Massaja
Lettere

Vol. 3

/190/

1865

377

Al cardinale Alessandro Barnabò
prefetto di Propaganda Fide – Roma

F. 688rEminentissimo

* Versailles Presso i RR.PP. Cappuccini 10 Febbrajo 1865

Accuso ricevuta della sua lettera 30 dicembre scorso venutami dall’Egitto, dove forse V. E. R.ma già mi supponeva, e per dove sarei impaziente di partire se gli affari fossero ultimati. Dalla sua lettera posso argomentare, che qualora ogni mio affare fosse terminato in qualsiasi senso, potrò partire senza aspettare ulteriori ordini.

Debbo poi sommamente ringraziarLa della sollecitudine con cui promosse la soluzione di alcuni quesiti da me fatti, benché i meno essenziali: dal che giova sperare che a suo tempo verranno anche gli altri.

Riguardo all’articolo del vino V. E. non dubiterà di tutta la nostra sollecitudine a coltivare la vite, essendo in ciò toccato nel vivo anche l’amor proprio, essendo ancora noi abbastanza desiderosi di mangiare dell’uva e di bere del vino.

Circa l’olio santo, o io non mi sono espresso bene, oppure non sono stato bene inteso. Il fatto è che la decisione data non soccorre al bisogno di quella Missione in questo; ed eccone la ragione. Non solo è questione della scarsità dell’olio, ma la mancanza di vasi per fare il fonte, e mancanza persino di bottiglie per farne una quantità che possa servire per molto tempo fa che siamo costretti a fare sempre la benedizione del fonte immediate avanti ciaschedun battesimo, e fare tante benedizioni di fonte quante sono le funzioni del battesimo. Più, quando io mando un sacerdote indigeno in paesi lontani, è molto che possa dargli i vasetti degli olii santi col semplice bambagio bagnato per le unzioni; e mai potrò dargli tre fiaschetti di olj santi in natura. Ora quando i medesimi dovessero fare dieci o quindici funzioni del fonte, cosa da supporsi ordinaria, calcoli l’Em. V. quante goccie di olio santo avrebbero a consummarsi, dovendo calcolarsi in ciascheduna funzione, col sistema dell’infusione, almeno quattro goccie ogni funzione, nel supposto che cada solamente una goccia e non due. Perché dunque hanno fatto l’avaro? Il mio sentimento sarebbe, che attesa la necessità, come cosa che non tocca l’essenza del battesimo, avrebbero /191/ potuto accordare qualche cosa di più. La decisione attuale, invece di venirci in soccorso, ci lega in modo fastidioso. Prima eravamo almeno in buona fede: ora sarebbe il caso o di trattenere il ministero, oppure di esercitarlo in contraddizione alla decisione del santo Officio. Il mio sistema è, che quando [f. 688v] si tratta di una cosa che non tocca l’essenziale, si può essere un po’ condiscendente per islegare il ministero, il quale parte da un principio certamente di diritto divino. Nel caso di potere, farò tuttociò che mi viene ordinato: ma nel caso d’impiccio, spero che non mi sarà imputato a colpa, se per qualche tempo lascierò ancora correre la cosa.

In quanto al terzo quesito, non è questione di toccare la liturgia nostra. Solamente è il caso ad tempus di osservare esteriormente la Pasqua con tutte le conseguenze di trasporti di feste che dipendono dal calcolo pasquale, e del digiuno che la precede. In Chiesa si fanno sempre le funzioni latine nei loro giorni; ed in alcuni paesi si può anche fare la festa esterna: ma nei luoghi più frequentati dagli Abissinesi, occorre qualche volta di fare le ceremonie esterne della Passione nella settimana di Pasqua, e di digiunare anche in detto tempo. Circa le altre feste è poca cosa, perché noi facciamo le nostre funzioni nei loro giorni, e lasciamo fare esternamente le loro feste popolari, o baccanali, colla sola attenzione di dire una messa ad un’ora più comoda in certi giorni loro particolari.

Piuttosto riguardo al digiuno avvi una variazione notabile: ma certamente i Missionari non guadagnano, essendo i digiuni di quei paesi molto più numerosi e rigorosi. La Quaresima prima di Pasqua è di cinquantasei giorni; e quella dell’Avvento di quaranta; e quindi digiuno rigoroso il mercordì e il venerdì di tutto l’anno, eccettuato il tempo Pasquale: il digiuno si fa in stretto magro in un paese, dove non vi è ne anche l’olio. Calcolato tutto questo, io credo di non avere fatto un gran male cangiando il Sabbato nel Mercoledì, una delle variazioni più notabili. Posto che l’Em. V. domanda un calcolo esatto sulle Feste e Digiuni, guarderò di farlo. Per ora bramerei solo di essere messo in coscienza, poiché è questione solo di providenza ad tempus per poter portare quei popoli a poco a poco al rito latino, l’unico che possa conoscere e mettere in salvaguardia la Fe- [f. 689r] de, come già ho dimostrato altre volte. Io poi mi rimetto, nel caso che Roma pensi diversamente.

Fra tutti i quesiti da me fatti, quelli che mi stanno a cuore sono tre; cioè: quello delle mogli di un poligamo; quello del battesimo delle figlie sul pericolo che vengano poi date in matrimonio ai mussulmani; e quello degli schiavi.

Circa il primo caso deve osservarsi, che il poligamo con tutte le mogli fa la cerimonia di uso eguale. Il matrimonio è indissolubile per parte della moglie; ma dissolubile per parte del marito. Ciascuna moglie è come schiava; ed è caso di morte il cercare la fuga, o la separazione. Secondo la mia opinione, il matrimonio naturalmente non deve considerarsi valido con nessuna, per la condizione di solubilità che sempre esiste per parte del marito, benché io da principio abbia forse scritto qualche cosa in favore della prima moglie.

/192/ In questo caso, se una di queste mogli sia disposta e preparata e domandi il battesimo, quid agendum? dobbiamo obbligarla a separarsi anche con pericolo della sua vita? Io che ho ricevuto il battesimo, la Cresima, e tutte le ordinazioni sino all’episcopato, e spiritualmente nutrito di mille Sacramenti e grazie, pure provo una tal quale ripugnanza quando si tratta di morire per la Fede: dovremo pretendere tanta forza in una povera catecumena fra mezzo a mille scandali? Io ho ancora il rimorso di una donna morta pagana per questa ragione, la quale mi domandò più volte il battesimo, ed era disposta a riceverlo in un modo il più consolante, ad eccezione di questa circostanza; è morta senza battesimo dopo la mia partenza da Gudru; e non so come si sia regolata in morte. Noi siamo spaventati dalle disposizioni che si ricercano per ricevere degnamente il battesimo, e ci ripugna introdurre nell’ovile di Cristo una povera creatura legata da circostanze esteriori che l’impediscono di presentare tutte le formalità requisite esternamente, benché il cuore sia disposto a tutto, anche all’unità coniugale, per [f. 689v] quanto sta da essa. Noi in ciò senza dubbio siamo legati da un vincolo divino nascosto nel complesso del codice evangelico; almeno crediamo così, ed anch’io credo così. Ma quando medito la circostanza pratica di dover rifiutare un sacramento tanto essenziale, per l’amministrazione del quale esiste anche un’altro precetto irrefragabile divino, mi sento sempre eccitato ad esaminare meglio questa importante questione, la combinazione pratica di due precetti parimenti divini, quello cioè di non dare il santo ai cani, e quello di darlo ai sufficientemente disposti; per la custodia del primo, in favore del sacramento la via più sicura è quella di negarlo, quando non ci fosse un’altra legge divina che ci obbliga ad amministrarlo ogni qualvolta si trovano dei credenti disposti ad osservare la legge di Cristo, ma v’è questa legge; ed è appoggiata ancora ad un’altra legge quasi naturale, e certo evangelica, di soccorrere, cioè, il povero nel più grave di tutti i bisogni, quello di essere rigenerato dopo ricevuta la fede, per aquistare il diritto a tutti gli altri ajuti evangelici. Il bisogno di esaminare anche la parte in favore del catecumeno non si può sentire se non da chi si trova nel bisogno pratico di doverlo conferire, o negare. Fin’ora i casi accaduti sono pochi perché non si è eccitato ancora colà un movimento: ma nel caso che si eccitasse, questi casi sarebbero, direi quasi quotidiani; ed io non assumerei sulla mia responsabilità di negar sempre in simili casi il battesimo. La questione dipende dal sapere se quella donna disposta a tutto, meno al punto di esporsi al pericolo di morte, debba si o no considerarsi come sufficientemente degna di ricevere il Sacramento. Anche nel caso dubbio, resta a vedersi se la strada più sicura sia quella in favore del Sacramento, oppure quella in favore dell’anima catecumena. S. Paolo parla di una donna fedele, che abbia un marito infedele, e permetta che stia insieme. Non parla se quell’infedele abbia solamente una o più mogli; ma noi possiamo supporlo. Certamente la donna fedele ha dovuto prendere il battesimo, essendo già col marito infedele, poco presso al caso nostro... Il mio parere sarebbe, /193/ che essendo invalido il matrimonio di tutte, si possa almeno battezzare la prima che si presenta con tutte le dispo- [f. 690r] sizioni di restare col marito, e non cercare altri e di fare il matrimonio cristiano subito che il marito sarà convertito, e che quindi la prima battezzata debba considerarsi come vera moglie, in caso che il marito si converta. Riguardo alle altre in caso che cerchino di farsi cristiane, come non si potrebbe dalle medesime esiggere il proposito suddetto, il caso cangerebbe un poco di posizione, e si farebbe più critico, benché anche in quest’ultimo caso io senta ancora un grave bisogno di esaminar meglio la questione. Oso esternare a V. E. R.ma il raziocinio che mi suole guidare nell’esame di questa questione per ogni caso che non fosse giusto. Le disposizioni che io veggo necessarie per ricevere il battesimo nella persona adulta si riducono a due; fede, cioè, nella dottrina Cristiana, della quale si suppone istruita; quindi una disposizione generale di eseguire quanto viene comandato dalla legge evangelica. Che poi questa disposizione debba essere eroica da renderla superiore a tutte le contrarietà ed alla morte stessa, sarebbe questa appunto la questione che ha bisogno di riflessione. La storia ecclesiastica conta una quantità di eroine, che sono arrivate a ricevere anche questo grado di grazia straordinaria, prima ancora di entrare nell’ovile di Cristo e godere l’onore di sedere alla tavola del gran Padre di famiglia. Questi sono trionfi straordinarj della grazia, da mettersi con quello di S. Paolo, stato chiamato dallo stato di persecutore a quello di apostolo con una grazia che lo prostrò a terra, conquiso non solo nel suo calcolo intellettuale, ma nelle medesime sue facoltà e sensi materiali; grazie straordinarie, le quali, come credo, non hanno mai servito di base al ministero pratico; altrimenti non si vedrebbe nella storia antica a comparire una caterva immensa di imperfetti e deboli, come sappiamo esservi stata.

Ciò osservato di passaggio, passiamo a fare un momento l’avvocato del povero catecumeno. Dal momento che il medesimo ha avuto da Dio la grazia di essere illuminato nella vera fede e si è risolto di farsi cristiano, bisogna osservare due cose, il bisogno, cioè, che deve sentire il catecumeno di ricevere il battesimo, ed il dovere correlativo nel sacro ministro di darglielo, nel supposto di giudicarlo degno. Il Catecumeno illuminato, come deve supporsi, dalla grazia e dalla Fede, deve trovarsi in un bisogno tale, superiore a tutti i bisogni delle simpatie umane, [f. 690v] anche le più vive ed imponenti; egli si conosce come un essere senza vita, come un pesce fuori dell’aqua, che ha bisogno di ritornarvi subito per vivere e per nutrirsi. In faccia ad un bisogno tale il ministro di Dio, ancorché non avesse un precetto speciale di dar vita a quest’essere informe ed in uno stato di vera violenza, non avrebbe che ad obbedire ad un precetto naturale ed eminentemente evangelico, quello, cioè, di soccorrere il prossimo in una delle necessità le più gravi, anzi estrema, quella, cioè, di ricevere la vita evangelica dopo la fede. Ma noi sappiamo che esiste ancora un precetto diretto e formale, non solo di battezzare chi domanda e già dichiara di ricevere la /194/ fede; ma di cercare ancora quelli che non cercano; precetto, di cui tutta la responsabilità è sopra la Chiesa, depositaria della missione apostolica. Più, nel nostro caso pratico io veggo ancora la parola di Dio che parla in particolare al cuore dell’Apostolo nel fatto medesimo dalla supposta conversione di un infedele, la quale deve supporsi fatta da Dio, il quale si è degnato di fecondare il germe gettato dall’Ap.[osto]lo in dettaglio. In caso di rifiuto irragionevole, non vi sarebbe per avventura il pericolo di opporsi quasi direttamente all’operazione della grazia della conversione da Dio operata? Iddio ha dato la grazia di credere: vogliamo noi pretendere che di primo slancio dia ancora l’eroismo di essere martire? Se Iddio facesse a tutti la grazia straordinaria di essere un’eroe prima ancora del battesimo, gli altri sacramenti allora, e lo stesso battesimo per cosa sono stati istituiti? Il nostro catecumeno domanda appunto il battesimo per poter ricevere tutti questi soccorsi ed ajuti.

La questione sciolta speculativamente inclina naturalmente a prendere le parti in favore del Sacramento; ed io stesso sono stato sempre di questo avviso nei quindici anni di ministero passati in Europa, perché in Europa non si è mai presentato il caso pratico in questione. Ma dopo che mi sono trovato nel caso pratico, ed ho veduto le strettezze in cui può trovarsi un missionario, credo di dovere umilmente far presente queste mie rifflessioni toccanti molto davvicino lo sviluppo del ministero in pratica in un’epoca in cui, dopo i tempi apostolici, non vi fu mai tanta iniziativa tra gli infedeli. Dal maneggio dei principj semplici in chi è alla testa dell’operazione evan- [f. 691r] gelica, può in gran parte dipendere il maggiore o minore sviluppo; ed uno dei caratteri della divinità della Chiesa di Cristo è appunto quello di essere suscettibile di sviluppo, e di uno sviluppo il più complicato, grave, e maestoso, quando lo domanda la posizione di una cristianità esternamente organizzata in forma cristiana, e nel tempo medesimo suscettibile di abbassarsi e ritornare all’uopo ai tempi ap.[osto]lici, celebrando colla medesima fede e sentimento il Pontificale di S. Pietro in Roma, quello dei deserti africani, come quello delle catacombe nei tempi apostolici, regolando maestosamente il suo ministero organizzato, senza dimenticare la semplicità di quello dei tempi apostolici non ancora passati, ma tut[t]ora esistenti nelle Missioni fra gli infedeli, e forse più critici ancora, perché privi degli ammenicoli di una società organizzata e civile e dotta, come quella che hanno trovato gli apostoli, evangelizzando l’Asia e l’Europa, elementi che non si trovano nell’Africa priva di società, di scienza, e di coltura.

Passo ora a dire due parole relativamente al battesimo delle piccole figlie nei luoghi, ove avvi pericolo che divenute grandi sieno date in matrimonio ai mussulmani. Ho ricevuto a questo proposito tre o quattro lettere dal P. Leone da Ghera, nelle quali mi pregava di decidere questo punto: ho risposto evasivamente, lasciando intendere che io inclinava a darlo; ma ho rifiutato una decisione formale, per timore di trovarmi poi in avvenire in contraddizione con Roma da me già più volte interrogata a questo proposito. So di avere /195/ già scritto questo caso in Roma, ma inviluppato fra molti altri. Non vorrei che la decisione fosse ritardata di molto, come una di quelle che mi premono di più. È inutile che dica che non occorre dappertutto, ma per lo più solo in Ghera, dove esiste una casta convertita, ma molto onorata e domandata dai grandi e principi mussulmani: rarissimamente occorre in altri luoghi, benché i parenti non sogliono doman- [f. 691v] dare il consenso delle figlie per maritarle; ma in Ghera accade sovente; ed il padre qualche volta non può rifiutarlo, perché entra tramezzo il Re. In questo caso è questione di decidere fra il principio di non esporre la figlia cristiana al pericolo di tradire la sua fede, e quello di farla cristiana per rinforzarla di più nella sua Fede; ed anche per ogni caso di morte. Anche qui mi pare che un pericolo probabile e futuro non sia sufficiente per privare una ragazza del battesimo, perché in buona sostanza si ridurrebbe la questione pratica a questo pronunziato: lasciarla in possesso del diavolo, per non esporla probabilmente ad esser presa dal medesimo dopo di essere cristiana. Come già dissi, io sono d’avviso di doverlo dare: però sentirei volentieri la decisione di Roma per mio scarico, e per poter rispondere direttamente alla questione fattami dal P. Leone.

Relativamente al terzo quesito sopra gli schiavi, non è qui il caso di scrivere, ricordandomi di avere abbastanza detagliate le cose nel mio scritto presentato a Roma. Solamente mi contenterò di raccomandarle i seguenti punti.

1º Se una famiglia cristiana, la quale non suole negoziare negli schiavi, può vendere uno schiavo che tiene in famiglia, o per soccorrersi da una grave necessità, o in punizione dello schiavo divenuto incorregibile, e meritevole di grave castigo.

2º Se si possano battezzare gli schiavi con questo pericolo, quale sempre esiste, ancorché i padroni promettano e giurino di non venderlo, dovendo supporre il caso di un pagamento forzato, o mandato esecutivo per debito; perché in tal caso la prima merce che si presenta in casa è per lo più lo schiavo, sempre il primo ad essere sequestrato.

3º Un mercante che non negozia abitualmente in ischiavi, per una circostanza straordinaria che ha avuto degli schiavi in pagamento quasi forzato, può egli venderli per liquidare il suo capitale quasi unico pel negozio con cui mantiene la sua famiglia? F. 692r Ecco Em. R.ma i casi di maggior premura, pei quali bramerei che si affrettasse al più possibile il S. Officio a darmene la risoluzione, per subito comunicarla all’interno. Del resto poi non ignoro la molestia continua che io debbo certamente recarle; ma mi lasci fare per questo poco tempo che resterò in Europa: ed in caso, per liberarsene, preghi il Signore che mi apra la strada per andarmene presto. L’assicuro che, arrivato là, non la disturberò più tanto.

Debbo poi significarle in pari tempo che trovasi con me a godere anche dell’ospitalità di questi buoni Padri miei fratelli Cappuccini, il Sacerdote D. Daniele Comboni da Lei conosciuto, appartenente alla Congregazione di D. Mazza di Verona. La venuta di questo Sacerdote /196/ mi ha edificato molto; ed il suo zelo per la conversione dell’Africa è una lezione che Iddio mi ha mandato, della quale procurerò di trarne tutto il profitto che potrò, e di cui sarà capace la mia testa di zucca. Io mi era dedicato alla salute dei Galla, e credeva di aver fatto qualche cosa: invece ho trovato un cuore molto più in grande, che porta il peso di tutta l’Africa, e vorrebbe vederla tutta convertita. Se non fosse altro, il conato è così sublime ed apostolico, che bisogna ammirarlo e venerarlo per forza.

L’Africa presenta senza dubbio delle difficoltà gravissime per la sua rigenerazione non solo, ma ancora per tutto lo sviluppo dello zelo ardentissimo dell’Apostolato della Chiesa dei nostri tempi, certamente non al di sotto di nessuna epoca antica dopo i tempi apostolici: un poco più che si prestasse, sarebbe davvero il caso di dire, che fra tanti lavori apostolici, che hanno direi quasi messo in movimento il mondo, la sola Africa è quasi abbandonata, essendo quasi nulli gli stabilimenti che vi sono, in proporzione della grandezza di questa parte del mondo; motivo per cui [f. 692v] i riflessi di questo Sacerdote non sono disprezzabili; e se io non sono temerario, oserei pregare V. Em. a riflettervi seriamente, per vedere ciò che si potrebbe fare di più per la salute di questo gran paese, il più vicino a noi, e forse il meno coltivato. Lasciando da una parte il piano presentato dal Sacerdote suddetto, al quale quando si trattasse del caso pratico, io non mancherei di aggiungere tutte quelle rifflessioni che mi potrà suggerire la poca esperienza e cognizione che ho di quei paesi, per ora io oserei solamente suggerire una mia idea semplicissima, se V. Em. sarà tanto buona d’ascoltarmi; idea per se semplicissima, e che ad ogni caso non costerebbe spesa, ma sarebbe certamente di edificazione a tutto il mondo cristiano, anche nel caso che nulla si potesse ottenere.

L’idea sarebbe quella di limitarsi per ora a dare un’eccitamento universale al mondo cristiano, quale ottenuto, si scuoterebbero non tanto le borse per trovar mezzi materiali; ma i cuori generosi in zelo ed in pensieri. Sono certo che un’eccitamento universale risveglierebbe una quantità di gente disposta ad ajutare l’impresa non solo col denaro, il quale nel mio calcolo è l’ultimo sempre, come compreso dal N. S. in queste parole: Matteo 6, 33 et haec omnia adjcentur vobis; ma più farebbe sortire nuovi piani, nuove idee, e nuovi principj di operazione, quali toccherà poi all’Em.a V.a di diriggere alla maggior gloria di Dio; e le preghiere, che si aggiungerebbero dal mondo Cristiano, spianerebbero certamente le difficoltà.

Eccole dunque con tutta confidenza, se non sarà impertinenza, il pensiero che io oserei suggerire. Sua Santità nelle sue Encicliche precedenti e nelle sue parlate ha toccato dei punti che dormivano da secoli, e li ha toccati con molto vantaggio. L’ultimo passo Quanta Cura 8 dicembre 1864 Luca 2, 29 dell’Enciclica è stato veramente un passo, che io ho sentito colle lagrime agli occhi di tenerezza e l’as- sicuro che ho detto il Nunc dimittis di cuore, perché posso assicurarla che da più anni io vedeva questo gran bisogno di separare il cattivo fermento, che vestito di bei termini e di belle apparenze, si introduceva già a cor- /197/ rompere persino gli angeli del Santo dei Santi, con pericolo di vedere fra poco una seconda guerra come quella avvenuta tra S. Michele e Lucifero nei recinti dello stesso Santuario, con pericolo che la coda del Diavolo Progresso tirasse dietro non solo la terza parte, ma più della metà...

Il S. Padre, che ha fatto questo bel passo, potrebbe farne ancora un altro molto edificante: non dico un Enciclica, ma una sola Parlata toccante in qualche circostanza pubblica, nella quale desse a conoscere un gran regreto suo prima di morire, di non vedere l’Apostolato dell’Africa più attivato di quello che è, raccomandando preghiere particolari a questo scopo, ed eccitando lo zelo dei buoni Cristiani, massime ecclesiastici in proposito, in quel modo Ella crederà meglio. Io sono certo che produrrebbe un gran movimento. Un simile documento, come non lascierebbe di pubblicarsi a tutto il mondo cristiano, oltre allo scopo da noi inteso, produrrebbe un effetto mirabile sulla pubblica opinione in favore di lui e del Cattolicismo, appunto nelle attuali critiche circostanze, in cui il Sommo Pontefice è martire di mille pensieri e di altre sollecitudini. L’Enciclica ha già fatto un gran colpo sotto questo aspetto. Un’altra parlata di eccitamento per l’Africa ne farebbe degnamente la continuazione e la corona per questi tempi di incredulità, nei quali certi cuori deboli a mezz’aria per essere vinti dalla corrente, avrebbero, se non altro, un’altra prova dell’apostolico zelo che esiste, e che non può essere estinto da tutte le innondazioni attuali che minacciano la Chiesa... È inutile che io aggiunga riflessi. V. Em. mi avrà compreso in tutto il bene ed il male di questo suggerimento. Solamente le direi, che per ora S. Santità non dovrebbe entrare in nessun detaglio, ne di organizzazioni né di ordinazioni in proposito, perché nel caso di ottenere un’eccitamento [f. 693v] universale nel mondo cristiano, con maggiore vantaggio e con maggiori lumi si potrebbero poi fare dopo, e così la cosa sarebbe tutta in senso favorevole, senza nessun pericolo di toccare, anche solo indirettamente, le precedenti Santissime Istituzioni; ma limitarsi ad un appello generale, toccante, ed interessante.

Ritornando poi al Piano del Sac. Comboni, io nel 1850 a[ve]va già immaginato un quid simile, di cui codesta S. Congregazione deve possedere qualche mio documento, se non si è perduto; almeno sono certo di averlo molto meditato. Ma come io sono un essere che mi pascolo di velleità, dopo averlo concepito, l’ho abbandonato; e Dio ha fatto sortire un’altro. Se dico questo perché veggo in ciò un segnale della volontà di Dio; e quando fosse così, Dio se la caverà a dispetto dei nostri deboli calcoli. In questo secolo di orgoglio e tutto immerso in calcoli materiali, non resterei niente stupito che Dio facesse camminar questa operazione per vie tutte al di là dei calcoli umani. Quello che posso dirle certo è, che per parte mia V. Em. faccia capitale. Non mi resta più che la coda dell’asino a scorticare; ma quel poco, in cui posso ancora essere utile, Ella mi comandi, che sarò sempre all’ordine, come essere venduto all’Africa, e legato alla medesima con voto, come Ella sa.

/198/ Mi perdoni [al]la libertà con cui soglio esprimere le mie idee. Non lo attribuisca a mancanza di rispetto, ma al desiderio di giovare almeno con parole, non essendo capace di fatti.

Le bacio la S. Porpora, e con la massima figliale venerazione Le sono

Di V. Em. R.ma

Devot.mo Figlio in G. C.
Fr: G. Massaja V.o di Cassia
V.o Ap.o dei Galla