario, e non è che con replicate istanze per la Pasqua passata ho potuto mandare P. Leone con un’altro Sacerdote indigeno; ed alla partenza del suddetto P. Leone essendosi dubitato che fossi io il popolo si è messo sotto le armi ed il povero P. Leone ha dovuto ritornare indietro; ciò ci fa dubitare che non potrò più sortire, e come alcuni mi suppongono Kafa deve aver fatto il trattato coi Principi Galla di non lasciarmi più passare al di là, ed io sospetto persino di non poter più mandare Sacerdote al di là di Ghera. In quanto all’articolo di essere padrone dei Preti a mia volontà dal seguente fatto si conosce: dei Sacerdoti nominali antichi è rimasto un vecchio, il quale conosce neanche le lettere dell’alfabeto abissinese, e che deve essere un Galla di questi contorni /272/ il quale ha preso il titolo di Prete per mangiare; nel mio arrivo d’accordo col governo si publicò che tutti i Preti dovessero venire da me, e quel certo non solo non veniva, ma si faceva ancora forte a parlare contro; d’accordo col Re e col capo della casta cristiana l’ho mandato a legare, e mi fu portato in casa; l’ho interrogato [p. 40 – f. 125v] pro forma e risultò che non era Sacerdote, tuttavia io mi limitava a questa intimata: se sei Prete manda via le concubine e sta all’ordine, se poi non sei prete lascia le funzioni, e faciamolo publicare; mentre stavamo per aggiustare la cosa, e lui stesso incominciava a piegarsi, il Re lo mandò prendere colla forza innaspettatamente ed avocò a se il giudizio; per compensarmi dell’usurpazione il Re fece publicare che quello non era Sacerdote, ma mi proibì di mischiarmi, e dissotto lo favorisce; vuol dire adunque che se domani uno dei Sacerdoti da me allevati con tanta fatica mi voltasse le scattole, il farà lo stesso, ed io mi trovo senza potere, peggio che nei paesi Galla anche mussulmani, dove i Sacerdoti sono considerati come miei famigli e nessuno, ne gli lusinga ne si mischia; Ecco il gran punto difficile di Kafa a preferenza di tutti i paesi Galla; fino a tanto che vi sono io credo che vi sia niente a temere, ma occorrendo la mia morte, qualche deboluccio potrebbe essere lusingato, e potrebbe anche cedere; è vero che già presentemente l’opinione del prete nel senso del popolo è cangiata, e qualunque deboluccio avrà sempre delle misure a prendersi per dare in reprobum totalmente, perché Kafa non lo stimerebbe più, tuttavia l’apoggio del governo che è un vero glub di diavoli, potrebbe sempre fare qualche grave colpo; per questa ragione, ancorché io potessi sortire di Kafa, resta a vedere se convenga sortire, senza portare con me quasi tutti i Sacerdoti lasciando solamente qualcheduno dei più sicuri a custodire la posizione ed i pochi cristiani che si sono fatti. Nel caso di non poter più sortire io non potrei essere risponsabile della missione Galla che non posso visitare; le cose non sono ancora ben chiare, ma dal momento che si dichiareranno non lascierò di scrivere a questo riguardo, come ho fatto anticamente di Aden. Il P. Leone attualmente in Ghera è incaricato di trattare la cosa presso i Principi Galla, per vedere se mi riuscirà di richiamare quelli all’accordo, veduto che nulla riesce, allora bisognerà pensare ad organizzare diversamente [p. 41 – f. 126r] la missione, altrimenti la mia superiorità è più nominale che altro, e non serve che ad aggiungermi peccati sopra peccati. L’anno scorso questo Re di Kafa aveva dimostrato un certo quale interessamento per aprire la strada dalla parte del fiume bianco, e metterci in relazione coi missionarii di Kartum che si trovano ai Bary, paese poco lontano di qui; il re medesimo sortì più volte questo affare, e mi promise di voler mandare il P. Leone con persone pratiche di quei confini ad esplorare, ma il diavolo da qualche mese a questa parte è entrato frammezzo col mezzo di qualche consigliere e furono voltate le carte; pare anzi che da ciò abbiano preso motivo a sospettare male di noi, epperciò per ora conviene mettervi una pietra sopra fino a tanto che piacerà al Signore; Se questo affare riusciva questa missione sarebbe stata salvata per sempre, ed /273/ avrebbe salvato tutto quest’angolo dell’Affrica, quale non è accessibile che per la via di Kafa, e questo paese rinforzato avrebbe tirato a se tutti questi contorni. Queste erano le mie speranze in grande, ma i pregiudizii del paese ci sono contrarii, e per ora non vi è altro a fare che lavorare nel ministero e così guadagnarci la piena fiducia del paese; anche la strada al Sud sarebbe possibilissima, ma i pregiudizii per quella parte sono ancora più fortemente stabiliti. La strada dell’Abissinia per questa missione è un grande impicio; Gabriele Didier della Motta da Rivalta (1824-1892) il P. Gabriele è sempre in Massawah, né da quanto veggo, potrà venire; l’anno scorso gli ho scritto una lettera forte, o di venire, oppure di ritornarsene in Europa, ma egli, secondo il suo solito, mi scrive due linee tante che bastano per indicarmi l’esistenza, eppoi nessuna risposta diretta di quanto gli scrivo, ne del posso o non posso venire, ne conti di amministrazione, ne nulla; dimodoché la missione lo mantiene, e per altra parte [p. 42 – f. 126v] siamo risponsabili della sua condotta, mentre io posso fare un bel nulla; non vorrei che si rinnovassero le storie antiche; se V. Em. mi dice di non pensarvi è un’altra cosa, del resto la cosa si finisca, e dia il rendiconto preciso delle somme ricevute e come sono state spese, perché mi risulta che questo Sacerdote ha ricevuto di qua e di là, e ricevo nessun riscontro da lui. Il P. Leone ha tentato l’operazione di Zanzibare, e non avendo riuscito, ha fatto tutti i sforzi ed è arrivato qui felicemente, ed attualmente si occupa nel ministero con soddisfazione di tutti; invece il P. Gabriele pare che ami di stare da se, ed indipendente, e così passarsela a spese dell’apostolato senza neanche dar nessun conto al Superiore, cosa che non può andare; l’amministrazione della missione è una sola, e queste oscurità fanno che io non posso liquidare bene le cose per giustificazione di chi da e di chi riceve; non è per me che io parlo, tutto il mondo sa che l’amministrazione qui è publica, visibile a tutti i Sacerdoti Europei, ed altrove si trova nelle mani di persone di riguardo, dimodoché si può sapere da tutti dove vanno le limosine; lo stesso P. Leone appena arrivato qui ha fatto la sua consegna di tutto come è dovuto ad un religioso, perché non dovrà far così il P. Gabriele? il Sacerdote che gira con denari a sua volontà corre la via della corruzione, e posso dire che per il passato le storie dolorose hanno avuto origine da questo; V. Em. R.ma, non creda tanto facilmente alle belle parole, bensì guardi di scuoterlo, o venga o ritorni; mi servirei della armi che mi da la Chiesa per scuoterlo, ma è una persona che non risponde, è in relazione coll’Em. V. R.ma, potrebbe anche darsi che abbia delle ragioni giuste che io non conosco, epperciò sto quieto. Se avesse seguito fedelmente il Superiore che gli ho dato, a quest’ora sarebbe già arrivato qui unitamente al medesimo, ma io non ho ancora potuto capire il perché si siano separati; il P. Leone interrogato usa dei riguardi nel rispondere, ma posso capire che non è stato contento, ne ha dato il consenso a tutti i giri che ha fatto. Io rimetto dunque questo affare decisamente all’Em. V. R.ma, e non mi mescolerò più del medesimo, ne lascierò più [p. 43 – f. 127r] versare somme nelle sue mani, perché i missionarii tutti che sono qui mi domandano licenza per il con /274/ sumo di un sale, lo stesso Coadjutore da i conti precisi dell’amministrazione della casa dove si trova, il solo privileggiato è il P. Gabriele, questo non va. [Nota del M.:] Da emendarsi perché si è giustificato.

Eminenza R.ma, per il passato Le scrissi in collera, ma Ella non può avere una giusta idea della mia tristissima posizione, persino ad essere tentato di ritornarmene, e ciò non perché io sia troppo tribolato, no, ma perché realmente ho nel cuore un capitale di timori tale, che la tentazione di andarmene sarebbe per mettere in sicuro l’anima mia. Se mi trovassi in luogo dove posso interrogare a mio talento la S. Sede, ed averne a mio piacere la risposta io non avrei difficoltà di restare sino alla morte, ma qui, per una parte paesi tutti nuovi, costumi nuovi, circostanze tutto affatto nuove importano giornalmente delle difficoltà affatto diverse da quelle che si incontrano nel ministero in Europa, e per l’altra, qui bisogna pensare a finire tutti gli affari col capitale di scienza che ho potuto aquistare stando in Convento, perché dopo, a quindeci anni a questa parte io non ho più veduto una teologia, e se voglio interrogare la S. Sede, posso sperare risposta dopo tre o quattro anni. Ho scritto parecchie cose, e di ciò che ho scritto ho neanche potuto tener coppia; molte cose restano ancora oscure: noi qui digiuniamo i digiuni del paese; se ho fatto male se ho fatto bene, non lo so, sono io che ho autorizzato tutti; in ciò posso temere che la S. Sede mi gridi, ma ciò non compromette molto la mia coscienza, perché so che essendo una cosa di legge semplicemente ecclesiastica, nel caso so che la Chiesa nei luoghi lontani e di difficile comunicazione, non è contraria alle determinazioni che prendono i Vescovi secondo sembra loro meglio in D.no; tale pure è l’affare del rito, ed altri simili, [p. 44 – f. 127v] ciò che più mi impicia sono le difficoltà che toccano la fede o la legge divina, quali sono frequentissime; quando hanno una chiarezza, allora è finita, bisogna morire prima che lasciar perdere un jota del Sacro deposito, ma la questione è nel caso dubbio, come sarebbe il giudicare di un culto che ha del superstizioso, in concorso sempre la questione col dovere di non tormentare inutilmente questi esseri che sono debolissimi, e molto più deboli dei nostri proseliti dei paesi civilizzati, perché quelli hanno per lo meno il capitale delle abitudini incontrate a juventute di calcolare e dar peso alle cose di fede, laddove questi selvaggj non sono assuefatti a dar peso a certe cose, e tutto sembra nelle mani nostre; non solo coi selvaggi nelle cose di fede e di diritto divino, ma col governo stesso, il quale da un canto pretende di essere un governo Cristiano, e nel cuore è molto al dissotto dei paesi Galla, la sua politica non si conosce, la sua parola, i suoi ordini, persino il giuramento non si può calcolare; un giorno presenta un campo di bellissime speranze, l’altro giorno Kafa sembra un covile di diavoli, non si può calcolar nulla; per una parte pare che meriti fare qualche sacrifizio, e pazientare tutto ciò che si può per la speranza del domani, per altra parte poi il pazientare pare anche pericoloso; frammezzo a tutte queste difficoltà non poter consultare a volontà colui che ha la chiave delle cose, è doloroso per molti riguardi, pericoloso per gli interessi dell’anima /275/ propria, pericoloso poi anche per il giudizio che se ne farà domani dal mondo Cristiano e dalla Chiesa sulle operazioni di oggi; io ho per sistema di tenere i sudditi sempre sul certo, anche in quelle cose che ho qualche dubbio nel mio cuore, e ciò per molte ragioni: la prima, qui siamo in paesi [Nota di mons. Felicissimo Cocino:] (perduto un foglio non essenziale)

P. 45 – F. 128r (Nº 3. continuazione alla S. C. di Propaganda)

Nei due quinterni precedenti ho fatto conoscere molte cose che toccano la delicatezza della fede e della morale nel ministero, come pure alcuni punti di disciplina e di interesse della missione; come ho scritto in fretta per mandargli subito al P. Leone in Ghera affinchè letti facia anche lui le note che crederà bene, e finito tutto gli mandi a Monsignore Felicissimo, affinché facia lo stesso; mi restano ancora alcune cose che spero finire nel presente quinterno, quale spedirò anche ai suddetti affinché faciano come sopra, così i missionarii saranno informati di ciò che scrivo per ogni caso di morte, e la S. C. potrà avere così il comune parere di tutti i missionarii, poiché da quanto posso prevedere sarà difficile che possiamo trovarci ancora tutti insieme per consultare gli interessi della missione.

Prima di tutto voglio fare conoscere il sistema tenuto fin qui nell’educazione del clero indigeno e lo stato attuale del medesimo, poiché anche sopra questo punto ho delle pene di coscienza per ciò che si è fatto sin qui, e delle oscurità sulla via da tenere in seguito, in ciò anche le persone che mi consigliano non sono d’accordo; alcuni vedendo la cattiva condotta di molti Sacerdoti stati allevati in Europa cercano di distormi dal piano di mandare colà gioventù per l’educazione; altri poi vedendo la poca istruzione dei Sacerdoti indigeni che vi sono nella missione, tutto all’opposto gridano che la missione alzerà mai la testa se non si manderà in Europa giovani ad istruirsi, e dal modo di parlare loro posso argomentare in modo anche da temere in conscienza [p. 46 – f. 128v] per ciò che ho fatto; come io sono amico delle cose chiare e voglio fare nessun mistero, ne presumere di me stesso, per maggior sicurezza amerei di essere istruito da Roma.

Per il passato senza dubbio ho fatto dei Sacerdoti ignoranti in confronto dei Sacerdoti europei, e posso dire che sono neanche a livello di una persona secolare civilmente educata in Europa; la ragione di questo mio procedere è stata la pura necessità; nel 1853. in Gudrù vedendo il pericolo in cui eravamo colà di essere caciati dal paese, oppure di essere vittime della persecuzione abissinese che colà ci poteva ancora arrivare abbiamo dovuto formare il piano della spedizione di Kafa composta di tre soggetti per assicurarla; essendo rimasto io solo in Gudrù per forza, perché altrimenti Gama-Moras non avrebbe lasciato partire detta spedizione, per avere un confessore ho risolto di ordinare Prete uno schiavo ferventissimo, ma niente affatto istruito, al quale ho insegnato la formola dell’assoluzione per potermi confessare, e sapeva neanche leggere il latino. L’anno seguente la spedizione fermatasi in Ennerea, avendo fatto dei Cristiani nel corso di un’anno che si sono fermati, dovendo par- /276/ tire per Kafa sortirono delle difficoltà per parte dei novelli Cristiani, e del Re di Ennerea, per comporre l’affare ho dovuto decidere che si dividesse la spedizione, ed affinché il P. Cesare destinato per Kafa non fosse senza un compagno Sacerdote da potersi confessare, ho ordinato Sacerdote un servitorello molto fervente e bravo, quale ho dato per compagno al P. Cesare con giuramento di istruirlo. Nel 1859. trovandomi in Limu per venire a Kafa in visita per non lasciare il neo consacrato coadjutore solo senza un confessore ho ordinato un’altro chierico bravissimo di costumi, il quale ha passato quattro anni con me facendo il servo, ma non ha mancato di sentire molte istruzioni, anche questo l’ho lasciato al coadjutore con giuramento d’istruirlo. Finalmente in Febbrajo 1860. essendo morto P. Cesare, e trovandomi con un solo Sacerdote in un paese dove il Prete ha molte occupazioni materiali di uso alle quali tutte non sarebbe stato sufficiente, ed anche per far conoscere nel paese il punto dell’ordinazione, ho ordinato [p. 47 – f. 129r] un altro schiavo stato comprato piccolino ed allevato in Aden, a tutti questi si aggiunge il P. Ajlù Michele, il quale era un giovane dotto abissinese che si è fatto cattolico da principio e ci ha seguiti sempre, stato di mio ordine ordinato da Monsignore De-Jacobis in Massawah nel 1851; quest’ultimo è il più istruito, perché anticamente dotto abissinese, e poi essendo sempre stato con noi ha sentito molte cose, ha imparato sufficientemente il latino per capirlo; avendo un genio per imparare, ed avendo servito d’interprete in quasi tutti i lavori che si sono fatti, in materia di scienza può contarsi per un mediocre Sacerdote europeo, forse più perito ancora in materia liturgica; questi se non avesse qualche pregiudizietto del paese sarebbe anche capace provisoriamente a diriggere la missione in mancanza di europei; dopo lui tutti gli altri Sacerdoti indigeni leggono il latino sufficientemente senza capirlo ad eccezzione dell’ultimo ordinato per nome Paolo, il quale lo capisce un tantino. Il mio sistema di scuola è stato sempre invariabilmente questo: mentre mangio facio fare la lettura o di S. Scrittura, oppure di un compendio di teologia in amarigna che ho potuto avere dall’abissinia, e facio sul fatto breve spiegazione di quel pezzo; quindi ho sempre usato di far leggere nella scuola del latino qualche pezzo di liturgia o del messale o del rituale, specialmente le funzioni più ordinarie del Sacerdote, e facendo leggere usava di fare la spiegazione gramaticale dei termini principali, quindi la spiegazione delle rubriche a misura che si presentava, spiegazione storica se occorreva, ed anche teologica e mistica quando si presentava; questo l’ho mai lasciato, benché le occupazioni esteriori, in questi paesi dove bisogna fare tutti i mestieri per montarsi una miserabile casa e tenerla in ordine, poco sia il tempo che si possa trovare all’istruzione, e non trovandosi a volontà servi fidi e buoni, tutto il peso della casa resta a carico del padrone e di quei pochi più attaccati i quali sono per lo più studenti; quelli che sono rimasti con me il poco di istruzione suddetta l’hanno mai perduto, e dalle informazioni che ho potuto avere anche nelle altre case simili istruzioni non mancavano; [p. 48 – f. 129v] queste sono le istruzioni che /277/ hanno questi miei Sacerdoti; appena ordinati tre o quattro settimane di conferenze dirette sulla confessione pratica e poi gli abilitava anche a confessare per forza dando loro tutte le facoltà che ho, e riservando solo qualche cosa per mantenere viva la disciplina della riserva; certamente poi finora non si sono potuto formare case di scuola regolare, neanche di grammatica, e queste non si potranno fare tanto presto, perché mancano tutti gli elementi necessarii, istruttori, libri, e persino la casa ed il vitto necessario, perché i paesi non si prestano; la missione non possiede ancora un libro di teologia e di grammatica; i manuali di scuola, compendii di rituali, e breviarii sono tutti scritti da me; i paesi Galla si presterebbero di più per far case di scuola per la parte del vitto, ma là difficilmente si trovano allievi; qui in Kafa si troverebbero ragazzi, ma si stenta per il vitto, ed i ragazzi allievi non sortirebbero dal loro paese: una casa di scuola esigge delle persone capaci e certe commodità che difficilmente si possono trovare in paese; per questa ragione l’istruzione dei giovani per il passato è stata molto poca e questi pochi Sacerdoti che ho fatto se siano o no abbastanza istruiti è un gran punto che mi affligge, e fa che non oso più aggiungerne, il pensiero come ciò si possa organizzare per l’avvenire mi occupa molto, e non trovo una strada chiara. I Sacerdoti che tengo attualmente sono poco istruiti, ma di costumi pajono buoni ed anche ferventi, specialmente i galla; questi dal momento che hanno preso diventano sodi e capaci di qualunque educazione, laddove gli abissinesi anche quando pare che abbiano preso, lasciano sempre ancora qualche timore, la loro fede o carattere è più leggiero e si lascia andare facilmente alla corruzione, forse lo stesso giudizio posso fare della schiatta Sidama di cui ancora non sono certo; la razza abissinese e la razza Sidama nell’estrema corruzione si incontrano, il galla all’opposto è più riservato e più morale, segnatamente nei paesi liberi; la lussuria in Abissinia, e più ancora di Kafa è non solo all’eccesso, ma senza nessun freno esteriore di pudore, anzi onorata, laddove ciò non si vede nei paesi Galla indipendenti; i Galla ereditano la moglie del fratello e può dirsi questa la macchia più grave che abbiano, [p. 49 – f. 130r] nel loro esterno poi sono riservatissimi, difficilmente trovasi fra loro una donna publica, e le figlie sono talmente custodite che nel matrimonio si da in giudizio contro i genitori se non è trovata vergine; laddove nei paesi abissinesi e sopratutto Sidama, tutto questo non si trova, il vizio regna glorioso, questi ultimi ereditano le mogli del Padre per atto publico, e pretenderebbero persino di negare l’onore e rispetto dovuto al [l’] uomo casto, se questa legge naturale non fosse troppo ben stampata nel cuore del[l’]uomo; per questa ragione il paese di Kafa credo che sarà sordo alla grazia, lascierà sempre temere per la disciplina del clero segnatamente per la castità, ed io credo anche che sarà difficile ottenere fra i medesimi una educazione completa di ragazzi, almeno fino a tanto che la missione non avrà potuto circondarsi di una quantità di ferventi cristiani che servano di modello; l’unica cosa buona in Kafa è che si possono battezzare ragazzi a volontà e così salvare molte anime innocenti; /278/ gli adulti sentono con piacere, ma il loro cuore è di pietra, alcuni temerarii e presuntuosi protestano apertamente di voler restare nel sistema antico, la maggior parte sente volentieri, ammira ma affatto non si muove; in due anni, di circa 50. adulti battezzati, appena ne contiamo sette otto dei quali il cuore riposi lasciarli comunicare; abbiamo fatti dieci o dodeci matrimonii, però con poca soddisfazione ad eccezzione di qualcheduno, diverso da Ghera, dove in tre o quattro mesi abbiamo potuto fare circa 20. matrimonii, fra i quali tre che si sono disfatti delle mogli superflue, gli altri si trovavano con una sola moglie – In Kafa non vi è altro di buono se non che si possono battezzare ragazzi a volontà, perché i genitori non si oppongono, se non quando cercassimo di battezzargli quando non fossero ancora circoncisi, e ciò solamente, come credo, nel caso di volergli battezzare in Chiesa, perché considerano per immondo chi non è circonciso; ne dobbiamo avere il consenso dei parenti perché questi sono di nome Cristiani e non si oppongono certamente, semplicemente che non possiamo pretendere dai medesimi la promessa di istruirgli ed educargli cristianamente, siamo però come certi che venendo grandi non saranno impediti se vorranno farsi buoni Cristiani, per questa ragione credo che si possano, anzi si debbano battezzare indistintamente tutti, potendo bastare, secondo il mio parere, la buona volontà dei [p. 50 – f. 130v] Padrini e dei Sacerdoti di istruirli poi quando saranno capaci, non potendo battezzargli sulla promessa dei genitori, i quali non sono ancora in stato di pensare a se stessi. Kafa è un paese Cristiano di nome, e come Cristiano viene considerato da tutte le popolazioni vicine; la stessa casta idolatra di Kafa che è forse la maggiore, all’estero è considerata come Cristiana, e realmente deve essere di stirpe Cristiana, perché questa medesima osserva a suo modo tutte le feste Cristiane conosciute in paese, ed anche molti digiuni, e simpatizza molto coi Preti, dei quali non potrebbe far senza; il clero di questa nazione nominalmente Cristiana presentemente è cattolico, e con questo titolo di preti del paese, la magistratura del medesimo essendo nelle nostre mani, noi possiamo battezzare tutti i ragazzi che vogliamo ed anche istruirgli a nostro piacimento, ed il futuro della nazione è tutto a noi comunque si possa calcolare buono o cattivo; Resta perciò a vedersi, se per questa ragione possano tollerarsi alcune cose che puzzano di superstizione, benché non si possano stricte chiamare superstizioni, ma bensì culto indebito, come sono le già da me citate, ed altre meno importanti che forse avrò dimenticato; contradicendo la nazione in queste cose nelle quali è abituata da secoli si corre al pericolo di arrivare ad una rottura che potrebbe anche cagionare l’espulzione totale della missione, oppure la formazione di una Setta detta Cristiana, la quale immancabilmente predominerà sopra di noi, e non mancherà di privarci di tutti gli elementi surriferiti, ed aggiungersi ai nostri avversarj; questa setta non mancherà di sortire subito, che il paese potrà avere qualche Sacerdote nominale venuto dall’Abissinia, oppure qualche nostro traditore; il governo per parte sua non mancherà di favo [p. 51 – f. 131r] rire qualunque si sepa- /279/ rerà da noi, e non solo gli favorirà ma gli lusingherà, e metterà certamente fuori tutto ciò che sa per ottenere l’intento; prima che il ministero nostro si facesse conoscere, le persone del governo lasciavano sperare che avrebbero preso parte col Vescovo per sostenere la disciplina del clero, ma appena conobbero la cosa, e furono feriti dalla verità hanno ritrocesso, e di giorno in giorno spiegano vieppiù bandiera nemica, a fronte che l’opinione del popolo ci sia più favorevole che contraria; quando poi venisse a negarsi la personalità dei Preti per tutti gli atti di culto indebito o superstizioso sopra esposto, allora potrebbe anche darsi che il publico prenda parte contraria, ed allora il governo potrà perseguitarci apertamente senza nessun freno. La persecuzione, Ella dirà, non deve variare il sistema d’istruzione e di disciplina evangelica, ed ha tutta la ragione, e per la fede e per la purità anche della disciplina Cristiana essenziale, lo stesso Cristiano deve morire a preferenza di cedere, a fortiori il Sacerdote missionario che ne è maestro e custode; dirò ancor di più [:] i Sacerdoti che attualmente tengo qui sono moralmente certo che morirebbero tutti, solamente che io spieghi bandiera contraria a queste osservanze, e protesto chiaro che sono io che finora ho ordinato la tolleranza creduta prudenziale per non perdere le grandi speranze che io aveva concepito nel mio cuore sopra questo paese, e benché io temessi nel mio cuore, [p. 52 – f. 131v] pure non osava neanche esternare i miei timori, essendo mio sistema di allontanare sempre il dubbio dai sudditi, tanto più in questi paesi, dove i neofiti ed allievi non potendo distinguere ancora bene le cose la moltiplicità dei dubbj e delle questioni potrebbe essere di scandalo. Del resto sarei certo per parte di tutti i Sacerdoti che darebbero il sangue qualora fossero certi che la cosa è apertamente proibita; io perciò fin qui ho ordinato [io] la tolleranza, prendendo sopra le mie spalle tutta la risponsabilità sulla speranza di poter presto correggere tutte queste cose, a misura che l’istruzione si sarebbe propagata e la mia influenza si sarebbe vieppiù stabilita; se abbia fatto bene o male per il passato, Iddio e la Chiesa me lo perdoneranno, quello che mi affligge è l’avvenire; l’istruzione cammina lentamente e l’influenza invece di crescere si indebolisce, e la speranza di poter correggere queste cose si fa più lontana; videndum perciò se ad ogni costo si debbano rompere tutte queste trappole del diavolo anche a costo di perdere la missione? alcune cose, come il culto dei così detti tabot, la circoncisione sarebbero anche in certo modo di scandalo dei pusilli, epperciò cresce il dubbio; ho scritto nel catechismo tutti questi punti, ma vi vuole molto tempo a far entrare la persuasione in questi bruti animali formati dall’abitudine e non dall’istruzione, e non accostumati a dare peso alla parola del ministero – Se fossi vicino a Roma non prenderei alcuna determinazione sen- [p. 53 – f. 132r] za sentire prima il parere dei Superiori, ma lontano, e senza speranza di risposta, il tardare temo che la cosa passi in sistema e venendo io a morire prima di correggere queste cose, dopo crescerebbero le difficoltà, è probabile perciò che mi slanci a combattere senza l’ordine del generale d’armata; dal momento che scrivo ho già incom- /280/ minciato a toccare qualche punto, e la guerra si può dire incominciata, come finirà lo sa Iddio; presentemente mi persuado che è molto più facile convertire i gentili e piantare una nuova cristianità di quello che sia correggere e portare alla disciplina una Cristianità caduta e guidata da abitudini corrotte; alcuni eroj della Chiesa che hanno dato la vita per sostenere certi punti di disciplina i quali a prima vista sembrano quasi minunzie, tutt’altro che giudicare rigorismo, bisogna dire ed ammirare nei medesimi uno spirito di grande economia evangelica che faceva loro presente tutte queste cose che qui tocchiamo colle mani, perché un popolo cristiano caduto nella superstizione è più lontano dal suo ritorno a Dio del popolo gentile medesimo. Facio in Kafa una riflessione che aveva già fatto in Europa, e quindi in Abissinia; questi Kafini erano superbi del loro nome cristiano, a segno che consideravano come immonde tutte le popolazioni infedeli dei contorni, segnatamente i mussulmani stabiliti nel paese; appena arrivati noi, ed il ministero si è fatto sentire, Pilato ed Erode si sono fatti amici, ed i Kafini senza lasciare la loro superbia cristiana, per far la guerra a noi incomminciano ad unirsi con tutte queste famiglie del diavolo [;] [p. 54 – f. 132v] come in Europa i cattivi ed increduli cattolici, gli eretici, gli Ebbrei, ed i turchi tutti uniti battono la generala contro il Papa e contro il clero, come se fossero gli unici rei da estirpar dal mondo, hanno ragione, perché lontano dalla Croce la causa è una, e la croce come ha portato una volta, così porta ancora nei seguaci di Cristo i peccati di tutti ed il Sacerdozio deve continuamente celebrare la gran Messa col Sacerdote eterno per la pace del mondo; per questa unica ragione, appena comparsa la Croce in Kafa che ne è la bandiera, subito si unirono in un sol reggimento tutte le truppe nemiche a fargli la guerra; per me, se mancassà [!] altra prova di divinità nella Chiesa, mi basterebbe questa; ciò che più stupisce la stessa Croce Santissima in mano del Sacerdozio Scismatico o eretico diventa ancor essa bandiera per far guerra a Cristo, prova che il motto d’ordine ed il segnale di separazione di coloro che cercano Dio, e di coloro che cercano il diavolo, non è la Croce, non sono le cose anche più sante create da Cristo, ma è il solo Papa, col Sacerdozio a lui unito, deve essere questo un gran pensiero dei giorni nostri piantato ben fermo in tutti coloro che amano la loro salute; nella Chiesa militante non avvi che una sola bandiera portata dal Papa, tutto il resto è lusinga e infedeltà per chi ha intelletto, tra Cristo e l’anticristo non vi è altro mezzo che l’ignoranza vera che meriti compassione nel giorno della gran lotta che va avvicinandosi.

Ritornando alle questioni che inpiciano il ministero debbo parlare di una cosa comunissima fra i Galla [p. 55 – f. 133r] indipendenti, ed è questa la questione del sangue, quale porta necessariamente con se l’odio mortale fino a tanto che il sangue sparso non è restituito, e ciò non fra due persone, ma fra due schiatte o parentele – Dal momento che è occorso omicidio o mortale ferita la parentela dell’uccisore, e quella dell’ucciso si separano a segno che non solo non devono più parlarsi ne trovarsi insieme, ma trovandosi si devono /281/ battere ed amazzare a vicenda, e se qualcheduno della parentela rompesse questa legge sarebbe come traditore abbandonato da tutti ed anche perseguitato; occorrendo qualche Cristiano di questi che domandi i Sacramenti, quid agendum? la cosa è così forte che una persona per buona che sia non può spogliarsi di questo odio, se pur deve dirsi odio; per capire questa questione bisogna premettere che fra questi Galla la legge penale e coercitiva è nel popolo, ed appunto nel complesso di queste instituzioni consiste il freno contro l’omicidio; facendosi la guerra fra le due parentele, di necessità sortono poi le parentele neutrali per far fare la pace, la quale per lo più ha luogo dopo molte discussioni e con restituzioni o compensazioni pecuniarie fissate dagli usi; se non vi fosse questo odio e questa guerra non potrebbe aver luogo la pace e la giusta penale, come suole accadere in qualche straniero o povero che non può battersi, il sangue sparso resta per lo più impunito, se gli aderenti del morto o ferito non trovano qualche parentela potente che gli riceva come figli, e dichiari in facia al paese che quei tali sono suoi consaguinei: Ciò presupposto, mi pare [p. 56 – f. 133v] che la questione in proposito si possa chiamare più questione d’interesse o di politica, che questione di odio personale proibito dal Vangelo; perciò le regole date ai Sacerdoti sono le seguenti: Se la persona che domanda i Sacramenti protesta di non aver odio personale nel suo cuore, che prometta di fuggire l’omicidio ad ogni costo di quelle date persone, schivandone l’incontro per quanto può, e che nell’odio esterno non intenda altro se non che quello che è di diritto nel giudizio del paese, allora si diano i Sacramenti; tale è la regola data al clero, non ho lasciato però di far sentire in tutta la sua estensione la parola evangelica, affinché i Sacerdoti in pratica si assicurino che non vi sia odio personale, se abbia toccato il punto giusto o no, amerei di essere avvertito in caso contrario. Nei paesi Galla avvi ancora un’altra cosa anche notabile che tocca la restituzione: nei paesi Galla indipendenti principalmente nei giudizii non è calcolata affatto la colpa ne teologica ne civile come nei nostri paesi: per esempio l’omicidio commesso da un ragazzo di un’anno, e da un’adulto, anche premeditato comunque è egualmente giudicato e condannato, così tutti gli altri casi che importano una multa o compensazione o restituzione; videndum perciò se i Cristiani possano pretendere e ricevere in buona conscienza a norma degli usi e procedure del paese, oppure debbano [at]tenersi alle leggi della morale e legislazione Cristiana; in caso affermativo, credo bene far osservare che in questo caso i poveretti sarebbero aggravati, perché nel passivo saranno per forza obligati a sborzare senza colpa, e nell’attivo poi sarebbero obligati a lasciar andare molte cose; videndum perciò se a titolo di compensazione generale non sia sufficiente [p. 57 – f. 134r] per lasciar correre ogni cosa secondo le leggi del paese. Aggiungo ancora una difficoltà che occorrendo spesso nella casa della missione deve supporsi che occorra anche nelle case particolari dei Cristiani, ed è relativamente alla punizione dei schiavi colpevoli. Già ho parlato sopra che relativamente ai schiavi si desidera sapere se si possa vendere uno /282/ schiavo da chi ne tiene per il puro bisogno della casa ed affatto non negozia, e ciò per due ragioni, o per colpa grave e quasi delitto capitale commesso dallo schiavo, oppure per un’estrema, od anche solo grave necessità della casa; a questo riguardo appoggiato a ciò che mi pare aver letto in teologia, che cioè nell’estrema necessità il Padre può vendere persino il proprio figlio, io aveva dato qualche regola già scritta antecedentemente, per cui spero risposta per mia tranquillità; ma nel caso questa non sarebbe per la casa della missione, potendo sempre ancora essere scandalo in chi ha conosciuta la vendita, senza aver conosciuta la causa; bramerei sapere, segnatamente per la missione, se uno schiavo colpevole possa essere punito anche colla morte a norma del suo delitto dal Superiore della missione, mancomale dietro giudizio fatto in forma? Si osservi che nei paesi Galla indipendenti ogni Padron di casa è Re, e lo schiavo anche considerato come servo e non schiavo, non potendosi ne vendere ne punire, e neanche lasciare in libertà, diventerebbe un essere perniciosissimo e senza nessuna legge coercitiva; per far capir questo porterò un fatto che mi occorre attualmente qui in Kafa: uno schiavo stando [p. 58 – f. 134v] in casa mi rubò delle vacche, poscia castigato se ne fuggì e si ricoverò in casa di uno schiavo del Re, dove aveva fatto passare le vacche rubate, e stando là veniva di notte a rubarci altre vacche, e d’accordo cogli impiegati del Re minaciava di rubarmi la Chiesa; si suppone che il Re di nascosto fosse d’accordo, benché apertamente nostro amico; ho fatto molte demarcie presso il Re per avere questo schiavo, sempre belle promesse, ma l’ho mai potuto avere, un bel giorno fu preso da un signore e mi fu consegnato; l’ho posto subito ai ceppi, e dopo cinque mesi si trova ancora attualmente nei ceppi, ne io mi sento di scioglierlo, perché domani farà peggio di prima, e coll’amicizia nascosta del governo rovinerà la missione; un’originale che da un canto fa la propaganda contro il ministero, da un’altro canto ci ruba, da un’altro lato ci mette a male col governo, e vi sono persino di coloro che temono fuggendo amazzerà qualcheduno... Secondo l’uso del paese non potendosi amazzare lo schiavo senza ordine del Re, ho cercato di darlo al Re affinché lo punisse colla morte, ma invece ha preso le sue parti; come si sa non possiamo venderlo; lasciarlo in libertà, se farà del male sarà sempre a nostro carico, perché lo schiavo in facia alle leggi è conosciuto nella personalità del padrone; quid agendum? non vi è altro rimedio che i duri ceppi sino alla morte, e così mantenerlo e mantenere ancora gente a custodirlo, mentre lui cerca far dissertare ancora gli altri schiavi, come ha fatto pel passato. Un individuo tale non potrebbe essere punito colla morte? La missione, almeno per alcuni anni [p. 59 – f. 135r] non può fare senza schiavi, come sopra ho fatto vedere, e posti i schiavi accadono queste cose; vi sono schiavi che riescono anche per il Sacerdozio, ma nella quantità ne sortono dei perfidi, i quali hanno bisogno di tutto il rigore del castigo; se in Kafa il Re fosse un poco più galantuomo potrebbe prendere lui la parte del rigore, e così sgravari [!] i Missionarii, ma nei paesi Galla il Padrone è Re, epperciò non deve essere al dissotto /283/ degli altri, altrimenti come potrà cavarsela? Ciò che permette Iddio, mi pare che si possa fare secondo il mio giudizio, l’umanità attuale però dell’Europa porta la cosa tanto avanti, che se non altro temerei di compromettere l’opinione Sacerdotale presso gli europei, epperciò amo di essere consigliato, – La Chiesa è sempre stata quella che ha mansuefatto i tiranni, lo spirito di mansuetudine e di tolleranza evangelica ha fatto tanto progresso, che dimenticatosi di essere figlio di Cristo e della Chiesa, vorrebbe quasi trattare da tiranni i proprii genitori, ma la buona vecchia madre sempre giovane nei suoi calcoli futuri, superiore al torrente delle passioni del tempo, invitta a pazientare gli insulti dei figli traviati, guidata da speranze che non falliscono, aspetta intrepida che il colosso sociale da essa fabbricato, e come paterno patrimonio rapito dagli insolenti nell’attuale emancipazione che si sta facendo, aspetta che crolli, per ricevere allora sempre benigna i dispersi ed affamati figli che verranno ai suoi piedi a piangere le rovine delle loro antiche grandezze, ed allora [p. 60 – f. 135v] la sposa eterna sempre attiva, sempre feconda, radunerà i brani della gran famiglia distrutta dal mostro dell’infedeltà chiamato progresso, o meglio superbia, il quale sta elevandosi supra omne id quod dicitur Deus et colitur. Io poi qui, indegno ministro della così detta vecchia, quale, sempre attiva anche nella supposta sua vecchiaja, spinge le sue operazioni di vero e sincero progresso fra i boschi più sconosciuti dell’Affrica, dove ancora esistono alcuni tronchi nostri fratelli di sangue che non hanno sentito la dottrina regeneratrice e civilizzatrice, mentre piango i gemiti della gran madre che si fanno sentire dalla gran sala del mondo sino a queste estremità, ricorro alla medesima incerto di trovarla ancora nel suo seggio di maestà in cui fu fatta sedere dal Dio vivente come della gran casa; oppure sia stata anche essa costretta a sfrattare e domandare protezione fra le fiere dei boschi, e ricorro appunto per consigli dalla grande maestra, negli attuali bisogni di un paese senza religione, epperciò senza società, senza umanità, e povero di tutto, perché lontano da Dio e fuori dalla Chiesa –

Parlo ora della difficoltà di avere il vino per le Messe: nei paesi Galla si celebra col vino fatto col zebibo, e per questo alcune difficoltà, quali difficilmente si possono riparare e lasciano sempre delle pene al Superiore: il vino fatto col zebibo non si conserva, ma bisogna farlo ogni volta, e ciò dipendendo da molti individui poco assuefatti all’esattezza, lascia sempre qualche [p. 61 – f. 136r] timore, tanto più che questo zebibo è molto caro, viene dall’Abissinia, ed arriva quasi già tutto mangiato dal tarlo; con molta pena ho fatto venire dal Gogiam delle viti, sono state piantate in Gudrù ed in Lagamara, e nel terzo anno quando sperava di avere dell’uva si è trovato che la vite è di una specie detta maschio che non fa frutto, cosa che [non] ho mai saputo in Europa, perché forse colà i nostri antichi han fatto perdere questa specie, e noi neanche lo sappiamo per essere loro grati. In Kafa poi ho trovato la vite che produce mediocremente bene; il granello di quest’uva è di specie rossa, forse più grosso di tutte le nostre specie europee, ma sia per la /284/ sua natura particolare, oppure sia effetto delle pioggie abbondanti, quest’uva ha quasi niente di melaccia o parte succarina, ed il musto che si spreme da essa è quasi aqua pura; ho nel primo anno, per mancanza di vasi, cercato di farne seccare, ma il zebibo che ne risulta è senza sostanza; il vino perciò è molto leggiero molto al dissotto di tutti i vini dei nostri paesi; tuttavia il mio cuore riposa di più, come vero vino di vite; come nel paese non ce n[’]è che qualche pianta, appena incomincia maturare gli uccelli la finiscono, a forza di pagarla bene ci riesce di farla custodire e così radunare circa dieci libbre di uva per le messe di tutto l’anno; come nel paese non vi sono vasi da conservare vino, massime trattandosi di un vino così debole, lo conserviamo nei piccoli fiaschetti venuti per le medicine, epperciò il vino [p. 62 – f. 136v] il vino è molto poco, e basterebbe appena per celebrare 25. o tretta[!] messe al più, se fosse usato nella quantità che si usa in Europa; per poter celebrare qualche messa di più, essendo in questi paesi l’unica cosa che possa un tantino consolarci, ed anche per poter far celebrare qualche volta questi novelli Sacerdoti, ho ordinato che la quantità non oltrepassi le venti goccie, e suole misurarsi con un cucchiarino da caffé di stagno piuttosto piatto, il quale arriverà appena alla quantità suddetta, ed invece di tre goccie di aqua ne ho ordinato una piccola per servare il mistero e nel tempo stesso la proporzione delle due sostanze; quindi ho proibito di usare vino nella purificazione, per la quale ci serviamo dei depositi, ai quali si aggiunge dell’aqua per salvare il nome del vino; se in ciò abbia fatto bene o male non lo so, so solamente che l’ho fatto per un buon fine, il giudizio sta alla Chiesa, ed io sono disposto a riceverne il castigo se ho fatto male, purché non mi si chiuda la speranza alle preghiere della Chiesa e le porte del paradiso.

La povertà non è solo nel vino, ma anche nell’olio santo; dopo aver gridato tre o quattro anni mi riuscì di avere qui una bottiglia di olio di olivo, ed il balsamo mi arrivò solo ultimamente coll’arrivo del P. Leone; conservo perciò il medesimo come un tesoro, epperciò non si fa ogni anno la consacrazione degli olii, epperciò neanche la prescritta rinnovazione dei medesimi; per questa ragione anche ho ordinato che nella benedizione del fonte, invece dell’infusione prescritta [p. 63 – f. 137r] dalle rubriche si facia la sola unzione della superficie dell’aqua col pollice intinto nell’olio S., come nelle altre unzioni; tanto più che in questi paesi per mancanza di conservatori decenti dovendo fare quasi ogni volta la benedizione del fonte, l’infusione consumerebbe molto olio; anche in ciò io dico le disposizioni date, Iddio giudicherà le strettezze ed il fine che mi indussero, la Chiesa poi deve fare il suo dovere affinché non si introducano delle corrutele, ed io sarò ubbidiente agli ordini –

Dirò ancora una cosa ed è che la missione non è ancora in stato di conservare l’eucaristia per gli infermi e per l’adorazione dovuta ad un tanto mistero, neanche mi è riuscito ancora di poterla conservare per la messa dei presantificati nel Venerdì Santo; la ragione è la povertà delle chiese, e la mancanza di luogo decente /285/ come tabernacoli e simili; se potessi sarei premuroso di conservarla, non fosse altro per stabilire la massima della presenza reale permanente, e ciò tanto più perché l’Abissinia non usa di farlo affatto, e noi dobbiamo cogli abissinesi cristiani anche cattolici prendersi delle misure nel raccontare la disciplina della Chiesa a questo riguardo, cosa che mi fa dubitare... Sono pochi gli abissinesi dotti che vengono qui, ma giudicando da certe loro parole, e da certe misure che bisogna prendersi per non scandalizzargli discorrendo di ciò, mi credo in dovere di mettere in guardia la Chiesa su questo punto; nel 1847. trovandomi con Monsignore Dejacobis so che ha conservato otto giorni l’eucaristia nella cappella interna, [p. 64 – f. 137v] ciò però faceva con molta circospezione e non voleva che si sapesse anche in famiglia; dalle difficoltà che incontrai a persuadere alcuni miei allievi venuti di là mi accrebbero il dubbio, che il male non sia solo nella disciplina, ma nella fede, epperciò credo bene esternarlo; io qui però posso dire niente di certo. La Chiesa può far esaminare la cosa dai missionarii di detta missione perché l’abissinese ha molta abilità nel nascondere i veleni che ha nel cuore –

Ripeterò poi qui ciò che ho scritto parecchie volte e di cui ancora non ho avuto risposta; io ho autorizzato tutta la missione all’osservanza dei digiuni etiopici, e delle feste in quanto al solo kalendario esterno; in chiesa poi da noi si osserva in tutto il kalendario latino; come pure per mancanza di breviari] romani ho autorizzato tutti i Sacerdoti a recitare il breviario della Madonna ut in festo ad Nives, e ciò anche i Sacerdoti europei quando si trovano a far coro cogli indigeni. Le ragioni di queste mie determinazioni le ho scritto più volte e mi dispenso dal ripeterle, in ciò se vi è male è tutto mio che ho creduto potermi prendere questa risponsabilità avanti Dio ed alla sua Chiesa; fino a tanto che non viene risposta io sono tranquillo.

La missione non è ancora in regola anche in un’altra cosa, ed è nella registrazione regolare dei battezzati, confermati, maritati, e morti; la registrazione di molti è stata perduta, e di molti anche inesatta e ciò per molte ragioni; scarzezza di soggetti, [p. 65 – f. 138r] mancanza di libri bianchi, e sopratutto mancanza di luoghi stabili, case sode, e simili; e non nascondo sopratutto l’ignoranza dei sacerdoti e l’incuria dei medesimi, perchè sono cose alle quali danno poco conto. Le registrazioni poi per se stesse sono difficili, perchè qui non vi è cognome, il nome del padre è soventi incognito, ed i nomi sotto cui sono conosciuti gli individui sono anche variati, come in Kafa la persona nel maritarsi cangia nome, e nei paesi Galla è chiamato col nome del figlio dopo che ne ha avuti.

La mattina del giorno 26. Agosto mentre stava scrivendo avanti la porta della chiesa viene il P. Ajlù Michele a dirmi che una gran quantità di cavalieri e grandi di Kafa erano entrati sul nostro terreno e si avvanzavano verso il recinto della casa e della Chiesa in modo da sospettare qualche operazione del governo, e mi esortò ad entrare in Chiesa e nascondermi, come ho fatto, lasciando fuori /286/ lo scrittojo colla presente; mentre stava pregando la Madonna e rassegnandomi, ecco avvicinata la milizia suddetta e metter le mani sopra tutti i ragazzi, legargli e lo stesso Prete: fatto ciò, domandarono di me, e mi comandarono di sortire dalla Chiesa per sentire gli ordini reali; dopo qualche esitanza sono sortito e mi posi a sedere nel luogo di prima, e subito un grande di Kafa mi disse che aveva ordini reali... i seguenti «abbiamo consultato i periti del paese e ci hanno detto che il Vescovo non è conveniente al nostro paese, ordine di partire subito... mi domandarono quindi conto dello schiavo [p. 66 – f. 138v] di cui ho scritto sopra (morto otto giorni prima) avendo risposto che era morto, mi fecero premura di partire, ed avendo cercato di prendere un poco di carta col calamajo mi fu proibito... cercando di fare qualche rimostranza per la roba e per i preti (P. Giacomo e P. Giovanni il giorno avanti con furberia stati chiamati dal Re furono separati e custoditi senza che io lo sapessi ancora) mi dissero che tutto mi sarebbe stato spedito dopo, ed intanto mi obbligarono a partire subito non permettendomi neanche di rientrare in Chiesa per vestirmi, mi permisero però di prendere cinque persone di servizio, e così siamo partiti, senza sapere dove ci avrebbero portato, frammezzo un pianto universale di quei di casa e di alcuni più ferventi cristiani; vedendo nessuna resistenza fu sciolto il P. Ajlù, quale potè seguirmi un pochetto per dargli alcune autorità ed avvisi; era circa mezzogiorno, ed abbiamo camminato sino alla sera verso i paesi Galla accompagnati da più di cento cavalieri, fra i quali molti grandi, i quali mi usarono molto rispetto, ed avendo camminato quasi tutta la notte, detti grandi mi tenevano il fanale colle loro mani, e mi sostenevano a lato del mulo (erano Cristiani, di nome però, ai quali non era ancora arrivato il ministero) verso mattino mi fecero entrare in un piccolo goggiò capanna sui confini verso Ghera; questo mi consolò, sperando che mi avrebbero fatto passare in detto paese. L’indomani ho creduto bene prima di partire di fare protesta per la roba, trovandosi colà radunato il sostenimento di tutta la missione, ed anche per i preti, e mi dissero che tutto avrei ricevuto ad eccezzione del P. Giacomo; quindi mi obbligarono a partire, benché infermo colla schiena che non poteva reggermi in piedi. Si partì, ma appena partiti, vedendo [p. 67 – f. 139r] prendere una strada diversa da quella di Ghera, perdetti la speranza di vedere più i miei missionarii, perchè è costume di Kafa di far perdere i colpevoli fingendo di farli passare in qualche altro paese, epperciò si fece nel mio seguito colà un gran pianto; si camminò due giorni costeggiando il fiume Goggieb, ed alcuni supponevano che ci volessero gettare nel fiume suddetto; ci seguiva uno schiavo del Re portante un cane morto e putrido, e seppi allora dai miei che una nostra schiava avendo pochi giorni prima ammazzato un cane e sotterrato per timore, qualche spia ha supposto al Re che detto cane sia stato sotterrato per ordine mio, epperciò ordinò che detta carogna mi seguisse sino ai confini e fosse gettata nel fiume; da ciò ho imparato una nuova superstizione del paese, che cioè il cane sotterrato venga considerato come un prestigio /287/ magico contro il paese, epperciò delitto politico. Strada facendo i miei di casa hanno sentito parecchie cose di sotto dalla bocca degli indigeni: alcuni dicevano che il governo avrebbe fatto fine di me, alcuni altri al contrario supponevano che il governo voleva farmi passare in paesi, dove non avrei più potuto aver comunicazione coi miei preti, perchè essendoci io non potevano fare dei preti come volevano, e così erano infinite le cose che si sentivano; dopo due giorni e mezzo di viaggio siamo arrivati al Goggieb nel punto dove si passa per andare in Gemma Kaka, allora riposò un tantino il mio cuore, supponendo che mi avrebbero consegnato al Re di quel paese, e così avrei potuto trovarmi ancora coi miei [p. 68 – f. 139v] sacerdoti e missionarii. La sera del 29. abbiamo passato il Goggieb sopra un ponte sospeso fatto con legaccie del bosco, ed appena passato ho veduto che una persona, amazzata una pecora col sangue della medesima ungeva il ponte medesimo, ed avendo domandato il perchè, mi dissero che ciò era per placare il fiume o Iddio sul punto della mia espulzione; e mi dissero che a lungo della strada quella stessa persona non fece altro che di quando in quando amazzare, ed ungere di sangue i luoghi del mio passaggio, e che si amazzò in tutti i luoghi che ho pernottato appena dopo la partenza; il significato di ciò non saprei ancora ben spiegarlo, perchè non ancora conosco tutte le superstizioni del paese. Appena passato il fiume io credeva di essere lasciato in libertà dai Kafini ma mi accorsi la sera di essere molto ben custodito ancora, perchè volendo sortire dal mio goggiò capanna per i miei bisogni mi seguirono dieci soldati, ed aspettando un tantino, mi obbligarono a ritirarmi; mi si disse che in quel deserto temevano che il Re di Ghera venisse a rapirmi, da ciò ho argomentato che la mia persona senza saper nulla ha dovuto dar luogo a certi sospetti e movimenti politici, i quali devono essere stati causa della mia asportazione. L’indomani la metà della mia scorta se ne ritornò, ed io accompagnato da circa 50. cavalieri ho lasciato il basso del Goggieb, ed ho salito la montagna verso Gemma, ed accampammo in un deserto, dove siamo stati otto giorni facendo della fame e più di tutto molti castelli in aria sulla mia destinazione, perchè si dicevano molte cose. [p. 69 – f. 140r] Seppi poi che il Re di Gemma per timore di inimicarsi col Re di Ghera e di Ennerea si rifiutò di farmi passare in Garo dove avevano consigliato di mandarmi per levarmi ogni comunicazione coi miei Sacerdoti, sperando così di potergli corrompere; diffatti, appena partito io avendo tentate tutte le vie di lusinghe, inutilmente, presero il partito di mandarmi dietro un carico delle mie vesti con un poco di soccorso, ed una finta di pace per calmare l’opinione del paese ed il pianto estremo di tutti i Preti ed altri, quale ambasciata mi arrivò ancora nel deserto suddetto prima di entrare nel paese di Gemma; mi fecero piangere le storie di lusinghe per corrompergli scrittami dal P. Ajlù, e la fortezza dei Preti nel dare la testa prima di voler entrare coi nemici nella menoma trattattiva; non si sentiva dalla loro bocca altra risposta [:] metteteci nelle mani del Vescovo e poi risponderemo. Ricevute queste notizie e soccorsi, in tre giorni abbiamo attraversato /288/ il regno di Gemma, e nel quarto giorno siamo entrati nel regno di Ennerea, ed il 9. 7.bre siamo arrivati in Saka città di Abba Baghibo, dove già mi aspettava il P. Leone, quale al sentire queste storie, non fece che girare presso tutti questi Principi, onde impedire la mia asportazione in paesi opposti, come grazie a Dio è riuscito, e così siamo entrati pacificamente nella nostra casa di Saka-Ennerea. Pochi giorni dopo ci siamo trovati con Abba Baghibo, il quale si mise quasi a piangere quando mi vidde, e prese parte molto attiva per aggiustare le cose con Kafa; Sperava molto sopra questo Principe, ma i giudizii di Dio imperscrutabili lo tolsero di vita due settimane dopo il 24. 7.bre, evento che ci fece temere molto, ma grazie a Dio la successione è stata tranquilla ed il Principe erede pare abbastanza amico ed interessato; ritarderà però tutte le trattative nostre, perchè le sue prime idee sono di consolidare il suo regno. La morte di questo Re fece che anche il P. Leone non potè subito ritornare a suo luogo in Ghera [p. 70 – f. 140v] e potè partire solo il 27. Ottobre; trovandosi egli ora vicino a Kafa potrà fare coraggio ai nostri Preti, i quali dalle ultime lettere sono sempre ancora divisi e custoditi, e ciò che più importa sempre diabolicamente lusingati a tradire; il più giovane di tutti i Preti, prima ancora della mia asportazione, supponendolo il più debole, appunto per questi timori l’aveva mandato in Ghera, e non lasciarono di mandare colà a lusingarlo, promettendogli gran terreni, moglie parente del Re, e come alcuno mi fa supporre, persino di farlo padrone di tutta la mia roba che ancora si trova in Kafa, motivo per cui ho mandato ordine di venir qui e guarderò di mandarlo più lontano che potrò.

Dietro tutto ciò, le cose della Missione sono notabilmente cangiate; non sappiamo ancora come finiranno gli affari di Kafa, se cioè avrà luogo uno sgombro totale, oppure se si farà la pace; è stata una ispirazione di Dio, prima che abbia avuto luogo il mio esilio, ho publicato due Domeniche di seguito la proibizione ai Sacerdoti di non acettare più le vittime nelle chiese, meno che si lascii appieno l’uso di amazzarle e passino in dominio come cosa donata alla Chiesa; come pure ho publicato la proibizione di fare le esequie di nome ai non battezzati, come sopra; se io non faceva questo passo per tempo, non sarei più stato a tempo... Venendo ora a farsi la pace questi due articoli dovranno essere riconosciuti. Il paese di Kafa ha capito abbastanza l’essenziale della missione e ne è rimasta molto edificata, ad eccessione del governo, il quale, vedendo appunto la forza del ministero nostro ha avuto paura di noi... La costanza dei preti attuale confirmerà la massima nel cuore del popolo, perchè prima stentavano ancora a credere, e molti attribuivano la loro continenza al timore di me, e lo dicevano apertamente; ora vedremo cosa sortirà da questa bollitura... [p. 71 – f. 141r] Se avrà luogo un’esilio totale dei Preti da Kafa potremo occuparci di più nei paesi Galla, ma questi più della metà sono dominati dall’islamismo, come la più parte dei paesi dei principi; i Galla sono di carattere migliori, ma sono più tardi; e le viste future della missione restano tagliate per metà, perchè le mie viste più in grande erano per i paesi Sidàma; /289/ vero che Kafa non constituisce tutti i paesi Sidama, ma prima che possiamo avvicinare altri paesi di questa razza per altre vie, vi bisognerà del tempo; anche occorrendo un esilio totale da Kafa, non dobbiamo dire che in avvenire non si potrà avvicinare altra volta, anzi il germe seminato deve produrre qualche cosa, ed anche i cristiani che si trovano colà ci obbligheranno a pensare al modo di custodirgli secretamente nel caso; di tutto ciò nulla possiamo ancora definire, tutto è nelle mani di Dio. Io sarò obligato a fermarmi qui in Ennerea sino a tanto che si risolvano gli affari di Kafa, perchè qui trovo frequenti relazioni; dopo farò un viaggio a Lagamara, e forse sino al Gudrù, ma prima partirà il P. Leone per l’Abissinia, onde conferire coll’Imperatore Teodoro, perchè non tarderà questo principe ad assorbire tutti questi paesi, ed è bene cercare la sua amicizia per tempo, ed il P. Leone, che venendo è passato da lui, è l’unico che lascii sperare di poter far qualche cosa, anche forse per la missione Abissinese.

Oggi 22. Novembre = Le notizie di Kafa sono un tantino migliori: i nostri Preti sono stati posti in libertà, e sono cessate le lusinghe aperte per fargli tradire; nella scorsa settimana [p. 72 – f. 141v] replicati messaggieri del Re di Kafa a questo Re di Ennerea vennero a domandare la pace, portando con loro una parte della roba che ho lasciato colà; questo Re entrò pacificatore e mi obbligò a rallentare un tantino la proibizione fatta ai Preti di non più andare alle loro chiese; questo cangiamento se è reale, deve attribuirsi a due cose nell’ordine delle vicende umane, prescindendo da ciò che Iddio può fare direttamente sul cuore degli uomini. La prima ragione è la costanza dai Preti stata compita per ogni parte: Kafa sperava di potergli corrompere allontanando me, ha veduto tutto l’opposto, ed ha veduto che i Preti ad ogni costo sarebbero fuggiti, e forse con malcontento del publico... La seconda cosa è stata la paura, perchè la collera di Dio si è spiegata subito, mentre la persona che in gran parte aveva organizzato l’affare, essendo stata destinata alla custodia della mia casa e roba (lui anelava di ereditarla come padre della moglie del fu P. Cesare e custode dei ragazzi eredi) dopo due settimane fu colpito e morì, domandando però perdono, e confessando la sua malizia, e ricevendo il vero battesimo; così alcuni altri fatti simili che il Signore si degnò di fare. Ciò posto, pare che la cosa cammini verso la pace, e che non avrà luogo lo sgombro dei Preti; l’esito totale lo scriverò forse l’anno venturo se sarò in vita, perchè ora si avvicina l’epoca di spedire il corriere –

Mentre io stava per compire queste mie relazioni in Limu, e spedirle, una nuova crisi succeduta me lo impedì, e mi presta materia a continuare; la mattina della Domenica 1. di Avvento, cioè il 30. Novembre, essendomi di buon mattino recato dal Re per complimentarlo della morte di una sua moglie accaduta un giorno prima, secondo l’uso di questi paesi, i mussulmani, i quali [p. 73 – f. 142r] da molto tempo cercavano di farci caciare da questo paese sotto il Re precedente, benché inutilmente perchè era una testa superiore, circondarono questo nuovo Re e gli fecero credere che /290/ io mi sono recato di notte (mi era recato di buon mattino per poter ritornare a casa a celebrare la Messa parrochiale) per fare delle magie contro il Re, il fatto si è che fui chiamato e fui esaminato in proposito, fu posto alla tortura un mio Sacerdote indigeno onde fargli confessare la cosa, e la finitiva fu, che di quel giorno io dovessi lasciare il paese con tutti i miei; furono subito mandati uffiziali a contare la roba, e dopo molte violenze e rubarizii, verso sera siamo partiti, e nella notte furono incredibili le violenze sofferte, proibito persino di entrare nelle case; l’indomani trovandomi sui confini, e credendo di sortire da quel paese infame, un ordine del Re che si fingeva pentito mi obbligò a ritornare indietro, ma viddi poi che in realtà non fu altro se non che per poterci rubare quel poco che vi era; diffatti volle vedere coi suoi occhj stessi tutti i vasi sacri, toccargli colle mani, ed anche ridersene a suo piacimento, e servirsi degli oggetti che gli piaquero; è vero che mi fece qualche bugiarda istanza di fermarmi, ma io ho creduto bene di non aderire, e di spingere l’affare della mia partenza, [p. 74 – f. 142v] perchè il paese di Limu o Ennerea, si presta poco per il ministero, ed il nuovo governo non era ancora abbastanza consolidato per metterci al riparo di inconvenienti maggiori che ci avrebbero immancabilmente procurati i mussulmani trionfanti sopra di noi, e senza freno. Il giorno 11. Decembre lasciai più onoratamente la casa di Limu e quel paese infido; il giorno 13. sono entrato in Nonno, dove ho trovato i nostri Cristiani molto irritati per l’affare accadutomi in Limu, avrebbero voluto trattenermi, ma trovandomi molto stanco da tutte queste crisi, mi sono fermato solo otto giorni fra loro per riposarmi e per battezzare qualche ragazzo, nonché per organizzare coi medesimi i bisogni futuri del ministero; quindi sono partito per Lagamara, dove io teneva il mio sepolcro preparato da tre anni, e dove questi buoni paesani mi ricevettero con trasporto venendomi all’incontro; qui appena arrivato ho incontrato una malattia, da cui non sono ancora libero attualmente, pendente la quale ho ricevuto un corriere dalla costa contenente parecchie lettere dell’Em. V. R.ma, le quali mi obbligheranno ad aggiungere un quarto quinterno di risposta, se pure le forze mie sempre diminuenti me lo permetteranno.

† Fr. G. Massaja V.o I.