Massaja
Lettere

Vol. 4

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Al Cardinale Alessandro Franchi
prefetto di Propaganda fide – Roma

F. 478rEminentissimo

[Liccé – Scioa, novembre 1877]

Benché non abbia mancato mai di scriverLe ogni qualvolta si è presentata l’occasione per la costa, come siamo accostumati a calcolare le nostre lettere per la più parte perdute, attesa l’incuria e mala fede dei corrieri; oggi presentandosi la partenza del Capitano Martini, il quale deve recarsi in Italia ed a Roma, pregato da questo re Menilik, credo l’occasione più sicura per farLe conoscere lo stato attuale di questa missione, e raccomandarLe alcune cose già esposte in altre mie precedenti. Questa povera missione è sempre tribolata per la mancanza delle strade e difficoltà di communicazioni coll’Europa. L’anno scorso il P. Giovanni Damasceno, come saprà, restò vittima, e morì circa a metà strada tra il mare di Zejla, e lo Scioha, oggi una simile disgrazia ci arrivò pochi giorni sono colla [morte] del fu P. Alessio, deceduto di qua dell’Awaz, vale a dire sul momento /314/ di toccare i confini di questo regno, ancora fra le tribù nomadi dei Dancali. Questa seconda perdita è tanto più da deplorarsi, perchè non mancherà di seminare pregiudizii di scoraggiamento, sia fra noi qui, sia ancora in Francia. Io non so più cosa dirmi, vengono abbastanza sicuri tutti gli uomini di mondo, mentre i nostri soli sono vittima. Dobbiamo attribuire in parte una tale perdita a mancanza di esperienza di mondo, ed in parte anche ad una inopportuna tenacità per l’osservanza della regola sul punto della cavalcatura, e del maneggio del denaro. Questi due Padri missionarii, se fossero arrivati qui sarebbero stati un vero tesoro, ed avrebbero salvata la missione da una perdita forze irreparabile per mancanza di soggetti; i poveretti guidati da uno spirito troppo tenace, si sono fissati di voler venire a piedi, et quidem senza certi adminicoli sotto la pressione di un sole, e di un calore infuocato. Più non contenti di esporre se mede- [f. 478v] simi al pericolo della morte, per due volte [han] perduta una quantità di effetti e denari per troppa tenacità ed inopportuna osservanza della regola rapporto al danaro ed alla proprietà: quest’ultimo segnatamente portava con se circa venti casse di effetti di chiesa, i quali avrebbero bastato per tutte le nostre cappelle, tutto andato perduto per innesperienza, e per aver dato le chiavi delle medesime, e così aver sollevato la cupidigia di certi indigeni deboli, con pericolo di far loro desiderare la morte dello stesso missionario... Le congregazioni di Roma danno certe facoltà con certe clausole che legano la conscienza dei missionarii più timorati, epperciò i migliori; secondo me, sarebbe molto meglio mettere ciò nelle mani dei Superiori, esortandoli ad essere larghi o stretti secondo le circostanze, e nei casi tanto eccezzionali, come è appunto il passaggio di questo deserto, di non mancare di munirli di precetto ubbidienziale al uopo, calcolata la conscienza delicata dell’individuo, ed il bisogno tutto eccezzionale... Voglio perciò sperare che l’Em. V. R.ma non mancherà di scrivere al nostro Commissario di Francia in proposito, affinchè non arrivino più simili disordini. Questa povera missione, per mancanza di soggetti, ha già dovuto chiudere alcuni stabilimenti del Sud: io vecchio sono obligato a fare ancora tutti gli ufficii del ministero; molti missionarii sono vecchj ed infermi; se perciò andiamo di questo passo la missione è perduta, epperciò perdute le mie fatiche di 32. anni, e quelle di M.r Coccino mio compagno, e di molti altri missionarii venuti con me o poco dopo di me.

Questo re Minilik l’anno scorso aveva spedito lettere e regali a Sua Santità col mezzo di un certo Pietro Arnus negoziante Francese; arrivato questi alla costa di Zejla gli furono sequestrati tutti gli effetti dal governo egiziano; i regali del S. Padre furono consegnati al console Francese di Aden. Oggi questo Re medesimo, rinnovata la sua lettera, ordina che i detti regali siano consegnati al Capitano Martini, il quale s’incarica di presentarli al S. Padre. Se questo Signore si presenterà all’Em. V. R.ma, La prego di presentarlo al S. Padre medesimo, e fare in modo che sia ricevuto convenientemente; Questo Re Minilik si trova oggi molto imbarazzato per certe crisi sia interne, che esterne per parte del governo egiziano /315/ confinante. Se Iddio lo ajuterà per sbrigarsi delle medesime, sarà certamente favorevole alla missione, [f. 479r] come è sempre stato per il passato. Nella lettera perciò che immancabilmente gli farà il S. Padre non manchi di ringraziarlo di tutto ciò che ha fatto per noi, e lo animi a continuare. Dopo le formole di ringraziamento una piccola esortazione alla sua persona ed al suo paese non sarebbe fuori di proposito. Minilik non è cattolico, e forze neanche nel fondo cristiano, perchè, educato alla corte di Teodoro, dove si trovavano degli stranieri, anche europei di tutte le odierne opinioni, ha bisogno di essere toccato un tantino in questo senso, ma dolcemente nel suo particolare. Il suo paese poi, nella parte che si dice cristiana, fra cui avvi una grande ignoranza, e regna la superstizione Galla, persino nelle Chiese, in caso che il S. Padre credesse bene di dire qualche cosa, e diriggere qualche parola abbia l’occhio a toccare senza ferire. Presentemente lo Choa conosce il cattolicismo, e molti che lo conoscono più da vicino arrivano anche a desiderarlo, convinti che la salute si trova solo in esso, ma un paese, dove tutto è abitudine, e tutto è senso materiale, le cose camminano molto adagio; io spero che una lettera ben fatta potrà fare del bene. Nel caso che si risolva di mandare qualche regalo, di necessità dovranno essere cose di chiesa, come calici, turriboli, crocifissi, corone nostre, cioè rosarii di lusso, perchè sono già abbastanza conosciuti anche dagli eretici; qualche corona imperiale d’argento dorato con pietre anche false non sarebbe mal veduta; fra le nostre vesti di Chiesa non vi è che il piviale che piace: debbo però farLe osservare che gli oggetti di chiesa è possibile che siano dati alle Chiese eretiche, epperciò bramerei che vi fosse il nome del S. Padre scritto sopra in lettere etiopiche. Come tali oggetti saranno dati dal Re a qualche grande Chiesa, in queste grandi chiese la fede cattolica è già molto conosciuta, e spero che farà del gran bene nell’opinione publica, avendo dovunque dei nostri partigiani. Fra i regali che riceverà il S. Padre avvi un libro intitolato l’Arganon, è un libro spirituale del paese molto conosciuto, nel quale vi sono degli errori, e delle cose poco convenienti. Se può essere utile a Roma lo sarà per il tipo di bella scrittura Abissinia, se poi non lo sarà per giudicarlo, essendo di simile tempra quasi tutti i libri spirituali che vi si trovano.

Mi trovo poi obligato ad entrare in una questione molto grave, e talmente grave, che ho creduto di prendere sopra di me alcune provvidenze provvisorie sino a tanto che Roma non avrà potuto esaminare a fondo la questione e pronunziare in proposito. La questione è quella della Messa del rito etiopico. Monsignore Dejacobis mi esternava già al suo tempo molte pene e molti dubbj, quali non so come siano stati risolti. La difficoltà di communicazioni tra lo Scioha ed il Tigre ha fatto che io non ho potuto [f. 479v] rendermi conto di tutte le operazioni fatte colà. Ad ogni caso è bene sapere che il clero eretico del Tigre è naturalmente più istruito di questo dello Scioha, sia perchè è più in communicazione colle cristianità d’oriente, sia ancora, perchè la lingua popolare del Tigre, essendo un Ghez corrotto, dal momento che sanno leggere comprendono il libro sacro con tutto /316/ il capitale dei libri che esistono in paese, laddove qui il prete è un paesano che sa malamente leggere la lingua sacra senza comprenderla affatto. Di qui nasce quell’ignoranza dei misteri anche principali della fede. Il Prete di Scioha ignora affatto le forme dei Sacramenti, epperciò quali siano le parole della consacrazione nella Messa, semplicemente recitata o cantata con tutte le sue poche rubriche che ha, e nelle piccole chiese, anche mutilata. Tutto lo studio qui è nel canto divenuto come Sacramento; quando nella chiesa sono cantati alcuni pezzi di uso, se la Messa non fosse neanco detta, poco male. Il santuario affatto chiuso al publico si presta molto all’abbandono totale di tutte le ceremonie, e per mutilare la Messa stessa. Qui tutto è abitudine, e le superstizioni più grossolane passate in uso diventano cose dogmatiche, anche per i preti, ai quali inutilmente si cita il vangelo, oppure i canoni, i loro dogmi sono le corruzioni e superstizioni. Per darLe un’idea di questa grande ignoranza, e dell’orgoglio di questo clero Le dirò che qui si dice la Messa con sette grani di zebibo macinato e messo in un bicchiere d’aqua prima della Messa; zebibo fatto con dell’uva non matura, il quale macinato diventa farina; ho avuto bel dire in dieci anni, ma nulla ho potuto ottenere, perchè inutilmente si cita il vangelo. Il pane destinato per la Messa presenta anche un’ammasso di stravaganze. Un cestino di pane è fatto nel Betlemme, di là si porta processionalmente al Santuario; da questo si scelgono tre pagnotte, per la liturgia; dopo la Messa il cestino è riportato processionalmente al Betlemme, dove se lo mangiano i preti ed il clero: il popolo crede fermamente che tutto sia consacrato; per mantenere fermi tutti questi pregiudizii il Betlemme è luogo più sacro del Santuario stesso, e nessuno può penetrarvi. Anche in certe Chiese dove ho avuto molta influenza ho avuto bel dire, ma nulla ho potuto ottenere. Ho esaminato poi attentamente tutte le Messe dell’Abissinia che sono 14. e le ho esaminato coi più dotti del paese, alcuni dei quali sono cattolici nostri, ed anche Preti. Io non posso sapere le correzioni fatte a tutte queste Messe dalla missione del Tigre, come altresì non posso giudicare se le Messe cognite del Tigre siano come queste di Scioha; in un paese, dove ciascheduno può scrivere come vuole, levare ed aggiungere a suo piacimento, perchè avvi nessuna autorità che vegli all’integrità dei libri anche i più normali, può darsi che i libri delle messe in uso abbiano qualche differenza: il fatto certo si è che le Messe esaminate da me sono un vero bolus senza ordine, senza [f. 480r] unità di azione, ed affatto senza esattezza di materie. Appena si trova una tracia di oblazione rapporto alla sola materia del pane. Il complesso della consacrazione è diverso in quasi tutte le messe cognite nel paese, sia nella sostanza delle parole della consacrazione stessa, sia ancora nella parte storica che precede, nella più parte delle Messe affatto lasciata. In tutto il resto poi non è che una lode vaga mille volte ripetuta all’uso orientale e coranico: nessuna domanda, nessuna oblazione, quasi nessuna preghiera. Certe [azioni] materiali poi anche innamissibili. Ecco poco presso l’idea della Messa Abissinia come si trova qui. Vedendo questo, da alcuni anni a questa parte dacché /317/ ho incomminciato ad occuparmene ho preso il partito di far la Messa latina con tutta l’esattezza che mi è stata possibile, con tutte le sue rubriche, il testo in lingua Ghez, e le rubriche in amarico. Lo scopo di questo mio lavoro era unicamente di dare al paese una vera idea della Messa, pensando col tempo di ridurre a questo ordine le Messe del paese, trasportando, levando, ed aggiungendo secondo il bisogno. La Messa tradotta da noi è la Messa della Madonna ut in festis per annum, col canone e tutto, come nel messale nostro. Appena questa Messa fu conosciuta piaque immensamente a tutti i pochi dotti di Scioha, segnatamente ai nostri cattolici, i quali hanno preso un vero disgusto per tutte le Messe loro. Qualcheduno ha già incomminciato a scriverla nel messale del paese, come la quintadecima.

Noti ancora, che fin qui nello Scioha dai nostri cattolici non si è detta ancora la Messa etiopica, la Messa latina è passata affatto in uso, venerata e rispettata da tutti; anzi molti desiderano di fare la communione da noi, intendo fra le persone di qualche capacità; debbo poi aggiungere che il regno di Scioha tutto misto di Galla, fra i quali è oramai sanzionato il rito latino si presta molto a questo rito medesimo.

Per formarsi un’idea giusta in questo affare noti ancora che la Missione arriverà mai a domare e regolarizzare le chiese di Scioha, nelle quali, segnatamente fra il clero, regna come in trono la superstizione, la magia, la lussuria, e l’ivrogneria, almeno per un mezzo secolo. Io ho tentato tutte le vie per regolarizzare qualche chiesa; qualcheduna vicina a me, il suo capo è cattolico, anzi prete conosciuto, con tutti i sforzi che abbiamo fatto, nulla abbiamo ottenuto. Il suo capo viene da noi con molti dei suoi aderenti nelle feste alla Messa, ma il clero non si arrende affatto, neanche mi riuscì di fargli abbandonare alcune superstizioni e disordini madornali: la ragione è, che in questo paese il prete non [f. 480v] è eletto ne dal vescovo ne dal popolo, ne da altri, ma è ereditario, morto il padre che funzionava, fosse bene un briccone, con un’ordinazione di nome entra in funzione; così sono tutti gli altri funzionarii della Chiesa, sempre divenuti tali in virtù del terreno ereditario. Una Chiesa per piccola che sia ha sempre una decina almeno di questi inservienti beneficiati ereditarii, una gran Chiesa arriva ad averne anche 200. o 300. Questa gran Caterva di clero è indomabile. Qualcheduno di questi divenuto cattolico è obligato a pagare un’altro per far servire la Chiesa. La posizione ecclesiastica è divenuta qui una semplice posizione civile; fra loro il carattere spirituale è nullo; quando cerchiamo di ragionare questa gente confessano loro stessi che hanno mai pensato all’anima loro, come risponderebbe un soldataccio dei nostri paesi. Per questa ragione giammai una Chiesa di Scioha sarà domata per la missione, almeno per un mezzo secolo, quando la moltiplicità dei cattolici, sarà obligata dal sentimento publico.

Per questa ragione io ho preso la via di fare per quanto posso delle cappelle, nelle quali si dice la Messa privata, e si amministrano i Sacramenti a misura che avvi il bisogno. Se io avessi una quantità di buoni preti in dieci anni, senza questionare affatto, mi sentirei /318/ di degradare talmente queste chiese col solo nostro ministero, da obliga[re] il publico ed il governo stesso ad abbandonarle, perchè già attualmente sono molto cadute nella stima publica. Ciò che abbiamo detto delle chiese, si dica dei monasterj e di tutto il sistema monacale del paese, se mi riuscisse di fare qualche monastero nel senso cattolico. Il cattolicismo qui nel sentimento publico ha fatto dei progressi incalcolabili; la più parte degli uomini sensati sono persuasi che la via più sicura per chi cerca salvarsi è fra noi. Posso dire che questa forma tutta la nostra speranza avvenire; sotto l’umbra del Re Minilik siamo arrivati ad un segno tale che difficilmente una crisi potrebbe distruggerci; ancora una decina di anni l’elemento cattolico diventa un’elemento indigeno consacrato dall’abitudine, la quale fra questi popoli vale più che la stessa legge. Da principio ho fatto due preti di rito etiopico in virtù delle autorità ricevute in Roma; questi preti sono dei più dotti e rispettabili del paese, i quali impediti dalla loro posizione alta non hanno potuto essere molto utili alla missione per il ministero in detaglio, e la stessa loro posizione gli ha impediti di avvicinarsi per l’istruzione, di cui avevano bisogno, ma la loro condotta è sempre integerrima e la fede invitta; come sono oracoli nel paese in questo senso han fatto del gran bene: sono tutti due monaci. [F. 481r] Ultimamente ho fatto un prete, il quale era un’antico professore di Ancober; questi ha dato il buono esempio di abbandonare la sua posizione per mettersi alla mia sequela; ha passato più di tre anni con me, e così ho potuto istruirlo. Come è un grande apostolo in detaglio, tutti mi domandano di lasciarlo celebrare in etiopico e dargli un nostro oratorio. La sola difficoltà è la Messa etiopica per le ragioni dette sopra, perchè egli stesso non l’ama. Come ci vuole degli anni ad avere una risposta da Roma, ed io mi trovo in grave bisogno di lui per il ministero, è probabile che mi risolva ad inserire il canone latino nella Messa detta della Madonna nel rito etiopico; così poco per volta accostumeremo il clero etiopico alla regolarità, sia delle ceremonie, sia alla sostanza della Messa, e ciò sino agli ordini di Roma solamente. Monsignore Dejacobis, prevenuto dai disordini anticamente arrivati ai missionari della compagnia di Gesù si è lasciato guidare da un timore panico forze troppo esaggerato. L’Abissinia di oggi non è più l’Abissinia antica sopratutto qui in Scioha. Se vogliamo fare qualche cosa di regolare dobbiamo qui incomminciare ab ovo, altrimenti la corrente del paese ci porta ad approvare e sanzionare indirettamente tutte le corruzioni del paese; è questa la ragione, per cui ho tardato sino al giorno d’oggi ad entrare in questa questione; tutti mi dicono, che se non facio io questo passo coll’ascendente aquistato in tutta l’Abissinia in 32. anni difficilmente un’altro potrebbe; prego perciò l’Em. V. a lasciarmi fare. Si persuada che amo il bene, e nel momento in cui scrivo sono ammaestrato da un’esperienza che mi mette abbastanza in diritto di operare.

Non Le parlo del clero latino; ancora non ho fatto preti del rito latino, ma mi trovo con tre diaconi, un sudiacono, e molti minoristi. La morte di questi due missionarii mi obligherà a farne /319/ ben presto due o tre per provvedere ai paesi Galla del Sud, i quali ne hanno molto bisogno, altrimenti avrei ancora ritardato per provargli meglio. Nelle missioni del Sud vi sono quattro preti indigeni, il P. Leone a Ghera, e Monsignor Coccino a Kafa. A Kafa per la morte del fu bravo Sacerdote indigeno Michele Hajlù ho dovuto prendere Monsignore Coccino, che governava le missioni di Lagamara e Gudrù, per metterlo colà, essendo Kafa un luogo molto importante, e che promette maggior sviluppo, quando potremo più direttamente coltivarla.

[F. 481r] Rapporto a questa missione di Scioa non dimentichi ciò che Le ho scritto relativamente ai limiti col Vicariato abissino. Tutti gli alti piani del regno di Scioha sono Galla, e le valli sono cristiane di nome; le città reali, ad eccezzione di Ankober che è abbandonata, sono tutte in paesi Galla, epperciò è molto difficile segnare i limiti dei due vicariati in questo regno. Minilik avendomi trattenuto come per forza io ho dovuto fare qui molti sacrifizii; come Le dissi sopra, l’operazione fra gli stessi cristiani è di natura tutta diversa dal Tigre; se quel Vicario Apostolico mandasse qui qualche suo Prete, sopratutto indigeno, difficilmente entrerebbe nei miei calcoli, epperciò Dio sa cosa avverrebbe. Ella nelle Sue decisioni abbia ciò in vista, e poi facia come crederà, perchè io lascierò sulle sue spalle tutte le questioni che nasceranno. L’Egitto minacia d’impadronirsi di tutta l’Abissinia sino a Kafa; già ha riempito il paese di emissarii; bastano queste tribolazioni senza sollevarne ancora delle altre domestiche. Per parte mia, vicino a compire 70. anni di una vita molto penosa, sarà poco quello che mi resterà.

Debbo poi pregarLa di farmi rinnovare le patenti delle facoltà, tanto ordinarie che straordinarie, per cui ho già scritto; dette facoltà mi sono state date per un decennio; ho ricevuto la conferma nell’anno 1860. Ora sono due anni dacché ho scritto, ma dubito che la mia lettera non Le sia arrivata, epperciò rifletta che sono alla fine del terzo decennio, ed esercito le facoltà interpretando.

Non voglio attediarLa di più, epperciò pregandola a volermi compatire se sono stato troppo lungo, La prego della Sua benedizione sopra tutti questi poveri popoli, e segnatamente sopra il debole clero tanto europeo che indigeno, mentre con tutto il rispetto e venerazione godo raffermarmi.

D. Em. V. R.ma

Divot.mo Servo e Figlio in G. C.
Fr: G. Massaja V.o

P. S. In caso di mandare qualche regalo potrà sempre conferire col Capitano Martini, e sentire il suo parere.