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32.
Provvedimenti per il Kaffa. Contratto.
Eroismo di abba Joannes nel Liban-Kuttài.

concerti presi per le cose di Kafa. Fratanto, finiti gli esercizii spirituali, io ho potuto prendere tutti [i] concerti col P. Felicissimo; [p. 495] il solo Abba Baghibo colla sua grande influenza sopra tutti i principati galla dei contorni, ed anche sopra [di] Kafa, era quello che poteva aprirmi la strada per recarmi un giorno in quel paese per fare il mio ultimo dovere verso quel povero traviato, sia per salvare l’anima sua, e sia molto più per salvare quella missione altrimenti perduta. Il P. Felicissimo aveva guadagnato una sufficiente influenza sopra Abba Baghibo per determinarlo a trattare questa causa energicamente col Re di Kafa. Questo Padre, essendo più vicino a Kafa, doveva mantenere viva la corrispondenza col [col] sacerdote indigeno Abba Jacob per incoraggirlo a mantenersi saldo contro tutte le tentazioni che certamente non mancavano anche per lui; quindi anche per istruirlo sopra la maniera pratica di trattare la questione col Re all’oggetto di preparare la mia venuta colà. Aggiustati tutti questi affari col Padre Felicissimo, egli era impaziente di partire per la sua missione, ma io lo feci restare ancora qualche giorno, affinché fosse presente alla compra del terreno di Denquorò.

si conchiude la compra del terreno di Denquorò. Questo terreno apparteneva ad un certo Sarda-Gaddà della razza Gondò, di cui era come Abba Dula. Era già quasi un’anno [p. 496] dacché si trattava questa compra, ma il galla oromo è molto difficile a vendere i suoi terreni, massime quando si tratta di terreni patrimoniali ereditati dai suoi padri, esistenti nel distretto della sua casta. Alla fine si decise di venderlo, perché questo terreno era fuori della sua casta, ed era un terreno avventizio stato ereditato da lui, nella casta di Adegò, di cui Nencio-Semeter era come Abba Dula. Questo terreno proprietà di Sarda della casta Gondò, trovandosi nella casta Adegò, i sudditi di Sarda che abitavano il terreno, nelle spedizioni militari, dovevano seguire Nencio Semetter, invece di seguire il loro padrone, e ciò anche nel caso /281/ che le due caste si dovessero battere fra [di] loro, come suole accadere nelle guerriglie del paese medesimo.

Conchiusa la questione del contratto al prezzo di 60. talleri effettivi di Maria Teresa, unica moneta europea conosciuta in paese, ed in quel tempo in uso solamente fra i gran mercanti, e per le compre in grande, si fissò il giorno per la stipolazione del medesimo, secondo tutte le formalità volute dalla legge del paese. Ne io, ne nessuno della missione essendo stato adottato legalmente da qualcheduno di stirpe galla, come atto che era di necessità per possedere, vendere, e comprare beni immobili, e che inchiudeva una specie di professione del paganesimo, era necessario per noi un compratore galla, il quale secondo l’uso comprasse per noi; abbiamo scielto a questo riguardo lo stesso Abba Dula di Adigò Nencio Semeter.

atto della stipulazione del contratto. Arrivato [p. 497] perciò il giorno del contratto, io, Padre Felicissimo, e i due Sacerdoti indigeni siamo andati sul luogo del terreno stesso, dove, all’ora assegnata, si trovarono pure il venditore, i suoi figli, ed un suo fratello, quindi Nencio Semeter anzidetto con suo figlio Saifì, ed il piccolo Bukù di Adegò. Sul centro del terreno stesso si piantò in terra un legno dell’altezza di qualche mettro, ed intorno al legno suddetto Sarda Gadà impugnò il legno suddetto, e dopo di lui il suo figlio ed il suo fratello; dopo questi l’impugnò Nencio Semeter, e sopra di lui, [lo impugnammo] io, P. Felicissimo, ed i due preti indigeni; essendo tutti in questo ateggiamento Sarda Gadà disse: io vendo questo mio terreno a Nencio Semeter per Abba Messias al prezzo di 60 talleri; Nencio Semeter disse: io compro questo terreno per Abba Messias per 60 talleri, ed in quello stesso momento io faceva passare il prezzo al venditore, prendi il prezzo, dissi io, ed egli, l’ho ricevuto, il terreno non è più mio, ma vostro. Così finì la stipulazione. Finito questo io compratore ho mandato un servo a tagliare un piccolo albero, come presa di possesso.

altre formalità secondarie dopo la stipolazione. Fatto questo atto di stipolazione il venditore condusse me, e tutta la comitiva a fare il giro dei confini di tutto quel terreno notando e consegnando tutto il confine medesimo con tutte le servitù [p. 498] tanto attive che passive; quindi mi condusse in tutte le case dei coloni che i trovavano sul terreno, e mi fece sedere un momento come presa di possesso, ma nella quinta [visita] diede a tutta la comitiva un corno d’idromele; dopo ciò, sortiti andò a riposarsi sotto un piccolo albero, dicendo, quest’albero me lo riservo, se lo vorrete lo comprerete. Fu questa l’ultima formalità, dopo la quale ognuno fù libero di ritornarsene in casa propria. Questo terreno era grande abbastanza per occupare cin- /282/ que case di coloni forniti di due buoi, ed aveva erba sufficiente per le sue bestie di lavoro. Vi rimaneva ancora una cosa da fare, non però di essenza, ma di convenienza per prenderne un solenne possesso, ed era quello di recarvisi il giorno della Croce di Settembre ad abruciarvi i fuochi di uso, facendo un piccolo trattamento ai coloni ed ai vicini, cosa che ebbe luogo il giorno 27. nel nostro Settembre corrispondente al 17. Settembre dell’anno Giuliano in vigore in Abissinia.

risposta di Kafa; seconda ammonizione. Passarono fratanto molti giorni, e ven[ne] un messaggiere dall’Ennerea portatore di una lettera venuta da Kafa, nella quale il Sacerdote indigeno Abba Jacob scriveva di aver consegnata la mia lettera di ammonizione al povero Padre Cesare in presenza di due testimonii, e domandatogli se aveva qualche risposta da fare, rispose che nulla occorreva. Vedendo così si compose una seconda ammonizione che scrisse il P. Felicissimo di suo pugno come Segretario mio, e da me sottoscritta; [p. 499] in questa seconda amonizione io gli faceva conoscere tutta la gravità del male per se, e nelle conseguenze dello scandalo che cagionava alla missione, nella quale tutti i veri figli piangevano, ed io più di tutti; in essa, dopo le più patetiche esortazioni, gli faceva poi sentire l’obligo che mi correva dopo la terza ammonizione di venire alla censura per togliere lo scandalo che aveva dato a tutti i figli della missione, io piango la vostra perdizione, [io] diceva, ma pure alla fine sarò obligato [a] legarvi al collo questa gran pietra della scomunica, e gettarvi in mare. Ciò fatto, abbiamo chiuso la lettera, e l’abbiamo collocata sotto la pietra sacra, secondo il mio uso, quando era il caso di atti o lettere in cosa grave, ed abbiamo celebrato sopra tre giorni consecutivi, affinché vi colasse sopra il Sangue di nostro Signore. Dopo ciò l’ho consegnata al P. Felicissimo con tutte le istruzioni occorrenti, il quale quasi subito partì in compagnia dei suoi giovani per l’Ennerea.

Partito Padre Felicissimo per l’Ennerea, partirono pure i due Sacerdoti indigeni per il Gudrù. Abba Hajlù Michele prese la via più diretta di Nunnu per Cobbo, dove l’aspettava la piccola colonia [l’aspettava] per l’amministrazione di alcuni Sacramenti, ed Abba Joannes prese la via diretta di As- [p. 500] sandabo con alcuni giovani nostri Cristiani. arrivo del giovane Paolo a Basso; abba Johannes va ad incontrarlo in Egibiè
[20.2.1858].
Era arrivato dalla costa di Massawah in Egibiè il giovane Paolo con alcuni carichi, ed Abba Joannes doveva passare il Nilo per prenderlo; alcuni nostri Cristiani presero occasione per spedire con lui alcuni loro figli in Gogiam a fare il loro commercio, perché colla protezione di Abba Joannes trovavano allogio in Assandabo nella casa nostra, e ciò che più importava ai medesimi, risparmiavano le dogane di Gama in Assandabo, e forze ancora in Gogiam, dove Tedla Gualu aveva dichiarato esen- /283/ ti i nostri dalle dogane nell’ingresso di Basso-Egibiè. Abba Joannes arrivato Sabbato in Assandabò si fermò la Domenica e [il] Lunedì per il suo ministero ai cristiani nostri; Martedì dopo il mercato di Assandabò si unì alla carovana per passare il Nilo, accompagnato dai soldati di Gama che scortavano la carovana sino al basso del flume, secondo il loro solito.

Il concordato trà Gama ed il governo del Gogiam obligava una troppa sufficiente di soldati di venire sino al fiume per ricevere la carovana dai soldati di Gama, i quali non potevano passare il fiume, perché altrimenti avrebbero oltrepassato il loro confine. la carovana abbandonata nel deserto. I soldati Gogiamesi, [p. 501] invece di venire sino al fiume restavano anche molto indietro, di modo che la povera carovana restava come abbandonata a se [per] tutto lo spazio del piano deserto dall’alt[r]a riva del fiume sino quasi ai piedi dell’alto piano di Basso. Questo piano è un vero bosco foltissimo, tagliato solo dalla strada dei mercanti. I poveri mercanti neanche potevano vedere le imboscate che vi potevano essere a destra e [a] sinistra. Più ancora, la strada essendo stretta non potevano camminare in corpo compatto, ma dovevano andare in fila gli uni dopo gli altri per la distanza di circa un kilometro. La carovana composta di mille persone almeno, delle quali, tolti i ragazzi e le donne, avrebbe potuto contare almeno sei cento combattenti, avrebbe certamente potuto difendersi da un’armata che contava al più quattro cento [elementi], ma il mercante è mercante, oltre non essere ben armato, il suo cuore è diviso, chi ha l’asino da condurre, chi ha un carico sul dorso, e chi ha giovani schiavi da condurre, ben soventi pensa più a salvare il suo piccolo capitale, che a salvare se stesso.

la carovana assalita dall’armata Kuttaï. un’orrida strage. In questo stato della carovana, all’improvviso arriva sopra l’imboscata del paese Cuttai che, divisa in quattro colonne, [del]le due maggiori una gli salta addosso a destra, e l’altra a sinistra, una terza di dietro impedisce la ritirata verso il fiume, e la quarta si presenta avanti per impedirla a progredire; [p. 502] naturalmente fù una vera confusione, ed un vero massacro della carovana.

Certamente non mancarono di morire anche alcuni fra i nemici del Kuttai, ma la carovana perì quasi tutta. Si salvarono i piccoli schiavi, i quali non furono uccisi ma presi come una merce, ed alcune donne più giovani fatte schiave, tutti gli altri furono vittima, ad eccezioni di alcuni altri, ai quali riuscì di precedere, oppure di ritirarsi verso il fiume. Come fra i mercanti non mancano alcuni [armati di] fucili, e pistole, fecero naturalmente anche delle vittime, ma poi finirono per essere anche /284/ eglino vittime. Tutta la carovana cadde nelle mani dei nemici, i quali presero i carichi come si trovarono colle loro bestie e gli ritirarono fra i boschi, e scielto [il meglio] di quello che cadde dalle mani dei vinti i nemici si allontanarono per dividere il loro bottino. Io lascio qui di descrivere, perché [è] una storia indescrivibile, e parlo di Abba Joannes, dal quale ho conosciuto tutta la storia.

abba Johannes rimasto indietro con alcuni mercanti. Abba Joannes fù degli ultimi a passare il fiume con alcuni mercanti più ricchi e suoi conoscenti. Essi si occuparono [si occuparono] a far passare tutti i loro dipendenti, ed arrivarono all’altra riva del fiume che la più parte della carovana era già avanti; Quindi è naturale che rimasero dietro della medesima, e furono assaliti dalla colonna dei nemici che prese la carovana di dietro; i mercanti armati chi di fucile, e chi di pistole, di scudo e di lancie si sono battuti, e fecero anche delle vittime, ma la più parte [p. 503] restarono vittima, e qualcheduno solamente poté farsi largo per retrocedere ed arrivare al fiume. abba Johannes riconosciuto dai nemici lo salvano. In quanto ad Abba Joannes, egli disarmato, e vestito con camicia e turbante fù subito conosciuto da molti, e si alzò una voce quasi generale nella colonna nemica[:] quello è Abba Joannes non toccatelo, e lo fecero ritornare indietro. Il poveretto, arrivato al fiume con un giovanetto che gli serviva di compagno, in mezzo agli urli, ed al pianto dei pochissimi che si salvarono, non vedendo uno dei giovani di Lagamara ne era disperato; abba Joannes ritorna per cercare il figlio cristiano. uno avendogli detto che l’aveva veduto tutto insanguinato che gridava misericordia, il suo cuore non poté reggere, tutto solo rimonta sul piano, s’innoltra in quel campo pieno e coperto di morti, e di mezzi vivi che spaventava, frammezzo alle grida di centinaja, ne battezza qualcheduno che conosceva, trova il figlio nostro cristiano stato emasculato che nuotava nel sangue, lo inviluppa in una pelle, lo lega, se lo carica sulle spalle. una donna getta nel fosso il suo marito emasculato. Una donna che l’aveva seguito per cercare il suo marito, avendolo trovato, lo prese essa pure, e stava portandolo sulle sue spalle; spasimando per il dolore la moglie gli domandò se era stato emasculato, ed avendogli risposto di sì, quando è così, essa disse, cosa ne facio? legato come era, lo gettò in un fosso, e prese invece [p. 504] un sacco di caffè, stato abbandonato dai predatori. due eroi, e due amori. Qualche volta io pensava tra me a questi due fatti eroici, quello di Abba Joannes, e quello di questa donna; tutti [e] due fecero materialmente il medesimo atto di esporsi alla morte per salvare una persona; a prima vista pare che abbiano fatto lo stesso, ma pure quanto era diverso l’uno dall’altro; nel cuore di Abba Joannes bolliva il fuoco dell’amore di Cristo, amore puro e vivo di Dio, perché Abba Joannes [non] era neanche parente di quel ragazzo, ma egli in quel ragazzo vedeva Cristo, epperciò era puro amor di Dio, amor che /285/ ha radici profonde e vive, e produsse il frutto. Ne[l] cuore di quella donna bolliva un’amore che era materia pura, la quale è defettibile; quando la donna si accorse che l’oggetto del suo amore non vi era più fù un’affare finito, ed allora per essa prevaleva [l’interesse per] un sacco di caffè, e tutte le grida del povero marito non valsero più a muovere il suo cuore, la [cui] compassione in un momento si cangiò in crudeltà.

l’amore senza Dio L’amore detto filantropia, è amore del suo simile, è quello che bolle nel cuore di tutti i regeneratori della società odierna, ma quanto questo è lontano dal vero amore degli eroj di Cristo! e questa è la ragione per cui tutti questi finti eroi della rivoluzione, han bel vestirsi di bei titoli, [p. 505] ma alla fine è sempre amore di materia defettibile, amore senza radice che non può portar frutto, ma suole cangiarsi anche in crudeltà, come quello di quella donna, un’amore che si smorza al lucicar dell’oro, e si cangia in crudeltà. L’amore di quel povero marito, e l’amore dei popoli liberati e divenuti sovrani, è un’amore che finisce con una crudele disperazione, e pianto universale.

abba Johannes salva il povero giovane; lo da alla madre. Abba Joannes invece prese il suo ragazzo, se lo portò sino al flume, e di là lo fece arrivare sino alla casa della missione in Gudrù; là ancora era un’amore tutto vivo che gli fece prodigare delle cure, e l’avrebbe guarito, se la madre del ragazzo venuta da Lagamara, ingannata da una falsa compassione, non l’avesse fatto fare una stravaganza che lo uccise. Io ho conosciuto parecchi di questi emasculati in guerra, e ne ho curato anche alcuni, ma appena di dieci uno guarisce, perché il soldato si avvicina con una sciabolaccia senza filo, e con tutta fretta impugnando quelle parti taglia come viene tutta la regione del pube, sino quasi all’umbilico; la ferita è per se mortale, e può guarire con grandissime precauzioni, quando non è entrata nel ventre e non ha leso qualche organo essenziale alla vita.

La società è una machina che cammina quando tutti gli ordegni che la compongono fanno ognuno la loro funzione.

[p. 506] la società europea troppo complicata. La società europea più complicata, ma più perfetta, non lascia di presentare una storia di catastrofi per la gran moltiplicità degli ordegni, e quando la rugine delle passioni si mette in questa gran quantità di ordegni, e la moralità che dovrebbe mantenere l’equilibrio di, questa gran mole troppo complicata; arriva come suol arrivare in un corpo per troppa vitalità troppo impinguato, la stessa salute diventa una vera malattia, ed una vera catastrofe universale. Di qui nasce il grido universale di questo colosso sociale, nel quale le forze vitali della società sono /286/ esaurite dal gran bisogno di mantenere grandi armate per mantenere l’ordine, ed un’altro regimento di impiegati, tutti con insanziabili passioni da soddisfare; questa gran caterva di burocrati invase il patrimonio della pietà publica sotto titolo di burocrazia riformata, e ne mangia la maggior parte; anche questa è una vera catastrofe che scoragisce le masse, e minacia lo sfascio totale della machina sociale.

la società etiopica più semplice La società etiopica è molto elementare e manca anche di organismo essenziale; vi sono anche là delle passioni, e delle piaghe gravissime che mantengono quei poveri paesi in un’ossilazione continua di rovina; da ciò nascono delle catastrofe, come la sopra riferita, ma in proporzione sono sempre più piccole e sempre più rare se noi calcoliamo poi tante altre catastrofi dei nostri paesi, frutti di gran crisi sociali, frutti anche [p. 507] della stessa scienza e progresso di calcoli, come, le [le] guerre, le catastrofi dei gran machinismi, strade ferrate, pyroscafi, e sopratutte le catastrofi degli stessi teatri, nel 1879 a Trieste fu distrutto da un incendio l’Anfiteatro Mauroner, grande sala capace di 3500 posti. MP contro i quali pare che oggi siasi scagliata la collera di Dio stesso. Tutto questo non si trova nella povera etiopia più ristretta nelle sue idee, e più limitata nei suoi bisogni. Non dico ciò per condannare il nostro avanzamento in molte cose [e] per predicarvi la povertà e la barbarie etiopica, ma unicamente per far notare che la nostra così detta civilizzazione e progresso, che una volta tanto ci eletrizzavano, oggi, fatti avvertiti dai frutti dell’albero sospetto, incomminciano a nausearci. La stessa democrazia che i progressisti agognavano, come ultima meta del movimento, a misura che regna in qualche paese, essendo divenuta un mercato di donniciuole che si disputano il banco della fortuna publica per l’interesse privato, e sotto il nome di popolo sovrano vedendo che si lavora a preparare il trono ad un dispotismo massonico internazionale che spira impero e sangue, incommincia a nobilitare il nome di retrogrado che si suoi dare alla persona di ordine, ed al sincero seguace di una religione, il quale prudentemente ritira il piede dall’abisso.

la società etiopica incapace di massoneria. La nostra etiopia (dico Etiopia, ma potrei dire tutto [tutto] l’Oriente, fuori delle grandi città, dove si trova la colonia europea moltiplicata) è molto lontana da tutto questo progresso massonico, e la massoneria stessa non ha potuto piantarvi le radici, come non le pianterà tanto presto, essa è perciò chiamata col disprezzante nome di paese barbaro, ed io stesso debbo confessarlo tale sino ad un certo punto; [p. 508] essendo essa oggi in decadimento, e priva anche di molte cose elementari. Ciò non ostante sino ad un certo punto non manca di meritarsi ancora qualche lode. l’etiopia è barbara;
perché ci disprezza.
Noi chiamiamo barbara l’Etiopia, come il nostro progresso di piazza chiama barbari gli stessi nostri padri di pochi secoli /287/ addietro, e certi monumenti ed iscrizioni fatte dall’odierna nostra Roma stessa, chiama barbaro il governo dei Pontefici stessi, benché siano ancora oggi maestri, non solo nella fede, ma nelle arti, e nelle scienze di qualche solidità, e sopratutto nei veri calcoli dell’Ordine e della gerarchia sociale. In questo senso, dico, anche l’Etiopia ha un qualche merito, essa è conservatrice; io steso esiliato la compatisco, perché, come europeo del secolo decimonono, sono divenuto anch’io sospetto. La nostra povera Europa che insegna l’ateismo, disprezza ogni idea teocratica, e lavora indefessamente per stabilire il principio contradittorio del popolo sovrano, bisogna confessare essere divenuta essa pure barbara e ridicola in facia [a] loro. La povera Etiopia, benché barbara, eppure non ha perduto totalmente la bussola, ed ha qualche motivo di temere da noi una rovina più grave ancora.

le catastrofi frutto dell’immoralità. Ciò detto come di passaggio, ritornan[do] alla catastrofe narrata, essa ha avuto origine da certe passioni d’interesse particolare, o meglio da una certa diplomazia commerciale di alcuni paesi di quei contorni, per ottenere [p. 509] che la strada più diretta che unisce i due gran mercati di Assandabo, e Basso-Egibiè, facesse il giro di Zemiè più all’Est sul Nilo stesso, per l’utile che ne percepiva il paese Cuttai attiguo a Zemiè. Ora, per tacerne di tante altre, in fondo non è questa la ragione della 12.5.1881]. catastrofe ultima di Tunisi, l’interesse nazionale della Francia, e l’egoismo dei suoi governanti? Se fossero state osservate le convenzioni fatte trà il Gogiam ed il Gudrù certamente non sarebbe arrivata la catastrofe suddetta, ma l’immoralità degli impiegati in detaglio di dette convenzioni, avendo ridotto a pochi i soldati di scorta della carovana, questi sapendo o sospettando ciò che doveva accadere non hanno voluto esporsi; tutto ciò sono le stesse passioni, e lo stesso egoismo privato che han fatto tanto gridare il popolo francese nelle nel 1881 con il trattato del Bardo la Francia stabilisce il protettorato su Tunisi. Per reazione l’Italia stipula la Triplice Alleanza con Germania e Austria, l’Inghilterra occupa l’Egitto MP storie ultime di Tunisi. La differenza sta solo, che in Etiopia, piccoli paesi, e piccole società han prodotto una catastrofe di pochi milliaja di capitali, e centinaja di vittime, mentre le nostre nazioni colossali han prodotto una catastrofe di milioni e milliaja, e catastrofe non di un giorno, ma duratura [di] anni ed anni.