Massaja
Lettere

Vol. 5

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Al capitano Antonio Cecchi
membro della spedizione geografica italiana

P. 403Lo zâêr corrisponde a ciò che noi diciamo « spirito maligno » e zâêram a quello di « ossesso ».

Nel paese vi sono di quelli che soffrendo di una leggerissima epilessia, allorché ne sono assaliti, si credono invasati dal demonio; ed allora gli stregoni, profittando della crassa ignoranza di questi disgraziati, ordinano si ammazzi un montone di un certo colore, una gallina che abbia particolari penne e particolari colori, che si faccia bollire del caffè, ecc.; ciò facendo cantano e recitano cose misteriose, e questo, dicono, per placare lo spirito, il quale, naturalmente, lo si dirà partito, allorquando il povero ammalato per la cessata convulsione riacquista i sensi.

Un esempio di questo genere possiamo trovarlo nel seguente fatto, che mi raccontò un giorno mons. Massaja:

« Correva la sera del 17 ottobre, egli diceva, ed Auerâsh, donna di servizio nella mia casa, cadde malata; un poco di vomito fu il principio del male, indi seguirono forti gemiti, pianti e qualche dolore al basso ventre. Tali sintomi andarono successivamente crescendo fino a che ad essi sottentrarono strane e violentissime contorsioni di corpo.

Io mi spiegava ogni cosa con quei moti involontari dei muscoli, che anche nella nostra Europa producono specialmente nel sesso femminile sorprendenti stranezze. Così pensando mi tranquillizzavo, ma quando la misera cominciò a batter le mani, a cantare d’amore dolcemente canzoni non mai udite in bocca sua, me ne commossi fortemente e non sapea che dirmi di quanto accadeva.

Gli Abissini però non tardarono come me a trovare una spiegazione, ma dichiararono tosto che quello era uno zâêr. Eva, dicono essi, generò 30 figli, 15 buoni ed altrettanti cattivi; i cattivi sono le 15 malattie che entrarono nel mondo, una di queste è lo zâêr, il quale, come le altre 14 malattie, viene personificato, dicendosi di lui, ch’egli teme il ferro, l’ira degli assistenti e tutto ciò che vi è di santo o di benedetto; ed ama, al contrario, di essere adulato, desidera che la persona da lui posseduta vada sempre [p. 404] adornata e che a lui si consacri il sangue di certi animali, come capre, pecore o almeno di qualche gallo.

/399/ Persuasi adunque gli astanti, che Auerâsh fosse invasa da uno di questi zâêr, cominciarono secondo il costume a discorrere con lui e ad interrogarlo così: Da qual paese sei tu venuto? Quando t’impadronisti di questa infelice? E perché ardisti di venire in questa casa, che è casa di uno che è monaco e prete?

— Vengo di Colieh1 egli rispose: sono tre anni che nel mercato di Marsebit2 io entrai in questa donna, nell’atto che fra le sue treccie essa infigeva odorosi fiori, e son venuto in questa casa perché non mi divido mai dalla mia cavalla3. — Ora che desideri? soggiunsero gli interlocutori, vuoi tu qualche bevanda? Ami ti sia portato il caffè col miele? — Sì, siami tosto preparato, ma non è mio costume berlo addolcito, e voi lo sapete che io fui educato prendendolo puro4.

Pronta che fu questa bibita, non volendo il garzone, che la presentò, usare scientemente le cerimonie musulmane, Auerâsh, presa la prima tazza, versolla a terra, ne gettò la seconda sulla veste del medesimo, e solo cominciò a bere alla terza, quando il caffettiere cioè preso da timore disse: Caha-geva, parole a cui ella rispose, Allah-geva, bareca-geva, aman-geva5, e sorridendo bevette.

Dopo di ciò le si diede a masticare foglie di ciat, che è cosa assaissimo amata dai musulmani. Tutto questo non valendo che a farle ripigliare con lena maggiore le sue canzonette e le sue contorsioni e i suoi clamori, si pensò di ungerle il capo e ciò in conseguenza di quello, cui abbiamo già detto, che lo zâêr desidera il bello nella persona da lui posseduta.

Portata pertanto la cassettina dove ella soleva tenere i suoi composti untuosi e odoriferi, la prese, la sciolse dai suoi legami, [p. 405] trasse fuori lo specchietto e quant’altro le era necessario, e colle varie misture si unse per bene i capelli.

Ma dopo ciò, ritornando essa agli scherzi e ai canti d’amore, cominciai a pensare che quanto accadeami sotto gli occhi fosse effetto di una operazione diabolica, e a questo pensiero appesi al collo di Auerâsh il mio Crocefisso, imponendo allo zâêr di lasciare il linguaggio dei musulmani, prender quello dei cristiani ed uscire immantinente da quel corpo in nome di Gesù Cristo, dinanzi al quale si piega ossequiosa ogni potenza del cielo, della terra e dello inferno.

A tali parole, cosa meravigliosa! un repentino sonno si impadronì della povera inferma, la quale, dopo brevissimi istanti, rizzossi ritornata ai sensi, e con sole punture ai visceri e ai lombi, sintomi ordinari, dicono, che lo zâêr lascia nella vittima ogni qual volta venga fatto ammutolire per forza.

L’indomani, occorrendomi di dover fare una visita a Degiać Bescir, partii per Sedie, lasciando la serva in uno stato che non pareva desse a temere; ma l’apparenza era falsa e il miglioramento non fu di lunga durata. Io non avevo, come mi fu detto poi, fatto cento passi, che Auerâsh tornò al suo malessere, che durò sino al giorno vegnente, in cui tornai dalla visita.

Appena io fui nelle vicinanze della casa, un domestico vedendomi si mise a gridare: Il padrone è venuto. Al sentire queste parole Auerâsh die’ nel massimo furore, si mise immantinente a pregare /400/ tutti i circostanti che la lasciassero fuggire in una selva, per andare a gettarsi in un precipizio.

Deh! ella diceva, ch’io non abbia più ad incontrarmi in quel monaco rozzo, in quel burbero pretuccio di questa casa. Giunto, trovai infatti la povera inferma sulla porta della mia capanna, attorniata da moltissima gente, e, vedendola più smaniosa ed angustiata, fui preso da pietà e senza dare il buon giorno a chicchessia, silenzioso e dolente mi sono posto a sedere accanto a lei.

Ella non faceva più le solite contorsioni, né si dava a canti o schiamazzi; a ciò erano subentrati lacrime, dolori e perdimento di sensi. Le convulsioni, i canti, i clamori erano sfoghi dolcissimi che sollevavano la vittima, ed Auerâsh, non sentendosi ora, come dissi, da quelli eccitata, era in uno stato compassionevole.

[P. 406] Uno dei miei servi pensò di far chiamare due uomini, per vedere se essi sapevano in qualche modo procurare un sollievo alla povera vittima, giacché di quando in quando andavano soggetti allo stesso male. Vennero; uno era un vecchio di settantanni, sottile di corpo e piccolo di statura, l’altro era un uomo di media età, di statura ordinaria, ma di aspetto pochissimo simpatico.

Il primo munito di pipa e l’altro di staffile, cominciarono a discorrere collo zâêr, a persuaderlo e a pregarlo di uscire dal corpo di quella meschina; la quale, benché fuori dei sensi, rispondeva direttamente ad ogni cosa: solo tenevasi muta, quando le si parlava di sortita.

Alle preghiere fecero sottentrare gli incentivi e gli sfoghi, tanto che, in un linguaggio non inteso e a forza di sfigurarsi in mille guise, giunsero a metterla nella massima esaltazione e procurarle continuamente contorcimenti e clamori più violenti che mai. Con ciò ella ebbe alleggerimento alle sue pene, ai suoi dolori, discorreva con voce ordinaria, ma come i sonnambuli, perché l’alienazione mentale ancora continuava. Vedendo i compagni che avevano potuto ottenere ben poco, cessarono da ogni loro tentativo, protestando di non saperne in tale bisogna più in là.

Abbandonata così di nuovo a sé sola, l’inferma ora mettevasi in piedi ed ora a sedere, portandosi quando in uno quando in altro angolo. Accompagnava Auerâsh questi suoi movimenti cantando or una or altra strofetta; ciò che più di sovente ripeteva erano queste parole:

Andò salvo chi avea sostanze;
Ma io misera, ma io poverella!

Mosso da queste voci, uno degli astanti: « E che ti manca, le disse, di che hai tu bisogno? Eri nuda ed ora hai bella veste, in casa tua pativi la fame ed ora mangi quanto vuoi. Or dunque che cosa brami? È forse che ti manca l’ornamento di conterie? Se io te lo dò sarai tu soddisfatta?

Sì, questo è ciò che io amo, rispose lo zâêr, il vestire ed il mangiare non mi basta, ma, se mi darete i geneto1, io partirò [p. 407] /401/ quanto prima e non tornerò che nella festa di S. Michele di edar (novembre), nel qual giorno, se mi si verserà sangue, io lascierò affatto la mia cavalla e non comparirò che una volta all’anno per ricevere questo tributo 1.

S’infilarono in un cordone di seta ventiquattro grani di queste conterie, e appesi che le furono al collo, intimossi allo zâêr di partire all’istante. Auerâsh portatasi su di un vicino letticciuolo ed assopita si svegliò dopo pochi momenti, in pienissimi sensi e solo meravigliandosi come, quando e perché, le fosse stato posto l’abbellimento del chitab e geneto.

Passò così per due giorni il malessere di Auerâsh, e speravasi che almeno sino alla detta festa sarebbe continuata la sua salute; ma bentosto la povera donna tornò alle solite convulsioni e alle solite smanie, sebbene non così forti come le prime. Ogni rimedio fu inutile. Ond’è che mi stancai di più blandire e pazientare quella donna, la cui infermità mi diveniva ogni giorno più strana; ed una notte fra le altre, non lasciandomi prendere sonno per i soliti contorcimenti e grida, balzai di letto, e dato di mano ad una sferza di cuojo, mi portai di volo a quella, e datele due staffilate, ritornò immantinente in sé stessa, spargendo alcune lacrime e brontolando fra i denti queste parole: Che giorno fu mai quello in cui venni in questa casa, ove si danno sferzate per medicine all’infermo?!

D’allora in poi Auerâsh non ebbe più a soffrire alienazioni di spirito; solo qualche dolore, spossamento di forze e lacrime che spontanee grondavano senza che pianto di sorta le accompagnasse. P. 408 Mentre ciò accadeva, Auerâsh non faceva che caldamente pregarmi di metterla in libertà col licenziarla dal mio servigio, o almeno di permetterle qualche sfogo alla sua angustiosissima infermità. Ma io che m’ero proposto di mostrarmele per l’avvenire sempre severo, mi rifiutai ad ogni sua domanda, né mai più le concessi in mia presenza il minimo magurat, parola con cui gli Abissini esprimono ciò che noi intendiamo dire per: convulsioni, contorsioni di corpo, canti, schiamazzi, smanie e gli altri sintomi della accennata malattia.

Mi resta soltanto di far osservare, che lungo tempo durò l’intermittenza di questo male; Auerâsh, dopo essere stata tre giorni sopra un tettuccio nell’impotenza di muoversi e quasi non prendendo cibo alcuno, udita la morte di una sua parente, balzò di repente di dove giaceva e portossi al luogo dove trovavasi il cadavere, a circa due miglia di distanza.

Queste cose ho voluto ancora notare per dar motivo a qualcuno di forse pronunziare che il caso da me raccontato fondasi sopra una mera impostura. Io non voglio oppugnare tale giudizio a spada, come sul dirsi, imbrandita; protesto solo che, quanto notai, lo feci perché tutto vidi coi miei propri occhi; dopo aver dimorato per quattro anni in Abissinia ed aver trattate da fole del nostro trecento le storielle di tal genere che a mille a mille mi raccontavano ogni giorno; e dopo aver promesso danaro a chiunque mi avesse presentato /402/ un buda che mi mangiasse, o mi avesse fatto vedere una persona invasa da qualche maligno ganien 1 o posseduta dallo zâêr. »

Lo zâêr non si limita agli uomini solamente, ma vanno pure ad esso soggetti anche i muli ed i cavalli.

[Note]

I numeri di pagina sono del manoscritto, non della stampa

Note a P. 404

1 Paese posto tra gli Uorra-Haimanò. Torna al testo ↑

2 Altro paese fra i Uollo. Torna al testo ↑

3 Lo zâêr chiama sempre la sua vittima col nome di cavalla. Torna al testo ↑

4 Questo zâêr usava in tutto il linguaggio dei musulmani, i quali bevono amaro il caffè. Torna al testo ↑

5 Auguri di felicità che i musulmani usano premettere alla bibita del caffè. Torna al testo ↑

Note a P. 406

1 Così chiamansi le grosse conterie. Torna al testo ↑

Note a P. 407

1 È degno di nota ciò che gli Abissini fanno nel giorno di detta festa; non v’ha chi in tal solennità non versi il sangue d’un qualche animale, grande o piccolo, a proporzione della possidenza; i ricchi ammazzano una bestia bovina, quelli del medio ceto una pecora o capra e i poveri una gallina. Se in casa v’ha qualche ammalato, gli girano intorno l’animale ucciso quando sia piccolo e con tale pratica sperano di ridonargli la salute, dicendo di ottenersi con ciò pace dallo zâêr o da altra qualsiasi infermità personificata. Che se tutti quelli di casa stanno bene, il sangue viene versato sulla porta ad impedire l’ingresso di qualche malore. Molti, fatto preparare pane, vivande e birra, espongono tutto lungo la via, affinché il passeggiere assaggiandone a caso, prenda quella malattia da cui trovavasi affetto colui che aveva esposto il cibo suddetto. È perciò che in tal giorno nessuno osa andar per via temendo il solo incontro di qualche bestia uccisa, o d’altro che gli possa essere cagione di male. Torna al testo ↑

Note a P. 408

1 Il ganien è il diavolo dei fiumi, e si fa vedere in forma umana. Solo fra i Bestari contasi qualche mago che abbia commercio con esso e lo mostri a chi sentasi animo e gli dia una certa paga. Terribile allorché verifichisi questa comparsa poiché è nel rimbombo dell’armi, nel correre di frementi cavalli, nella maestà delle tende, che si dà a vedere il ganien quando gli incantesimi del mago lo fanno uscire dalle acque. Non è molto, mi fu detto, che è morto per ispavento un certo V. Principe, che, incredulo a queste cose, volle assistere con franco disprezzo ad una di queste diaboliche scene. Torna al testo ↑