Massaja
Lettere

Vol. 3

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Al cavaliere Antonio Thomson d’Abbadie
esploratore dell’Etiopia – Parigi

F. 113rM.r Antoine très chère

Cairo 7. Giugno 1866.

Prima di lasciare l’Egitto voglio scriverLe ancora una volta, perchè, fuori dei miei fratelli, e Superiori religiosi, in Europa non tengo persona più cara di Lei, e per la quale ho gran debiti di riconoscenza stampati nel cuore, i quali non si cancelleranno più. Nell’ultima mia lettera Le diceva alcune mie idee e calcoli relativi all’Istmo di Suez, in questa Le dirò qualche cosa del mio viaggio a Gerusalemme.

Trovandomi ancora in Marsilia, mi scriveva colà Monsignor Patriarca invitandomi a recarmi alla città Santa per la Consacrazione di un Vescovo, Monsignor Bracco coadjutore suo. Io non aveva intenzione di andarvi, ma arrivato in Egitto, dovetti andarvi per completare il numero dei Vescovi consacratori, dolce necessità che mi obligava a rivedere una seconda volta i Santi luoghi, oggetto materiale delle mie meditazioni, per i quali ho avuto sempre una gran sinpatia.

/388/ Non si aspetti Ella, che io voglia trattenerLa di cose state già rifritte le mille volte da pellegrini, viaggiatori, e scrittori con maggiore abilità e tempo di quello che possa fare io, sempre incalzato come sono dagli affari e sulle mosse della partenza – Ella stessa, che pure ha visitato Gerusalemme, sarebbe certamente più in caso di me a farlo in tutt’altra materia. Voglio bensì unicamente narrarLe in breve la funzione medesima, per la quale io sono stato chiamato alla S. città, stata eseguita con tutta solennità nella basilica medesima del S. Sepolcro la mattina del 13. Maggio, giorno di Domenica infra l’ottava dell’Ascenzione.

F. 113v Come V. S. non può conoscere il nuovo stabilimento o casa patriarcale fabricata dal Patriarca Valerga in questi ultimi anni, e che ancora non è finito, dovrei qui incominciare per darLe un’idea del medesimo, se lo permettesse la brevità di una semplice lettera; basti il dirLe che nel suo insieme, casa patriarcale e chiesa presenta uno dei stabilimenti più vasti e regolari della città di Gerusalemme, e potrei quasi in certo senso dire che alza la testa per fare una certa concorrenza collo stabilimento russo, fabbricato pure in questi ultimi anni fuori delle mura della città, il quale, come ognun sa, non ha eguale. Ciò che più importa sapere è, che questo stabilimento patriarcale trovasi situato a ponente della città di Gerusalemme e del Convento del SS. Redentore, che Ella ha veduto, quasi in contatto colle mura della città, in certa distanza nord dalla porta detta di Betlemme, epperciò abbastanza lontano dalla basilica del S. Sepolcro.

Ciò presupposto dirò, che alle sette del mattino, la processione di tutto il clero di Gerusalemme e contorni, tanto secolare che regolare partì con tutta solennità dalla casa patriarcale suddetta con Monsignore Patriarca alla testa in capa magna, seguito dai due Vescovi conconsecranti, i quali avevano in mezzo il candidato consecrando. Le strade di Gerusalemme erano piene di spettatori molto rispettosi; la piazza della basilica del S. Sepolcro talmente era piena che appena si trovava il passaggio coll’ajuto dei soldati. La basilica poi era talmente gremita e zeppa di gente, che i soldati mandati dal governo ebbero ben che fare per far largo al nostro passaggio e sbarazzare il luogo avanti il tempietto del S. Sepolcro, dove eransi eretti i due altari per la S. cerimonia. Tutte le tribune in circuito erano piene di gente; tutte le nazioni, tutti i riti, tutte le comunioni e credenze erano presenti a quella funzione, la prima di simil genere eseguita in Gerusalemme, almeno dopo le crociate; tutto il clero eterodosso, tanto a noi ostile in quel luogo, come semplice spettatore volle trovarvisi, e non mancavano gli stessi prelati eretici di qualsiasi grado o condizione. [F. 114r] Gli stessi nostri abissinesi carissimi assistevano alla cerimonia in numero di circa cinquanta. Molti temevano che succedesse qualche disordine, cosa molto ordinaria nel S. Sepolcro in simili circostanze, invece tutto si eseguì col massimo buon’ordine e con tutta la desiderabile edificazione; la funzione eseguita con tutta la solennità e col canto, terminò vicino a mezzogiorno. Un solo difetto era la mancanza dello spazio, perchè, come /389/ Ella sa, tra la porta del tempietto del S. Sepolcro, e la porta della cappella greca, il luogo è molto ristretto, per una funzione che esigge due altari con due funzionanti, e direi quasi due gerarchie separate, non che un servizio molto numeroso, avendo ciaschedun Vescovo il suo seguito. Una cosa toccante per gli armeni eretici era il vedere uno dei tre consecranti del loro rito con tutte le divise e seguito armeno; era questi Monsignor Melchiorre arcivescovo armeno della Mesopotamia nostro cattolico, il quale figurava come secondo consacrante.

Mentre si eseguiva la Sacra cerimonia io era troppo commosso per dar luogo a tutte le riflessioni; la celebrazione del mistero incruento, la gravità della cerimonia; e la santità del luogo erano bastanti allora per me; appena questa finì, una quantità di pensieri mi si affollarono alla mente sul modo con cui ha potuto essere stata concepita, e sull’impressione che ha potuto lasciare la funzione medesima sul cuore di tutta quella moltitudine di diverso rito, diversa educazione, e diverse abitudini. Ora io pensava ai miei abissinesi, ora ai Greci, ora agli armeni e maroniti, ed ora agli stessi mussulmani, oppure ai nostri Protestanti, dei quali anche molti erano stati spettatori. Ella conosce abbastanza la natura delle cerimonie religiose e del canto dei Levantini, quanto differenti siano dalle nostre. Sa pure, come questi popoli materialmente schiavi delle loro abitudini [f. 114v] quanto difficili siano ad apprezzare una cerimonia religiosa qualunque che non sia vestita delle forme loro, ed al di là delle loro abitudini. Queste riflessioni diminuirono non solo in me la speranza di un’edificazione generale in facia alle Sette eterodosse, come avevamo pensato, ma un certo timore incominciò assalirmi, che la nostra funzione così bella, non sia stata a molti di scandalo. Chi non conosce direbbe questa una mia esaggerazione, ma pure noi sappiamo, che per molti di questi orientali la sola celebrazione dei Santi misteri in luogo patente, e la sola ostensione della Santa eucaristia, è per loro una cosa affatto straniera, anzi stravagante, ed incomprensibile. Almeno tutta quella caterva di clero eterodosso con tutti i suoi dignitarii, spettatore della nostra sublime e dignitosa cerimonia avrà potuto comprendere la nostra liturgia nella consacrazione del Vescovo, e farne un’edificante paragone colla loro, per lo più sempre incompleta, ed imperfetta; tale era la speranza comune di tutto il nostro clero, ma anche in ciò abbiamo vanamente sperato, perchè il clero eterodosso di qualsiasi rito, non esclusi i grandi dignitarii del medesimo, sono così estranei alle ceremonie nostre liturgiche ed alla lingua delle medesime, che poterono bensì vedere i movimenti materiali, ma nulla poterono comprendere di quello che si faceva.

Ho finito per convincermi anche di questo due giorni dopo la gran funzione suddetta. Martedì, giorno precedente alla mia partenza ho voluto chiudermi nel piccolo convento del S. Sepolcro, e passare colà l’unica giornata che mi rimaneva ancora nella meditazione di quel S. luogo. Come nel giorno il mercato di tutti quegli eterodossi non permetteva guari un raccoglimento completo, ho deciso di passarvi tutta la notte nella basilica stessa. Dalle otto e mezza sino alle /390/ undeci e mezza sono le ore più tranquille che si possono avere nella basilica del S. Sepolcro; ho passato la metà di questo tempo nel tempietto stesso del S. Sepolcro, e l’altra metà sul calvario, accompagnato da un giovane abissinese nostro cattolico che si trovava in Gerusalemme, per nome Berrù (è questi un bravo giovane; ho pregato Monsignore Patriarca di ritirarlo nel suo Seminario, di farne un prete per coltivare col tempo i pellegrini abissinesi); un silenzio quasi perfetto regnava allora nella S. basili[ca f. 114v] solamente alcuni pellegrini slavi dei più divoti stavano facendo certe letture in lingua loro, ma io non gli capiva, e loro non mi conoscevano, ne come vescovo, ne come europeo, ne altro, epperciò non ci disturbavamo a vicenda. Verso le undeci e mezza avendo incominciata la funzione dei greci, io mi sono ritirato sopra le gallerie dei nostri latini, dalla parte che è più vicina alla cappella dei greci ed alla porta del tempietto del S. Sepolcro; da quel luogo ho voluto assistere la funzione dei greci, la quale durò sino alle due, e poscia quella degli armeni, la quale durò dalle due alle quattro, ora in cui dovevano incominciare i latini, ed io doveva celebrare la S. Messa sopra il S. Sepolcro. Benché le funzioni dei greci e degli armeni fossero funzioni di eretici, tuttavia io mi era proposto di assistervi religiosamente, venerando ed adorando i divini misterj validamente celebrati da quel clero eterodosso e rivoltoso alla chiesa, non essendovi pericolo alcuno di approvare colla mia presenza un culto illegittimo ed illecito, perchè io me ne restava nascosto ed incognito. Ho fatto tutti i miei sforzi per concentrarmi ed accompagnare la celebrazione dei Santi misterj, ma non mi è stato possibile, perchè, a dirla sinceramente io ne ho capito un bel nulla, ne mai ho potuto distinguere a qual punto si trovava la S. Messa. Se avessi veduto i movimenti del celebrante avrei potuto comprendere qualche cosa, ma questi celebrando nella cripta o tempietto del S. Sepolcro, dove la stessa voce del Sacerdote restava così sepolta, che appena si poteva sentire, dal movimento del clero e dal canto nulla ho potuto distinguere. Si sentiva una cantilena quasi continua e monotona, un’incensazione quasi mai interrotta sulla porta del tempietto del Santo Sepolcro, ecco cosa ho veduto pendenti due ore e mezza che durò la funzione dei Greci; sortì una volta il Sacerdote dal tempietto e si fece una certa processione intorno al medesimo, portando qualche cosa di coperto, che io suppongo le specie eucaristiche, ma se ciò sia prima della consacrazione oppure dopo, non ho potuto distinguere, ne dalla concentrazione dei cuori [f. 115r] di tutto quel clero, ne da segni di adorazione qualunque non ho potuto distinguere. Quasi lo stesso mi accadde nella funzione degli armeni, la quale ebbe luogo subito dopo i Greci dalle due alle quattro; in quest’ultima però l’armonia di alcuni stranienti cogniti presso gli armeni, mi avvertì del momento della consacrazione, perchè si toccarono solo in quel punto, ed in alcuni altri, come fra noi il campanello.

Ritornando ora alla funzione della consacrazione del nostro vescovo, così credo poterla ragionare. Io sono un Prete e Vescovo vec- /391/ chio, e benché non abbia mai fatto uno studio particolare ne delle lingue greca ed armena, ne delle liturgie loro, non sono però totalmente estraneo alle liturgie orientali, e tanto meno antipatico delle medesime; moltissime volte ho assistito funzioni cattoliche di riti orientali, specialmente abissinesi, copte, e Greche; ho avuto anzi sempre una grande inclinazione per le medesime, pure, con tutto l’impegno che aveva quella notte di concentrarmi, e concentrato di assistervi religiosamente, pure mi sono trovato ciononostante così straniero a quelle funzioni, che nulla potei capire, e per nulla potei entrare a parte del mistero che si celebrava; cosa non si dovrà dire di tutta quella folla di gente che assisteva alla nostra funzione suddetta? di quella stessa turba di chierici, monaci, Preti, vescovi, e forse anche patriarchi eterodossi che ne erano spettatori? Aggiungasi, che tutti questi eretici orientali dalla fanciullezza loro sono stati a sazietà imbevuti di pregiudizii e calunnie contro la Chiesa cattolica loro madre antica, e contro il rito latino coll’unico scopo di perpetuare lo scisma fra le masse dei cristiani levantini. Niente di più naturale il temere, che la nostra classica cerimonia suddetta, invece di produrre l’effetto da noi sperato, abbia anzi prodotto un’effetto tutto contrario in tutta quella folla di spettatori di qualunque siasi classe o condizione. Io sono d’opinione che la medesima avrà certamente edificato i protestanti, che colà si trovavano in sufficiente [f. 116r] quantità, perchè questi, nella maggior parte di loro, hanno qualche cognizione del latino e delle ceremonie nostre, e trovano nelle nostre chiese un certo compenso al vuoto che presenta la religione loro priva di corpo; ma per rapporto agli orientali io mi sono perfettamente convinto del contrario, contro il sentimento quasi comune di tutto il nostro clero latino, il quale ancora sperava. Potrei portarLe qui dei detti e dei fatti in prova, ma sortirei dalla brevità che mi sono proposto; Ella coll’esperienza che ha di questi paesi, non ne ha bisogno per convincersene.

Ella mi dirà, ad quid tutto questo? io non ho ancora potuto capire cosa intenda di provarmi con tutto ciò. Le dirò che intendo risponderLe ad una Sua opinione spiegatami in una delle nostre conferenze carissime di Parigi sui riti orientali, quando io Le ho parlato della mia opinione e determinazione sul rito conveniente alla missione nostra dei Galla. Ella allora, esternandomi la Sua opinione relativamente al caso, mi fece una magnifica apollogia sui riti orientali, la quale mi incantò, e se debbo dire la verità, confesso che mi avrebbe anche vinto, se io fossi stato un semplice Secolare guidato da calcoli semplicemente letterarii; ma io Prete e Vescovo sono obligato a calcolare in queste cose non una semplice richezza letteraria, oppure una varietà anche bella e maestosa per la Chiesa; sibbene io debbo vedere in ciò l’elemento che si presta di più per l’unione o fusione della famiglia Cristiana sotto il vessillo della Chiesa essenzialmente una, come stabilita dal divin nostro Maestro e Salvatore Gesù Cristo.

Caro Signor d’Abbadie, considerata la cosa sotto questo aspetto di prima importanza nella cosmopolitica cristiana, io potrei dirLe /392/ francamente che questi diversi riti orientali sono la causa principale del Scisma colla Chiesa madre, e della caduta di tutte queste cristianità nella più stordita ignoranza, ed in un barbarismo pressoché eguale a quello dei pagani e mussulmani; [f. 116v] potrei assicurarLa di più che questi riti medesimi sono la causa poi unica per cui le popolazioni orientali si sono mai fuse coll’Europa e si funderanno giammai, piuttosto si funderanno coll’islamismo, come lo sono già nei tre quarti.

La Chiesa, ben sapendo che il clero levantino si serve del rito per fare il Scisma e per gettare l’alarme nel popolo, ha spinto tanto avanti la sua materna bontà e tolleranza che arrivò a proibire il passaggio da un rito all’altro, e crearsi una complicazione tale, che le poche popolazioni d’Oriente disseminate fra l’islamismo, e minimo avanzo del medesimo, da tanto a fare alla Chiesa, quanto l’apostolato di tutto il mondo. Ella non può farsi un’idea di tali complicazioni; in Oriente una popolazione mista di varii riti, anche piccolissima, che in Parigi si direbbe una parochia, ha quattro o cinque vescovi, perchè ogni rito ha un’amministrazione affatto separata, un clero a parte, una educazione speciale, speciali interessi, particolari bisogni come se fossero altrettante Sette fra loro estranee ed infense; fra loro non si conoscono, a vicenda non si amano, e possiam dire che sono quasi sempre fra loro in guerra. Il clero levantino di qualunque rito, anche nostro cattolico, quanto è debole, altrettanto poi è geloso del suo rito; egli non è capace di far proseliti, ne di governarsi da se, ma ha bisogno sempre del missionario latino ed europeo; a questi tocca lavorare e fare proseliti, fabricare le chiese e preparare ogni cosa, e quindi rimettere tutto al clero levantino gelosissimo dei suoi diritti, e scaltro per sollevare ogni momento questioni contro di lui. Nel 1850, dopo il mio viaggio d’Europa, volendo entrare nel paesi Galla per la via del Sennaar, come Ella ben sa, ho esaminato nel più minuto e scrupoloso detaglio tutte le missioni dell’alto Egitto e tutte le Chiese degli eretici sino a Cartuum, un gran libro non basterebbe per riferire tutte le questioni che ho sentito allora; giudicando da quel poco che ho veduto fra i soli copti dell’alto Egitto, i quali, compresi eretici e cattolici, non passano i 50. mille, penso che la S. C. di Propaganda deve avere i scaffali dell’archivio pieni di relazioni. [F. 124r] Ciò che più importa, dopo tanti sacrifizii che la Chiesa ha fatto da secoli, e che fa tuttora, poco è quello che si è ottenuto, pochissimo quello che si spera, e quando anche tutti i levantini cristiani di tutti i riti, si facessero cattolici sarebbe questione di otto millioni, all’infuori della nazione slava, la quale ognun sa che è molto grande, superba, e con dei destini imprescrutabili, fatti cattolici poi, saranno sempre di quelli che minaciano il scisma.

Basti ciò per farLe conoscere le ragioni per le quali io ho deciso d’impiantare il rito latino fra i paesi Galla a preferenza del rito etiopico. Non è già che io sia nemico dei riti orientali, quando fosse solamente il caso di tollerargli per non irritare e perdere una /393/ nazione, ma altro è esserne nemico, altro troppo amico e propagatore. Se la chiesa ha accordato una salvaguardia assoluta proibendo di lasciare il proprio rito in cui è nata la persona, non è già semplicemente per conservare questi riti per un qualche merito o utilità dei medesimi, ma piuttosto per maneggiare le passioni del clero orientale, il quale suole sempre servirsi di questo elemento per ingannare e strascinare il popolo nello scisma. Se la mia missione fosse stata in Abissinia Cristiana e con un rito stabilito, le storie antiche colà avvenute sarebbero state bastanti per rendermi avvertito a mantenere scrupolosamente il rito etiopico, ma trattandosi dei paesi Galla pagani, confesso candidamente che non me la sarei sentita in conscienza di piantarvi colà il rito etiopico, per non creare in quel terreno vergine tante complicazioni e pericoli futuri.

Fin qui fu scritta questa mia lettera in Cairo, ma non avendola finita per alcune gravi occupazioni sorvenute, venne il mio trasporto in Suez; qui poi dopo alcuni giorni sono stato preso dalle febbri, le quali mi fecero perdere altri otto giorni, di maniera che dal sette corrente mi trovo oggi 24. Giorno di S. Giovanni meglio in salute dopo una bella [bella] dose di kinino.

F. 124v In questo frattempo accuso ricevuta della Sua ultima, per rispondere alla quale ci sarebbe troppo da dire, ma nello stato di debolezza in cui mi hanno lasciato le mie febbri, ed i calori che incominciano a spiegarsi non mi permettono di più aggiungere. Le dirò solo che sento nel cuore mio una vera emossione nel rileggere la Sua lettera. Ella mi conosce e potrà interpretare tutto quello che vorrei dirLe, e farne ancora da interprete a Madama d’Abbadie. Non Le rispondo sulla questione da Lei fattami rapporto alla grammatica, e ciò per due ragioni, prima perchè non ho capito bene ne il termine ne la difficoltà fattami; secondo, perchè sono risolto di rimettere la cosa a Lei; se Ella con una tal quale certezza crederà di correggere qualche cosa, ho già detto, che, non solo è padrone, ma mi farà un gran piacere; Le ho detto che ho tutta la confidenza in Lei, e glie lo ripeto. In quanto alla posizione politica e diplomatica dell’Europa si ricordi delle conferenze che abbiamo fatto in Parigi, e pensi, che è imminente l’epoca in cui Iddio umilierà la medesima al di là di ogni nostro calcolo e timore servendosi dell’istesso nostro orgoglio chiamato progresso; ai nostri posteri resterà in eredità colla miseria estrema, l’orgoglio e grandi bisogni come suol accadere agli eredi di grandi monarchi detronizzati; lo spirito di apostasia che lavora da tre secoli è arrivato al suo colmo ed ha tirato sopra di noi i tempi di Geremia e di Daniele; il Papa, cioè quella madre vecchia confinata in un’angolo e disprezzata dai suoi figli scapestrati, raccoglierà una seconda volta gli avanzi del gran colosso e lo rifabbricherà ad un[’]epoca un poco più rimota; ciò Le basti, o caro.

Non è ancora fissato il giorno della mia partenza da Suez, ma sarà presto e non so se potrò scriverLe ancora, avendo molte lettere da fare. Mi saluti tutti; dica a Madama d’Abbadie che io penso ad /394/ essa come alla mia madre, ed Essa pensi a noi; l’abbracio nel S. crocifisso e sono sempre tutto Suo

Divot.mo Servo
Fr: G. Massaja V.o