Massaja
Lettere

Vol. 5

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A monsignore Serafino Cretoni
segretario della Sezione Orientale – Roma

P. 7 Eccellenza Ill.ma e Rev.ma

* Frascati il 31 Maggio 1882.

Rispondo ai quesiti propostimi nella preziosa visita di che volle onorarmi l’Eccellenza Vostra Ill.ma e Rev.ma l’11 corrente.

Per venire ad una conclusione pratica la via più spediente mi pare quella di raccontare i fatti di cui io fui testimonio e parte, e le indagini fattevi sopra.

Partendo da Roma nel 1846 io aveva ordine di fermarmi in Abissinia e facoltà di ordinare in rito latino gli aspiranti abissinesi, colla condizione che rimanessero nel loro supposto Rito etiopico; come si potrà verificare dai documenti che suppongo registrati in cotesta Sacra Congregazione di Propaganda, dalla quale me ne fu spedita copia. Così furono da me ordinati circa quaranta giovani presentatimi dal prefetto apostolico Sig. De Jacobis. Benché io fossi semplice esecutore degli ordini superiori, e non giudice della idoneità degli ordinandi, tuttavia e per mia erudizione, e per non agire totalmente alla cieca, feci loro alcune interrogazioni. Siccome /382/ cioè tra gli ordinandi ve n’erano alcuni già ordinati nell’eresia, credetti doverli esaminare per farmi un criterio sulla validità o nullità degli ordini precedenti. Alcuni Diaconi mi risposero che il Vescovo (Abùna Salàma), fattosi un momento [p. 8] sulla porta, fece un segno di croce sopra un buon numero di ordinandi, come per benedirli, e senza nulla dire li congedò. I Preti poi deposero che, chiamatili nel cortile, il Vescovo lesse seduto qualche minuto in un libro, e soffiando sopra i medesimi li congedò. Ma tanto i Preti, quanto i Diaconi, nell’atto di essere congedati furono proibiti sotto pena di scomunica di parlare del ceremoniale usato nell’ordinazione. Da più altri esami fatti in seguito potei accertarmi essere stato questo il ceremoniale ordinario usato dal vescovo Salàma in tutte le sue ordinazioni. Il suo predecessore Cirillo faceva qualche preghiera di più, ma sempre fuori della Messa, e presso a poco come il Salàma, senza l’osservanza di una liturgia. Questi Vescovi Abissini venuti dall’Egitto, per giustificarsi su questo punto, parlando con Europei o Levantini più istruiti, solevano dire che, essendo l’Abissinia di altro rito, dovevano ivi osservare l’uso del paese, e non il rito copto. Con ciò provavano che il rito copto era considerato da loro come diverso dall’abissino, e che questo non aveva liturgia per l’ordinazione dei chierici.

Di fatto più tardi (nel 1851) vedendo il vescovo Salàma che i Missionari cattolici si stabilivano nei paesi Galla, pensò di mandarvi anch’egli dodici de’ suoi preti per farci un contrapposto. Alla testa di questa spedizione si trovavano Abba Marcos egiziano, ed Abba Fessah monaco abissino allevato nella casa dello stesso Salàma. Questi due, conoscendo dall’un canto le ordinazioni copte dell’Egitto, e dall’altro vedendo come Salàma le conferiva nell’Abissinia, dichiararono di non poter accettare se non a condizione di essere ordinati come si usa in Egitto. Salàma aderì a condizione che si facesse segretamente. Così celebrò la Messa (probabilmente l’unica volta in Abissinia) in lingua copta; ed infra Missam fece l’ordinazione secondo il pontificale copto; come più a lungo io racconto nella storia della mia Missione, quando riferisco la conversione di questi due al cattolicismo per mezzo di Monsig. Biancheri in Gondar, dal quale mi furono mandati in Gudrù per esser messi in regola di ordinazione. Da questi ed altri fatti si vede che i vescovi eretici di Abissinia non hanno una forma liturgica etiopica determinata, ed occorrendo ordinare sogliono farlo in rito copto; che se tal forma esistesse, non oserebbero sì facilmente arbitrare come sogliono.

Rispetto poi a tutte le altre funzioni sacerdotali, io, prima di [p. 9] procedere all’ordinazione dei giovani, così interrogai Monsig. De Jacobis, allora semplice Prefetto: « Questi ordinandi una volta divenuti sacerdoti in qual rito eserciteranno il loro ministero? e con quali forme liturgiche lo eserciteranno? » Ecco la risposta ch’Egli dette al doppio quesito: « In Abissinia non esiste altra liturgia che un formulario del Battesimo conosciuto ed osservato in tutte le chiese. Esistono inoltre quattordici Messe, che si adoprano ad arbitrio del Clero nel celebrare, senza determinazione di giorno o festa. /383/ Io penso di rivederne una, correggerla, e darla ai novelli sacerdoti per la celebrazione delle Messe private. Per tutti gli altri Sacramenti, incominciando dalla Cresima, non essendo conosciuta altra liturgia, fin qui noi li abbiamo sempre amministrato in latino; ma in seguito io penso di tradurre in gheez la stessa liturgia del nostro Rituale per uso di questi sacerdoti indigeni. » Dal che si vede che in Abissinia liturgia etiopica non esiste se non pel Battesimo e la Messa. E di questo mi chiarii poi vie meglio io stesso parlando con dotti anche di altre Provincie.

Discorrendo altra volta a miglior agio con quel venerando Prefetto, gli mossi questa più vasta interrogazione: « Posto che questo paese è come imparentato colla nazione copta, ed è obbligato di servirsi del rito copto per le ordinazioni, non sarebbe meglio introdurre qua un Clero copto cattolico? » Ecco la risposta che mi dette piena di sapienza e d’esperienza: « Ella suppone che l’Abissino fraternizzi col Copto; ma è tutt’altro: l’Abissino è un popolo che vive di abitudine; esso è ignorante e sprezzante di tutto che si passa nel mondo; ma nel suo paese è d’una superbia incredibile; è superbo con noi, ma forse ancora più superbo coi Copti. Si serve di questi come di schiavi, perché vili si piegano a tutte le sue abitudini e passioni. Soprattutto poi qua non s’addicono i Copti per la loro ignavia ed ingordigia. I Copti non sono galline da far uova, ma per mangiarle. Se fanno qualche proselito, lo fanno colla forza e colle brighe anziché coll’esempio e coll’istruzione apostolica. In ciò s’assomigliano a gran parte degli altri Levantini. » Di ciò non ci volle molto a convincermi dopo ciò che io stesso aveva esercitato in Egitto.

Tre anni dopo avendo io dovuto recarmi a Roma per affari della mia Missione e di quella di Aden, mi proposi di studiare meglio qua in Roma la questione del rito abissinese, [p. 10] per vedere su quali principii di autorità o tolleranza fosse basato, e così farmene un criterio per mia norma. Ma per quanto io consultassi dotti, e cercassi negli archivi di cotesta S. C. di Propaganda, non trovai nessun oracolo che mi mettesse l’abissino al grado degli altri riti orientali. Solamente alcune lettere e corrispondenze di Missionari supponevano questo come un fatto, e raccomandavano prudenza nel tollerare gli usi del paese. Dirò ancor di più. Nelle mie ricerche non ho neppur trovato che i pochi materiali del supposto rito etiopico non fossero mai stati approvati, come sarebbe desiderabile. Di tutto ciò io non mancai di dare conto per lettera a Monsig. De Jacobis, ed il Sant’uomo poco prima di morire mi esternava in lettere che io ricevetti un anno dopo la sua morte alcune sue pene in ordine a certi tollerati materiali liturgici, e segnatamente alla Messa abissina. Ma allora io era troppo lontano per occuparmi anche con altri di questo affare; e poco dopo quelle lettere andarono perdute nel mio disastroso esilio da Kaffa. Ad ogni modo questo servì a vie più stabilirmi nel fattomi criterio, che il rito abissino o etiopico non fosse un vero rito, ma solamente alcuni usi arbitrariamente introdotti, e tollerati provvisoriamente dalla Chiesa a fine di evitare mali maggiori. Né io credeva di dovermi mai più occupare di tale questione, /384/ perché il mio Vicariato era fuori dell’Abissinia e tra’ pagani da educarsi al rito latino.

Ma dopo il 1867 essendo io penetrato nello Scioah, vasto regno composto pei due terzi di Galla pagani dominati dalla razza abissina; e lì, mentre i miei missionari si occupavano dei Galla in rito puramente latino, obbligato io da re Menelik di rimanere fra i Cristiani di fede abissinese, e di occuparmi di essi, m’accorsi che i novelli cattolici frequentavano molto volentieri la Messa latina; ed io amministrava loro i Sacramenti in rito latino con grande soddisfazione dei proseliti. Lì pure a mia grande consolazione ed edificazione del pubblico tre dei più dotti ed autorevoli del paese essendosi dichiarati cattolici, ed io avendo dovuto occuparmi della loro istruzione, la mia casa di Licee, villa reale di Menelik, divenne in breve il ritrovo di tutti i dotti e capi di religione dello Scioah. E là trovandomi obbligato di assistere per due anni a tutte le questioni religiose che si ventilavano da loro sui diversi partiti e le diverse sette che dividevano la casta cristiana di quel paese, potei impadronirmi di tutte le chiavi dogmatiche, ed anche politiche. La medesima questione dei [p. 11] riti fu messa in chiaro, e trattata con piena cognizione e convenienza. Eccitato da molti a prendere una iniziativa, la quale il Re stesso pareva favorire, io, ammaestrato dalle difficoltà sorte nel Tigrè, dichiarai ripetutamente che non avrei mai accettata l’amministrazione di chiese preesistenti nel paese; ma che per me sarebbero bastati alcuni oratorii a guisa di capanne, in cui avrei celebrato privatamente ed amministrato i Sacramenti alla latina. E così feci sempre; né mai, per quanto crescesse il numero dei proseliti fra i cristiani, mi lasciai indurre a celebrare in chiese del paese, aventi proprietà e diritti civili. Anzi dopo alcuni anni lasciai la città reale, e mi fabbricai una casa fra i Galla più vicini, dove sempre esercitai il mio ministero privatamente ed in latino, e dove riceveva indifferentemente allievi della casta cristiana e della Galla. Colà erano catechisti i primi oracoli di Scioah divenuti cattolici, e ad un tempo professori sotto la mia direzione delle scienze coltivate in paese.

Intanto per incoraggiare i nostri cattolici della casta cristiana, io promossi agli ordini alcuni di questi oracoli indigeni di rito etiopico, i quali dimostravano le migliori disposizioni. Allora nacque il bisogno di tornare ad occuparmi del rito, se non altro, per non aver l’aria di sprezzarlo e di volerli fare latini. Rispetto alla liturgia del battesimo conobbi tosto che poche correzioni bastavano. La gran questione era per la Messa, parte essenziale del culto esterno quotidiano, e là parte liturgica quasi unica più direttamente nelle mani del Clero. Il messale etiopico conta quattordici messe, ma appena una metà sono conosciute dall’uso. Né io, né i miei missionari avevamo così familiare la lingua etiopica da intraprendere correzioni di nostro arbitrio; ma avevamo con noi il fiore dei dotti dello Scioah ed in gran parte dell’Abissinia in materia di letteratura etiopica. Inoltre io aveva posseduto per più anni un manoscritto del P. Giusto da Urbino contenente di esse messe il testo etiopico e la traduzione /385/ in volgare amarico. Questo Padre aveva coltivata la lingua etiopica in modo particolare, come sanno i dotti in essa, ed attestano parecchi suoi scritti. Esso mi aveva anche mandato un suo lavoro sopra questi materiali liturgici, nel quale palesava un sodo apprezzamento pro e contro. Questi documenti, come anche le citate lettere del compianto Mons. De Iacobis, andarono perduti nel mio esilio da Kaffa. Ma io ricordava ed ancora ricordo la sostanza.

P. 12 Ciò premesso; io radunai tutti i miei oracoli cattolici più versati nella lingua etiopica, e sufficientemente instrutti nella materia da discutere. Insieme esaminammo le messe etiopiche più in uso, presente alcune volte anche il mio coadiutore Mons. Cahagne. « Studiamoci, proposi loro, di aggiustarne almeno una che possa servire pel momento, intanto si penserà alle altre ». La proposta, che pensava doverli solleticare, m’accorsi che non piacque; e taluno arrivò a dire essere più facile comporne una nuova tutta conforme alla Fede cattolica che non ridurne una delle antiche. Non potendo io arbitrare tanto, mi feci aiutare a tradurre una nostra messa latina in lingua etiopica colle rubriche in volgare amarico. Per assicurarmi che questa traduzione riuscisse esatta, la rifeci tre volte, servendomi in ciascuna di un nuovo dragomanno. Riuscita questa tutte e tre le volte sostanzialmente conforme, e quindi sicura, ne feci l’opportuna spiegazione sia nel senso dogmatico e sia nel mistico, affinché sapessero valersene allo scopo per cui gliela presentava. Questo era unicamente che la messa tradotta servisse di guida nella riduzione di una delle etiopiche. Nel consegnar loro quella messa tradotta io gl’invitava a fare in dato tempo ciascuno un suo lavoro, e poi a discutere insieme quale adottare. Ma essi, conosciuta e meditata la nostra messa latina così tradotta, invece di assumersi il lavoro proposto, concepirono una vera avversione alla messa etiopica. Fra le altre ragioni: « Noi, dicevano, prima di farci cattolici non sapevamo che la Messa fosse un vero sacrificio espiatorio e soddisfattorio; perché nella nostra liturgia non v’ha parola di questo. Se ciò ignoravamo noi, con maggior ragione debbono ignorarlo tutti gli altri eretici. Nella liturgia latina invece questa verità è lampante. Che dunque cercar di meglio? E poi qualunque lavoro sulla base della liturgia antica non farà altro che sollevare nuove questioni. Meglio perciò celebrare la messa latina tradotta. Trattandosi di messe lette, nessuno ci ha che vedere, come cosa che si passa nel Santuario. Quando poi sia il caso di messe cantate, allora ai nostri cantori cattolici si daranno salmi ed altri pezzi scritturali conformi per quanto si potrà alle messe nostre, come cose estranee al canone della Messa; e noi nel Santuario celebreremo secondo la liturgia latina tradotta. Se Monsignore può darcene facoltà, noi non vogliamo altro ».

Ciò sentito, io pensai seriamente al caso pratico; e benché di [p. 13] diritto ordinario io non avessi tanta autorità, calcolate però le difficoltà di avere pronte decisioni da Roma sia per la mancanza di comunicazioni dirette, sia pel tempo che ci vuole a Roma stessa per formarsi un giusto criterio, io credetti di potere così rispondere: « Io di diritto non ho questa facoltà: ma se voi mi giurate /386/ di adattarvi agli ordini di Roma, quando verranno, fin là io credo potervelo permettere, per non obbligarvi a restar senza celebrare per un tempo indeterminato con danno vostro e delle anime altrui ». E così lasciai quei preti che celebravano in questo senso quando io dovetti partire dalla Missione.

Dai fatti esposti risulta che l’Abissinia, supposta una chiesa con proprio rito, non è né una chiesa, né una provincia ecclesiastica, e neanche una sede vescovile di rito etiopico, essendo l’unico Vescovo dell’Abissinia un vero Vescovo copto (se bene ordinato), il quale, ordinato in copto, ordina gli abissinesi in copto, ed in copto amministra gli altri Sacramenti; perfettamente come noi latini là ordiniamo ed amministriamo i Sacramenti in rito latino. In secondo luogo risulta che l’Abissinia neppure si può dire di rito copto, avendo ella un po’ di liturgia a sé, imperfetta bensì, ma ben diversa dalla copta, per la quale anzi ha avversione forse più che per la latina. E la prova ne è che gli stessi preti venuti dall’Egitto col Vescovo, se vogliono celebrare in copto, debbono farlo segretamente. Risulta in terzo luogo che il supposto rito etiopico non è un vero rito, mancando della massima parte dei formolarii liturgici per esser tale; e la stessa messa non essendo che una filza di preghiere di dubbia fede, che non esprimono neppur l’idea di sacrificio. La Chiesa, maestra infallibile, e sovrana padrona nelle cose di diritto ecclesiastico, potrebbe anche, ad vitanda malora mala, autorizzare questa larva di rito come rito vero, siccome ha fatto con altri riti, privandosi della unità di liturgia, più desiderabile che la varietà. Di ciò non v’ha dubbio. Ma la questione ora è se la Chiesa abbia già data questa approvazione. Io cercai diligentemente quest’oracolo, ma non lo trovai; ne dimandai a persone dotte, e non seppero indicarmelo. Ecco il mio criterio sulla questione « Se il rito etiopico sia un vero rito approvato dalla Chiesa. »

Con tutto ciò, dicendo io che il rito etiopico non è un rito completo ed approvato, non intendo dire che esso debba essere proscritto. Se la Chiesa non l’ha ancora approvato, non ignora [p. 14] però certamente la sua esistenza; epperciò è da dire che essa lo tollera e permette almeno col fatto, se non col suo oracolo. Quindi finché sussistono le ragioni per cui lo ha tollerato finora, deve sussistere la medesima tolleranza. L’orgoglio nazionale padre o tutore di questi vari riti, i quali intralciano e rendono difficilissimo l’apostolato nel povero Oriente, è altresì origine infausta dell’informe rito etiopico; ed è là per rendere più malagevole la conversione di quell’infelice paese; è là che serve di scudo allo scisma ed alla eresia per impedire le tendenze del popolo verso la Chiesa madre. Se nelle altre chiese orientali la diversità di rito rende più difficile l’apostolato, almeno esistono alcune ragioni di grandi memorie e nobili varietà per onorarlo in esse. Nell’Abissinia invece né eleganza di forma, né bello estetico, né commendevole tradizione, ed oggidì neppure capacità di perfezionare quell’informe aborto.

In Abissinia adunque rispetto al rito, la Chiesa fin qui si è tenuta in una prudente tolleranza; e così fa bene a tenervisi ancora fino /387/ a miglior indizio, per non dar pretesto a questioni. Solamente, secondo me, non essendo rito, non conviene favorire la pretensione di divenir tale con decisioni autentiche in suo favore. Altrimenti a forza di concessioni diventerà ciò che non è; ed i nostri stessi allievi, assuefatti al privilegio, acquisteranno tutte le pretensioni dell’esclusiva in materia di giurisdizione, come avviene nei riti orientali.

Ciò per ora, grazie al cielo, non esiste in Abissinia; ma verrebbe in conseguenza di concessioni, per rendere poi quasi impossibile l’educazione cattolica di quei poveri paesi. La varietà dei riti, secondo me, che studiai con qualche attenzione l’Oriente, non è una bellezza, ma, oggidì almeno, un impaccio nella Chiesa. Essa vi si rassegna come ad un minor male, per non perdere un povero popolo. Ma dove non esiste non conviene crearlo; altrimenti, senza avvedersene, si aumenta il patrimonio dello scisma. Se in Abissinia esistesse un rito, converrebbe sostenerlo con tutte le sue conseguenze; ma poiché non vi esiste, non conviene crearvelo. Secondo me, le proibizioni di passare al rito latino, o di ordinare in tal rito, non sono misure necessarie. Meglio lasciare alla prudente discrezione dei Vicari apostolici.

Ho scritto un poco a lungo, tenendo la via del fatto, per informare cotesta Sacra Congregazione e somministrarle materiali da formarsi il criterio che nella sua saviezza crederà più equo [p. 15] in questa quistione. La via del semplice diritto sarebbe stata molto più breve. Ma la via di diritto dobbiamo impararla dall’oracolo infallibile di Roma, di cui mi gode l’animo professarmi.

U.mo Servo e Figlio
† Fr. G. Massaja Arc. Cappuccino.

[Questo scritto dev’essere collocato tra i nn. → 943 e → 944]