Massaja
Lettere

Vol. 3

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Ai membri del consiglio centrale
della Propagazione della fede – Lione

P. 7Signori,

[Lione, ottobre 1864]

M’affretto di appagare il desiderio, che mi manifestaste per lettera del 26 settembre, col darvi i ragguagli che bramate avere.

/158/ Quello, che chiamano paese dei Galla, non è altro se non il prolungamento meridionale della collina dell’Abissinia, od anzi la parte meridionale della vasta e magnifica contrada, dai geografi conosciuta sotto il nome di Spianata etiope. Quella porzione di cui, sono circa tre secoli, i Galla s’impadronirono, dal norte al sud si stende dal 10° al 6° grado di latitudine [p. 8] settentrionale; s’eglino occupano ancora altre terre verso l’equatore, que’ paesi sono fino ad ora sconosciuti appieno. I limiti del paese dei Galla verso il sud sono dunque più o meno incerti. Si può nulladimeno affermare, che da questa parte il corso del Barro, che è il più gran confluente del Nilo bianco, è come frontiera. La parte sud-est della Spianata, su cui siede il regno di Kaffa, stendesi, per quanto appare, fino alle sorgenti del Nilo bianco. Verso gli altri punti cardinali, i limiti del nostro vicariato apostolico sono ottimamente determinati. I Galla hanno, al norte, il Godjam, ed all’est, il Soa: sono le due provincie più meridionali dell’impero d’Abissinia. A ponente, i vicini loro sono i Taujalla, razza camita, che si stende essa pure fino al Fazoglu, ultimo paese che, verso il sud, è posseduto dall’Egitto.

Sarebbe inutile, dopo tanti altri, parlare della bellezza e della ricchezza di questo magnifico paese. Non vi è luogo più svariato e ad un tempo più fertile di questa Spianata etiope: diremo solamente, che questo luogo sì fertile è in un medesimo coltivato benissimo, specialmente in tutta l’ampiezza del nostro vicariato. Le piogge, che fecondano questo paese, e cadono regolarmente dal mese di marzo al mese di ottobre, recano anche più lungi i beneficj loro. Infatti esse ingrossano il Nilo e producono nell’Egitto il periodico traboccamento del fiume-re, che diventa così la vita e la ricchezza di questa celebre terra. Il clima della nostra missione è forse unico al mondo: non varia quasi mai se non tra il 18° e 22° grado Réaumur.

La Spianata etiope nutrisce oggi un popolo di [p. 9] forse dodici milioni di persone. Non credo esagerare dicendo, che, se i calcoli dei viaggiatori europei, i quali fanno salire a tre milioni la popolazione dell’Abissinia, sono esatti; i Galla ed i Sidama debbono insieme formare un totale di nove milioni d’anime. Questi tre popoli, gli Abissiniani, i Galla ed i Sidama occupano, andando dal norte al sud, tutta questa contrada. Quindi sc. Quindici Quindi anni di dimora fra essi ci fanno credere, che tutti e tre non siano aborigeni, ma discendano dalle razze venute dall’Egitto, dall’Arabia ed anche dalla Siria. Il tempo ed i motivi della loro emigrazione verso i paesi primitivamente occupati dalla cattiva razza di Cam, potranno essere determinati un giorno. Ci sarebbe fin da ora agevole di valerci a questo proposito di conjetture, che ci sembrano molto plausibili, se i limiti posti ad una lettera ce lo permettessero. Le diverse lingue parlate da questi popoli non hanno quasi un punto di contatto fra loro, se si considerino dal lato della rassomiglianza e della derivazione delle parole. Nulladimeno il sistema grammaticale è il medesimo per tutte, ed in ciò si ricongiungono incontestabilmente alla grande famiglia delle lingue semitiche.

A quanto risguarda il morale e l’intellettuale, questi diversi po- /159/ poli si rassomigliano non poco. La corruzione de’ costumi abissiniani è nota; ed in ciò i Sidama, ovvero abitatori di Kafa, superano di gran lunga gli Abissiniani; i Galla sono alquanto meno corrotti degli altri due popoli. Tal corruzione di costumi è il maggior vizio di queste razze, e per conseguente il nemico più tremendo, che il cristianesimo incontri in queste contrade. Del rimanente, siccome quasi tutte le razze agricole, queste sono mansuete, bene- [p. 10] vole ed ospitali durante la pace, e si mostrano coraggiose sino all’audacia durante le guerre, sgraziatamente frequentissime, che disolano queste contrade. A queste qualità aggiungi gran destrezza di mano non meno che un ingegno, il quale, mentre non si discosta moltissimo dall’ingegno europeo, ha forse un non so che di più acuto, ed una grande facilità d’imparare le lingue; ed avrai un’idea esatta dell’intelligenza e del cuore degli abitanti dell’alta Etiopia.

Tutta la Spianata è, come abbiamo già detto, stata da principio occupata dalla razza di Cam. La prima emigrazione semitica, che si perde nell’oscurità de’ tempi, vi gettò i fondamenti dell’imperio d’Etiopia, sì celebre fin dalla più remota antichità. Tutto quanto il Nilo, dalla sua sempre nascosta sorgente sino alle sue sette imboccature, obbedisce talvolta ai sovrani dell’Etiopia: in tutti i tempi almeno la Spianata etiope tutta quanta rimase loro. Da prima l’Egitto, e poscia i grandi imperi orientali procacciarono d’impadronirsene; ma fin dal principio dell’era cristiana, quello che potuto non aveva la potenza dei sovrani dell’Egitto, uomini senza rinomanza, ma pieni dello spirito di Dio, il poterono: alcuni apostoli, partiti dall’Egitto, questo bel regno conquistarono a Gesù Cristo. Ma, oimè! dall’Egitto pure gli vennero, tempo dopo, apostoli di menzogna e di errore! ed oggi pure gliene fornisce altri, che lo mantengono nello scisma e nell’eresìa. Più fortunata di lui, l’Abissinia ha serbato la sua integrità nazionale: Dio volle conservare questo impero cristiano ancora, benché imperfettamente, ed opporlo, qual baluardo insuperabile, in faccia pur della Mecca, a tutte le forze dell’ [p. 11] islamismo. Noi portiamo ferma opinione, che la conservazione del cristianesimo nell’Abissinia sia cagione del non veder tutta l’Africa seguire lo stendardo del falso profeta. Dio, io credo, ha questa contrada conservata intatta fino al giorno, in cui un avversario più potente, il cristianesimo compiuto, potesse in questo paese medesimo porsi in faccia della propaganda araba.

Nel secolo XVI, qualche tempo dopo che Vasco di Gama ebbe aperto ai missionarj cattolici la via dell’Oriente, una nuova emigrazione d’Arabi sulla costa orientale dell’Africa ebbe per risultamento di rigettare i Galla, da levante a ponente, verso la Spianata etiope: ne conquistarono, essi pagani, tutto il centro, di guisa che questo grande impero, sino allora cristiano, si trovò isolatamente diviso in due tronchi, l’Abissinia al norte, di cui non dobbiamo parlare, ed il Kafa al sud dei Galla; se non che quest’ultimo paese non avendo più fin da questo punto verun contatto, veruna comunicazione con altri paesi cristiani, perde a poco a poco tutto quanto aveva di cristianesimo avuto da principio. Il nostro vicariato apostolico comprende /160/ anche il Kafa, ovvero paese dei Sidama, ed il paese dei Galla propriamente detto.

Sarebbe errore l’immaginarsi questi paesi come un solo regno di piccoli Stati, gli uni indipendenti dagli altri, con forme differentissime di governo. Il Kafa forma da se solo un regno, ed è il maggiore: vengono poscia, per ordine di grandezza, il Djemmakaka, il Guma, il Guera, il [p. 12] Goma ed il Nerea: tutti regni, i cui capi, salvo quello del Kafa, hanno già abbracciato l’islamismo. Quantunque i popoli riguardino ancora una ripugnanza questa religione, il fatto, che noi acceniamo, rinchiude uno de’ più grandi pericoli per l’avvenire cristiano dell’Africa centrale. Dopo questi regni vengono moltissimi principati di minor pondo, fra i quali non citeremo se non quello di Djinjiro. Gli abitatori di questo paese sono i più crudeli della Spianata, anzi i soli che siano veramente crudeli: i sacrificii umani sono ancora in onore fra essi, e, al tempo dell’intronizzazione d’un nuovo principe, avviene ivi, sebbene in grado inferiore, qualche cosa di simile all’orribile festa delle usanze dei Daomei, di che i missionarj dell’Africa occidentale vi hanno parlato. Accanto a questi piccoli regni vi sono anche forse quindici piccole repubbliche; le più ragguardevoli delle quali son quelle del Gudrou e del Djemmalagamara. Poi, repubbliche o regni, i costumi (in questi paesi non trovansi leggi scritte) sono presso a poco i medesimi nei vari Stati. Appo costoro, come appo noi, la proprietà è base dell’ordine sociale, e dobbiamo aggiungere, con nostro rossore, che è più rispettata in essi che in noi.

La religione del paese alle nostre cure affidato, è, sino al presente, il paganesimo più grossolano: vale a dire il fetticismo, che è qua, non altrimenti che in qualunque luogo regnò, circondato da mille pratiche superstiziose, o da lagrimevoli realtà della magìa. Abbiamo non pertanto veduto fare un passo verso l’islamismo, ma solamente dai principi. Gli abitanti del Kafa o Sidama si dicono cristiani, ancorché ignorino pure sino il nome di Gesù Cristo. Non conoscono al- [p. 13] cuno de’ nostri santi misteri né de’ nostri Sacramenti. Il nome di S. Giorgio, di cui fanno più che un iddio, di S. Michele e di S. Gabriele compongono tutto il cristianesimo loro. I Galla, che nulla pretensione hanno al cristianesimo, ne sanno però un po’ più, dacché conoscono, almeno di nome, la Santissima Vergine Maria e la Croce.

Il vicariato apostolico dei Galla e Sidama è fondazione per anche recente. La Santa Sede l’instituì nel 1846, e v’inviò noi, il primo, con alcuni compagni, due de’ quali morirono molto giovani ancora. Impiegammo cinque anni a cercare un passaggio, che ci permise d’arrivare al punto della vigna, che la divina Maestà affidava alle nostre fatiche. Quel tempo di titubanze non fu per altro interamente perduto: i missionarj, destinati al paese dei Galla, fondarono frattanto le missioni di Aden e delle isole Secelle, sino ad ora affidate a Religiosi dell’Ordine loro. Operarono prima da se e destarono poscia nella mente di Monsignor vescovo di S. Dionigi (isola Bourbon) il pensiero di rivolgersi ad un terzo punto, divenuto una /161/ missione di buona speranza nell’avvenire: parlo dell’isola di Zanzibar. Dopo questo primo periodo di prove, potemmo giungere, nel 1851, al nostro vicariato apostolico; ma solamente per ricominciar sotto un solo capo, od anche come una confederazione di parecchi piccoli Stati: contengono per lo contrario moltitudine quasi infinita a combattere contro molte nuove difficoltà, per imparare la lingua, che noi siamo i primi a studiare, per conoscere i luoghi, il carattere degli abitanti, stabilire i missionarj, e simili. Fin dal 1855, tempo in cui s’è potuto cominciare l’evangelizzazione di queste contrade, le prove non cessarono mai, né mancarono le persecuzioni: frattanto, grazie al cielo, la Chiesa è stata piantata, ed ha già cominciato a dare alcuni dolci frutti al Signore.

P. 14 Rimangono di presente nella missione due Europei, Mons. Cocino, vescovo di Marocco, mio coadiutore, ed il R. P. Leone degli Avanchers; sono nel loro lavoro ajutati da sei sacerdoti paesani, i quali non hanno cessato mai di mostrarsi degni della mia stima e della mia fiducia. Oltre i sacerdoti, la missione possiede ancora due soddiaconi, due giovani chierici, e quattro catechisi. Questo clero trovasi diviso fra le quattro stazioni del Kafa, del Guera, del Gammara e del Barro. Due altre Chiese, fondate da noi, hanno dovuto essere abbandonate: quella di Gudrou, per effetto della mancanza del clero paesano, e quella del Nerea, per le crudeli persecuzioni, che la Providenza fece a noi incontrare.

Ora non mi rimane che a darvi un breve cenno del bene, che si è fatto in mezzo a’ nostri patimenti e travagli.

Nel Gudrou io aveva battezzato un centinajo di adulti; ma sono stato costretto d’abbandonare questo paese troppo vicino all’Abissinia, per causa delle persecuzioni, ond’io era oggetto per parte del governo abissiniano. Io non aveva verun sacerdote paesano, che entrasse in mia vece, e quindi gran parte di questa povera greggia si scoraggiò; ma vi rimane pure oggidì certa quantità di cristiani sempre fedeli.

Nella Gammara abbiamo più di cento famiglie cattoliche. Tutti i cristiani frequentano regolarmente la chiesa della stazione; ma un centinajo di persone soltanto ricevono regolarmente i sacramenti; gli altri non vogliono riceverli che in articolo di morte. Vi è innoltre una dozzina di cattolici del Nuno, che non [p. 15] avendo chiesa presso di loro, vengono di tempo in tempo alla Gammara per ricevere le consolazioni della religione.

Abbiamo nel Nerea cinquanta famiglie, al meno, di cattolici ferventissimi; ma la persecuzione ci ha pure cacciati da questa contrada. Alcuni fra’ nostri neofiti vengono ad accostarsi ai Sacramenti nella stazione di Guera; gli altri si sono perduti d’animo.

Fin da 1859 abbiamo nel Guera più di duecento cinquanta cattolici, e questo numero si è sempre ogni anno accresciuto un poco. Ebbi la contentezza di vedere in questa stazione più di ottanta comunicanti il santo giorno di Pasqua. Questa parte del nostro picciol campo evangelico è commessa alle cure del P. Leone.

/162/ Più di quattrocento adulti erano stati battezzati nel Kafa, e molti tra questi frequentavano regolarmente i Sacramenti, allorché la persecuzione ci respinse ancora lontano da questa Chiesa. Non è per altro abbandonata del tutto: un sacerdote paesano, esercitante quasi liberamente il ministero suo, sta presso i cristiani del Kafa.

Io aveva inviato nel Barro un altro sacerdote del paese, il quale vi battezzò parecchi fanciulli, e, alla mia partenza vi aveva innoltre cento cinquanta catecumeni adulti; le cui disposizioni sembravano sì buone, ch’io gli permisi di dar loro il battesimo.

Aggiungete, a quanto ho detto, i fanciulli infedeli battezzati in articolo di morte (i pagani ci lasciano in ciò perfettamente liberi), ed avrete un’idea, [p. 16] ristretta ma vera, del bene, che la divina Providenza ha permesso di fare sino ad oggi.

Abbiamo grandi speranze per l’avvenire. Il Galla difficilmente si decide; ma deciso una volta, rimane saldamente congiunto alla sua fede: è molto meno volubile dell’abitatore del Kafa, e specialmente dell’Abissiniano. Quest’ultimo popolo ci fornisce, per mezzo dell’emigrazione, gran quantità d’uomini, i quali è sommamente agevole convertire, ma i quali un minimo urto basta ad abbattere. I Galla ci daranno, cred’io, uomini fedeli, cristiani saldissimi nella fede e capaci di grandi virtù, se giudicar se ne dee dai sacerdoti paesani, nostri cooperatori in Gesù Cristo. Troveremo innoltre grand’elemento di buoni successi in una delle piaghe che rodono questo paese, voglio dire nella schiavitù stessa. Finché la luce evangelica tarderà a spegnere colà pure questo barbaro costume, il basso prezzo, a che è posta la vendita degli schiavi, ci permetterà di liberarne un gran numero, e di, mercè del bene che faremo loro, attirarli a Gesù Cristo. A questo fine, se ci sarà concesso di fondare, quando che sia, uno stabilimento; non v’ha dubbio, che per tal modo non si ottenga un risultamento superbo.

Se non che tutte le nostre speranze debbono vincere un grande ostacolo. La diffidenza dell’Abissinia, rispetto a tutto ciò che è europeo, ne chiude di nuovo, e da lungo tempo, la sola porta, che possa farci giungere alla nostra Missione; e mentre siamo, coi missionarj europei che ci debbono accompagnare, tenuti lontano dal campo, che il Signore ci affidò; l’islamismo ha altri cammini, che a noi chiude, per giun- [p. 17] gere sino ai Galla, e cercare di rendere la conversione loro per lungo tempo impossibile.

Preghiamo, Signori, preghiamo il sommo e misericordioso Iddio, perché degni rimuovere quest’ostacolo da coloro, che agognano di evangelizzare la pace. Per giungere a questo fine, da cui dipende l’avvenire della missione, io sono in Francia. Piaccia al Signore porgerci ajuto, e permetterci almeno di fortificare per Gesù Cristo questo posto: di tanta importanza agli occhi nostri, che dalla sua conservazione dipenderà il trionfo del cristianesimo in tutta l’Africa centrale.

Ho accennato più avanti, che le nostre fatiche apostoliche erano più volte state interrotte dalla persecuzione; però voi udirete forse con attento animo un breve racconto di quella che da noi si so- /163/ stenne nel 1859; e vi sarà anche di ajuto a meglio comprendere tutto ciò che vi ho ora narrato.

Il regno del Kafa, in gran parte popolato dai discendenti degli antichi cattolici abissiniani, cui l’invasione dei Galla nel secolo XVI. respinse dall’altra parte del Gudjeb (Il Gudjeb, che dal lato del sud limitava altre volte l’impero abissiniano, ha la sua sorgente al ponente del Kafa; scorre quindi in mezzo cerchio dal ponente al settentrione, poi al levante di quel regno, e va a gettarsi nell’Oceano indiano dalla parte di Zanguebar); voleva da qualche tempo tirarci a se. Varie cagioni avevano fatto nascere tal desiderio; primamente la grazia di Dio, che alquanti cuori aveva tocco; indi, per moltissimi, la presenza d’un abuna, [p. 18] ossia vescovo (erasi serbata alcuna memoria della sua gerarchica dignità), prometteva meraviglie magiche e malìe, in copia molto maggiore di quella che produr non poteva il sacerdote abissiniano, il quale di tempo in tempo facevasi a visitare e tosare, sino alla pelle, quel povero popolo superstizioso. Mentre il governo del paese nutriva parte di queste idee vulgari, sperava ancora, chiamando me, pervenire ad un altro scopo, di consolidare cioè ed ingrandire la sua dominazione, particolarmente sopra gli Amara, che sono discendenti degli altri cristiani ritirati nel Kafa fin dall’invasione dei Galla.

Agli occhi del re del Kafa, ugualmente che di molti altri ciechi, la religione non è una figlia del cielo venuta sopra la terra per consolare, fortificare, incoraggiare e rilevare soprannaturalmente l’uomo: altro non è che un ordigno di governo, una specie di polizia mite, ed anche, ove abbisogni, un complice di tirannia. Io non poteva illudermi su ciò; ma dall’altro canto aveva fondate speranze di ottenere un ben diverso successo: la salute dell’anime mediante l’unione loro con Gesù Cristo. Importavami sopra tutto di ottenere la libertà d’uscire del regno, se io stimassi ciò necessario, e quando mi piacerebbe. Occorsero tre anni per formare questo accordo, e levar via una delle maggiori difficoltà nell’evangelizzazione di questo paese; perché entrati una volta in un regno, per quante angherie ci usino, per quanti patimenti ci facciano sopportare, noi non possiamo andarcene: segnatamente se il re ci ami.

Partii pel Kafa sul cominciare del 1859 con tre sacerdoti paesani, i PP. Giovanni, Giacomo e Mi- [p. 19] chele; e pigliammo con noi quasi tutto il mobile della missione.

Ci fecero splendidissima, anzi regia accoglienza. Il re ci colmò di donativi, e mi fece anche l’onore di darmi una guardia di cinquanta cavalieri, che m’accompagnavano da per tutto. Nel fondo di quest’onore stava una precauzione contro la libertà: io me n’accorgeva, ma non era padrone di liberarmene. Fabbricare un’umile chiesa ed una povera casa pei missionarj, fu cosa di breve tempo: indi incominciammo l’apostolato nostro. La cognizione, ch’io aveva del carattere dei Sidama, mi fece seguire questo piano: noi non combattevamo direttamente le superstizioni, troppo radicate nel paese; ma ci contentavamo di respingere forte qualunque dimanda tendente a farvici partecipare, eziandio in qualsivoglia minima cosa: /164/ indi, invece di correr dietro alle pecorelle smarrite, noi rimanevamo per lo più nella nostra chiesa, traendo a noi il popolo con l’ajuto delle pompe della liturgia cattolica, alle quali cercavamo di dare la maggior magnificenza possibile: cantavasi tutto quanto l’uffizio divino ogni dì, ed il canto gregoriano non interrompevasi quasi mai, se non per dar luogo ad istruzioni in cui, senz’entrare in veruna disputa, ci sforzavamo di esporre, con quanta maggior chiarezza sapevamo, la dottrina della santa Chiesa cattolica, del pari che la spiegazione de’ suoi Sacramenti e della sua ammirabile liturgia. Il popolo ci si affezionò tosto; ed il movimento, che aspettavami verso la religione, cominciossi a produrre: con tanta celerità, che avresti detto, tutto il regno doversi in breve tempo fare cristiano. Quel movimento e l’affezione del popolo sì prontamente acquistata, spaven- [p. 20] tarono il sovrano del paese. Egli vedevasi già ben lontano dal suo scopo: invece di essere re più possente per mezzo della religione, credevasi cacciato dal solio; perchè cominciavasi nel paese a conoscere un Re più grande di lui, il Dio che ha creato il cielo e la terra. Pensò dunque, essere necessario un sforzo, per far rivolgere verso di se e del suo governo quel movimento delle anime, che andava verso Dio. Quantunque barbaro, aveva idee, che non rinnegherebbe l’abilità di sovrani e di certe sette irreligiose dell’incivilita Europa: agli occhi suoi, la nostra indipendenza dal potere temporale risiedeva tutta quanta sul celibato ecclesiastico e sopra la sublime virtù, di cui è l’espressione sensibile; ed il mezzo migliore di renderci quali ei voleva, era di maritarci, quando pure dovessimo per ciò entrare nella sua stessa famiglia. È agevole immaginare, in qual modo una siffatta proposta si ricevesse da noi; ma fin da questo punto la nostra perdita fu decisa.

Si cominciò dal farci nuovi e sempre più premurosi inviti di partecipare alle pratiche superstiziose del paese; ed avendo noi espressamente ricusato, si rivolsero ai neofiti nostri, stimolandoli in guisa, ch’io fui costretto di proibir loro d’entrare nelle tre o quattro chiese, che dicevansi cristiane, ove sacerdoti fattucchieri commettevano sacrilegi. Quest’energica azione colmò la misura. La sera del 24 agosto mi fu chieso un prete per benedire un malato della corte: l’inviai, ma non fece ritorno. La mattina seguente vennero a chiedermene un altro, e, sebbene fossi già in sospetto intorno la sorte del primo, aggiustarono le cose per modo, ch’io non potei ricusare. Giunto, che questi fu alla corte, si vide arrestato, [p. 21] condotto in carcere ed incatenato nel medesimo tempo dell’altro, da me spedito la sera avanti, e contro cui non avevano usato altra violenza, se non d’impedirgli di far ritorno a me. Io ignorava tutte queste cose, e stavamene mesto e agitato nella nostra stanza col P. Michele, il solo sacerdote che rimanevami, quando, poco prima di mezzodì, una truppa di trecento cavalieri si presentò alla nostra casa. Pigliare il P. Michele ed incatenarlo nella nostra missione già divenuta un carcere, fu un punto solo. Per me, senza lasciarmi campo di prendere cosa alcuna, né di visitare ancora una volta quella chiesa, ove co’ miei sacerdoti io aveva tanto pregato per la salute di quel povero /165/ popolo, mi fu intimato di salire immantinente sopra un mulo, che avevanmi preparato, e di seguire quella truppa. Io non sapeva se fossero soldati o carnefici. Qualunque rimostranza, qualunque protesta fu inutile: bisognò cedere alla forza ed obbedire.

Io era accoratissimo in vedere tante speranze, sì belle e sì legittimamente concepite, abbattute ad un tratto! ed i sacerdoti, abbandonati fra lupi ed esposti alla morte, o peggio! Non solamente sembrava perduta la missione del Kafa, ma anche tutto ciò che avevamo fondato negli altri regni dei Galla; conciossiachè io non sapeva qual sarebbe la sorte mia. Io ignorava, se i nostri sacerdoti sarebbero strozzati. Tutto il mobile della missione, tutto il nostro avere restava in mano de’ nostri persecutori: due missionari soltanto, l’uno europeo e l’altro del paese, ch’io lasciati aveva in altre stazioni fuori del Kafa, rimanevano liberi, ma spogli, fra pochi dì, delle cose più-necessarie... Io sentiva poi dolori fisici alquanto forti: non però a segno da superar quelli onde il mio cuore [p. 22] era oppresso. Io fui preso, mentre stava ancora a digiuno, e forzato di salire sopra un mulo. Benché non avessi alcun uso di cavalcare, il viaggio, che cominciammo prima di mezzodì, non finì che la mattina del giorno seguente, cioè quando fummo giunti alle frontiere del regno; e il suolo era così stemperato dalle piogge, che ad ogni istante le nostre bestie si ficcavano nel fango. Una sola consolazione, dopo la mia fiducia in Dio, mi rimase durante quel faticoso cammino, e fu la secreta compassione che mostravanmi gli stessi miei manigoldi, e le lacrime, che pure spargevano di nascosto, meno per la mia disgrazia che per la sciagura d’un paese, il quale aveva testé veduto il dolce lume levarsi dall’alto sopra di esso, e poco dopo sparire.

Temendo il re, che quel sentimento di compassione scoppiasse troppo vivamente nel popolo, aveva avuto cura di spargere accortamente mille calunnie contro di me; ed innoltre, a meglio trarre altrui in inganno, fece di continuo portare da un uomo, che mi camminava innanzi, un cane morto, per dare ad intendere, ch’io era colpevole d’aver voluto mettere la peste nel paese. Nulladimeno, ad onta del suo machiavellismo infernale, egli medesimo (tanto la superstizione era abbarbicata nel cuor suo) temeva gli effetti del suo delitto. Faceva anche venire dietro me un fattucchiere, il quale di quando in quando immolava pecore, per placare l’ira, che i trattamenti che mi facevano patire, dovevano destare nel mio spirito protettore. Il testimonio dell’uomo dalle pecore annullava così il testimonio dell’uomo dal cane morto. Il re fece pur fare cerimonie a queste somiglianti, ma più solenni, nella casa, che noi avevamo abitata.

P. 23 Il giorno dopo la nostra partenza, allorché stimarono opportuno di farmi prendere qualche cosa, ebbi un barlume di speranza. Eravamo sulla via che conduce al Guera, picciolo regno, il cui sovrano è amico nostro; ed immaginavami, che mi conducessero da lui. Non tardai ad esserne disingannato; perchè invece di condurmi verso Guera, si diedero a farmi seguire il corso del Gudjeb, senza dirmi, ove mi volessero menare. Per altro io me n’avvidi tosto. /166/ Il re del Kafa voleva farmi morire, ma senza imbrattarsi direttamente le mani nel mio sangue: però inviavami nella provincia di Djinjiro, persuasissimo, che i crudeli abitanti di quel paese saprebbero mandare ad effetto le sue intenzioni. Il pensiero del mio proprio pericolo non mi turbava molto: non aveva né anche tempo di meditarvi sopra, dacché i miei manigoldi non rifinivano mai di affermare, che i sacerdoti da me lasciati nel Kafa s’erano lasciati vincere dalle tante seduzioni che loro furono fatte. Questa menzogna m’immerse in profondo dolore: se almeno gli avessero scannati, diceva io: il sangue dei martiri avrebbe ingrandito quella povera Chiesa... ma l’apostasia! e l’apostasia nel fango! O Dio!... se non che quel Dio, ch’io chiamava in ajuto, vegliava sull’opera sua.

Dopo alcuni giorni di cammino, entrammo nel deserto di Djemmakaka; bisognò ivi fermarsi. La mia scorta non poteva proseguire il suo viaggio verso Djinjiro senza il permesso del sovrano, sulle cui terre eravamo. I capi della scorta entrarono dunque in conferenza con esso, sperando di piegarlo al consiglio del re di Kafa. Ma il sovrano di Djemmakaka essendo di buona indole, cominciò dal dichiarare, che [p. 24] niuno avrebbe dovuto aspettarsi, ch’egli fosse mai per partecipare all’infamia, che gli veniva proposta; che sapeva benissimo, con quale intendimento si voleva mandarmi nella provincia di Djinjiro, e qual sarebbe la fine d’un esilio in tal paese: per conseguente, tutto ciò che da lui si poteva attendere, era ch’egli concedesse il passaggio, affinchè mi riconducessero al paese, donde io era venuto, cioè al Nerea. Gli ambasciadori del Kafa cercarono indarno, per dieci giorni continui, di rimuoverlo dal suo proponimento. Nel quale, mentre il re di Djemmakaka si teneva saldissimo, giunsero inviati del re di Guera, a cui era pervenuto all’orecchio ciò che accadeva, per raffermarlo nel suo consiglio. Convenne dunque fare a suo modo.

Nel tempo di questa fermata nel deserto di Djemmakaka, il Signore degnò consolarmi e rinvigorire l’animo mio. Il re di Kafa mi fece da un corriere portare un poco di biancheria, di danaro ed altre cose necessarie, prese, già s’intende, nella missione; e in un medesimo ricevetti l’avviso, che dopo una visita domiciliaria molto sgarbata, e dopo minutissime perquisizioni non essendosi trovato nulla che destasse sospetti contro di me; gli agenti del re avevano rispettato tutto ciò che ci apparteneva.

Ma questo era quasi niente in paragone delle buone novelle, che mi fecero secretamente pervenire i miei sacerdoti. Mi assicuravano, che erano rimasti e volevano inviolabilmente sino alla morte rimaner fedeli a Gesù Cristo Nostro Signore. E questo è il luogo di render loro in faccia del mondo intero, se fia possibile, la gloriosa testimonianza che meritano [p. 25] degni ministri dell’Agnello divino → Cantico 2, 16 qui pascitur inter lilia. Due di questi sacerdoti, i PP. Giacomo e Giovanni, erano stati, come fu detto, incarcerati nel palazzo del re, ed il terzo, il P. Michele, incatenato nella missione medesima. Il re, ignorando la forza della grazia di Dio ed attribuendo le virtù di quei sacerdoti alla potenza magica, di cui mi supponeva munito, /167/ sperava che, nella mia assenza, egli ne verrebbe a capo; credeva che, dacché io più non ci fossi, dacché essi non ricevessero più di mie lettere (e con un poco di tale intenzione mandavami in paese, donde non potessi più scrivere), tutta la loro virtù cadrebbe da se medesima. Ma Dio gli ha fatto toccare con mano, che d’altro che di se solo non ha bisogno per fare dell’uomo più debole il più valoroso degli eroi: sì, degli eroi, perchè di veri eroi, ammirati dagli angeli stessi, io parlo.

Dopo due mesi e venti giorni di combattimenti e di trionfi, i due sacerdoti rinchiusi nel palazzo del re potettero finalmente fuggirsene. Furono, è vero, presi di nuovo e ricondotti davanti al re; ma questo principe scorgendo, quanto il suo popolo fosse sdegnato di tale persecuzione; e dall’altra parte disperando di mai più vincerli, me li rimandò, loro raccomandando di dirmi, che molto desiderava vivere in pace con me. Questo tiranno non poteva persuadersi, ch’io non avessi il potere di, anche lontano, vendicarmi di lui. Quanto al P. Michele, il quale aveva sostenuto i medesimi patimenti col medesimo successo nella nostra antica casa, mutata in carcere, fu liberato, ma a condizione, che non potesse abbandonare il paese. Essendomi impossibile di farnelo uscire a dispetto del re, gl’inviai dal canto mio la permissione di rimanervi, sperando, che il zelo suo saprebbe conservare il [p. 26] bene già fatto, e preparare alla Fede, per tempi migliori, più stupende vittorie.

Per me, fui condotto nel Nerea, ove avevamo allora una Chiesa, affidata alle cure d’un sacerdote paesano, chiamato F. Matteo. Il vecchio re, il quale governava quel paese, eraci affezionatissimo, e, ancorché non volesse per se stesso il cristianesimo, lasciavaci liberi di annunziare la parola di Dio a’ suoi sudditi. Contuttociò io non era, ad onta delle apparenze, al termine degli affanni, che la divina Providenza serbavami in quell’anno. Un mese dopo il mio arrivo al Nerea, il vecchio re morì; ed il figlio, che gli successe, era non solamente musulmano, ma anche circondato da musulmani, che niun’altra cosa paventavano maggiormente, quanto di vedere l’influenza presso del principe passare dalle loro mani alle nostre. Non era calunnia al mondo, che non adoperassero per perderci; ma insistevano specialmente su questo punto, che la Missione nostra era un deposito d’armi da fuoco, di cui un giorno ci serviremmo per diventar padroni del paese. Tanto non bisognava, perchè ricevessi ordine una sera di lasciare immantinente il regno, e mettermi subito in cammino, senza prendere nulla con me, quand’anche occorresse (il che avvenne) di passare la notte nel fango. Obbedii. Giunto alle porte del regno (questi piccoli regni sono circondati d’un fosso ed hanno porte, vere porte, come una cittadella), un corriere del re ci raggiunse, e ci comandò di tornare indietro. Era un ritorno alla benevolenza, di che io fui debitore alle preghiere della regina madre. Trovammo la nostra Missione e la nostra chiesa in uno stato compassionevole: sotto pretesto di cercare le armi, che noi erava- [p. 27] mo accusati tener nascoste in casa, i musulmani, dato libero corso al fanatismo loro, avevano rovesciato e distrutto ogni cosa. Procacciammo di rista- /168/ bilire un poco d’ordine; ma fu per brevissimo tempo: le ingiurie, i soprusi d’ogni maniera si succedevano senza posa; ed ebbi anche il dolore di veder il P. Matteo sottoposto, più di un’ora, ad aspra tortura. Tutto si terminò in un secondo esilio...

I consigli di Dio sono impenetrabili. I cristiani del Nerea, meno felici di quelli del Kafa, non hanno potuto ritenere con essi un sacerdote paesano: però i più si sono perduti d’animo. Dio ha nondimeno saputo conservarne alquanti, i quali, ingranditi coi patimenti, sono forse destinati a divenire il nucleo d’una fiorente cristianità. Questa, o Signori, è la narrazione compendiosa d’una parte de’ nostri dolori; e basterà, cred’io, a farvi vedere, che, allorché io caldamente raccomando la nostra missione alle vostre orazioni ed a quelle dei Soci della Propagazione della Fede, non faccio altro che chiedere ciò, di che noi abbiamo altissimo bisogno.

Ho il bene di essere,

Delle Signorie vostre,

Umilissimo e devotissimo servitore
Fr. G. Massaja, Vescovo