/298/

34.
Diarrea, altra conseguenza della carestia:
specie, cause, rimedi, terapie. Il «ciociò».

Prima ancora che arrivasse il corriere suddetto, per dissipare un tantino il pensiere e la sollecitudine dell’affare di Kafa Iddio aveva già preparato una nuova crisi da occuparmi non poco. le tre principali malattie dei paesi etiopici. Appena la carestia cessò incomminciò la diarrea a fare un guasto nel popolo non indifferente; già io me l’aspettava calcolando da alcuni fatti arrivati a famiglie povere in particolare, nelle quali la fame sempre produceva la diarrea. La diarrea è una delle tre grandi malattie che distruggono quei popoli, forze la più comune e la più [più] terribile; essa fa più vittime della febbre gialla, e del vaivuolo. Di queste due ne ho già parlato a sufficienza altrove. Ora è venuto il momento di parlare ancora di questa

le tre specie di diarea. La lunga esperienza di quei paesi mi fece scoprire tre specie diverse di diarrea dalle diverse cause che la producevano. La prima era la diarrea [p. 529] miasmatica, la più terribile, e la più difficile a curarsi, come quella che dipendeva da un miasma epidemico non abbastanza conosciuto; era questa la vera dissenteria. La seconda era [quella] che soleva spiegarsi dopo la carestia di un paese, oppure di qualche famiglia in particolare, causata per lo più dalla debolezza ed atonia degli organi gastrici. La terza era la più comune, la quale soleva aver luogo da cause particolari, per lo più da stravizii, oppure da retrocessione di umori all’interno al tubo intestinale gastrico. Queste tre specie di diarrea, qualche volta si danno la mano fra loro, e passano facilmente da una all’altra secondo le diverse predisposizioni, e le diverse cause particolari date. Quando si manifestava la diarrea di qualunque specie fosse, il publico sempre si allarmava, e tendeva all’isolamento, cosa molto cattiva da una parte, perché ne veniva l’abbandono dell’ammalato, benché nel caso della diarrea miasmatica potesse anche essere una precauzione. Benché queste tre specie di diarrea possono darsi la mano fra [di] loro, come dissi, e che qualche volta si presenti il caso di trattarle nel modo stesso, tuttavia non si deve dimenticare la causa principale.

/299/ mia opinione sulla diarea in questione. Ciò posto, venendo al caso pratico della malatia spiegatasi in Lagamara dopo la caristia, riservandomi sempre di trattare l’ammalato secondo i sintomi particolari [p. 530] quando occorreva, avendo conosciuto la maggior parte di tutti quegli ammalati in tempo della caristia, e ben conoscendo lo stato di sbilancio vitale in cui erano ho potuto formarmi un criterio della loro diarrea dichiarandola un’atonia generale di tutte le funzioni digestive e nutritive; ho pensato che in simili individui per la mancanza di calorico la digestione e separazione non si faceva che imperfettissimamente, e per mancanza di vita l’assorbimento dei vasi doveva essere minimo. Invece di digestione mi pareva che non avesse luogo altro che una fermentazione che gonfiava loro il ventre di gaz, ed il nutrimento passava al secesso quasi in natura.

mancanza di medicine europee; avviso a chi ne ha. In quei paesi si manca di tutto massime di medicine europee. Il viaggiatore europeo, ancorché ben fornito quando arriva, per lo più le spreca, con doni a chi non sa usarne, prima ancora di conoscerne il vero bisogno che potrebbe averne in futuro, quando sarebbe in stato di conoscere il paese, e di trovarsi in stato di poterle dare con utile. Il missionario poi stazionario nel paese, per mancanza di corrispondenze, manca ben soventi di medicine, principalmente di specifici conosciuti. Io colla confidenza che godeva, (cosa che non godevano molti altri europei, anche di gran capacità molto maggiore della mia), massime in simili epidemie, nelle quali si trattava di una gran quantità di ammalati, non poteva dare a tutti certe medicine, dovendole conservare per le persone di casa, per le quali abbiamo [p. 531] una duplice obligazione, come ognun sa, epperciò io doveva trattare queste cure coi mezzi che si trovavano in paese. dificoltà per avere medicine del paese stesso. Anche di certe medicine che si trovano in paese non se ne può aver sempre, perché mancano mezzi per prepararle, come sarebbe l’olio di ricino che si trova in gran quantità, e buonissimo, ma mancano machine per tirarlo puro; io ne faceva fare dai servi spremendo il ricino al sole con molta fatica, ma si otteneva un’olio molto carico di fecia o polpa, la quale è causa di una colica, qualche volta anche pericolosa. Così pure il tamarindi che si trova solo nei paesi molto bassi, e lontani, io doveva farlo venire con spese non indifferenti. Anche per fare delle gelatine, le quali sarebbero di grande utilità in queste malatie, e cose che si trovano molto facilmente per la quantità delle bestie che si amazzano, eppure si manca di tutto per farne. Io ho potuto farne imperfettamente in piccola quantità, ma mai si potranno ottenere in grandi quantità per le epidemie.

sistema indigeno cogli ammalati. In queste cure perciò io doveva seguire un sistema tutto indigeno, e semplice che fosse possibile a tutti. Gli indigeni credono di guarire tutti /300/ gli ammalati col latte; questo si trova in tutte le case, e può anche dirsi che è il nutrimento per eccellenza dato dalla providenza a tutti; niente di più balzamico e nutritivo nel tempo stesso. indigestione di latte. Io però ho veduto molti [a] morire per indigestioni di latte, ed io stesso in Loja, quando mi trovava colà, essendo ammalato di febbre perniciosa, perduto l’uso della ragione, gli indigeni mi fecero bere del latte in quantità, ho fatto un’indigestione tale da far temere [della mia vita], il giovane Abba Joannes, il quale conosceva il solo emetico, [p. 532] perché io mi serviva di lui per amministrarlo ad altri, mi diede una gran dose di emetico, il quale mi fece rigettare tutto quel latte ridotto in globoli grossi come noci, duri che sembravano guma elastica, e mi vollero grandi sforzi per farli uscire. Gli acidi di cui abonda lo stommaco dell’ammalato precipitano la coagulazione del latte, e la separazione della fibra dal siero, e rimane il formagio, il quale anche s’indurisce e lo rende indigeribile. Una volta escluso il latte, nella casa di un galla nulla più si trova per soccorrere il povero ammalato. Questa povera gente per lo più non vuole sapere ne di brodo, ne di minestrella, e si fa [in] loro una vera ripugnanza quando gli obligate a queste cose. Ciò che essi amano è la carne, o al più un poco di pane. Io aveva provato la gelatina con un poco di acido dentro, per questi ammalati di prolungata diarrea e sfiniti, ma dove si trova nelle loro case?

preparazione di carne secca. Dopo la caristia, prevedendo adunque questa diarrea, io aveva fatto una gran provista di carne secca, detta quanta in lingua loro, essa è carne tutta di muscolo tagliata a lunghe liste e fatta seccare. Tagliuzzava questa carne secca a piccoli pezzi, e fattala arrostire sulla piatta forma in modo però che si potesse dire ben cotta, ma non carbonizzata, [e] gli obligava a masticare sempre un pezzetto di questa carne così secca ed arrostita. Questa inghiottita con molta saliva gli nutriva, ed era digerita con facilità. modo di curare questa diarea. Di questa carne [p. 533] ne lasciava mangiare quasi a volontà, ma sempre un piccolo pezzetto per volta. Per bere poi dava loro un decotto lungo di tamarindo, quando lo poteva avere, in caso negativo [dava] un decotto di orzo abrustolito con sugo di limone. [In] Più, come tonico aggiungeva loro un poco d’idromele fatto in proporzione di uno di miele e tre di aqua, fermentato con erbe aromatiche; di questo ne faceva dare in misura al più [di] una libra al giorno diviso almeno in dieci volte. Se erano fedeli a custodire questo regime in meno di cinque o sei giorni la diarrea cessava, ed aquistavano forze sufficienti per ricevere il loro nutrimento ordinario in misura però [proporzionata]. Alle persone povere somministrava io tutto, tal quelli poi che potevano se lo procuravano essi stessi. Era questo il sistema mio di cura /301/ ordinaria. Posso dire che era come sicura la guarigione, se non facevano stravaganze. Alcune palottole grosse come una nociuola, fatte con farina di orzo leggermente abrustolito, impastate con aqua, butirro, ed un poco di miele, biscotte e secche potevano intercalare la carne secca suddetta, ed anche supplire, in caso di assenza, con quasi eguale esito.

Questo genere di nutrimento solido, era molto preferibile al liquido. Ho provato che il brodo, e la minestra, oltre non essere di loro genio, non faceva buon’effetto; favoriva anzi la diarea, quando questa diarea era già molto vecchia, e l’ammalato molto debole, appena bevuto il brodo o presa la minestra [p. 534] subito si presentava il bisogno di andare alla guardaroba, mentre il cibo solido e secco, essendo obligato a masticarlo ed inghiottirlo colla saliva [a] poco a poco non produceva quest’effetto; il suo stomaco lo riceveva insensibilmente senza dare una scossa al tubo gastrico. Qualche volta mi è arrivato che l’ammalato furtivamente, mangiando qualche cosa, mi ha fatto un’indigestione, allora, se l’ammalato era debole, non se la cavava più, se poi era abbastanza forte da poter tentare una dose di emetico, allora poteva ancora guarire, ma una crisi simile sempre ritardava notabilmente la sua totale guarigione.

la diarrea dei campi militari d’Abissinia La specie di diarrea di cui abbiamo parlato sin qui non regna solamente nei paesi dopo una caristia, oppure in una famiglia, dove ha regnato la fame, ma regna molto più potentemente nelle armate, quando queste hanno dovuto soffrire la fame, come suole accadere in Abissinia, dove solamente si trovano grandi armate, le quali vivono di razia e di depredazioni. Anzi è appunto là che fa del gran male, perché queste armate, stanche per la fatica, e per la fame, la diarea incommincia dall’atonia e fiachezza, e poi, attesa la gran quantità di gente aglomerata in un campo per lo più ristretto dentro capanne provisorie, mal adagiate si forma un miasma, e diventa anche miasmatica, e prende poi ogni ceto di persone, anche quelle che fanno una vita abbastanza agiata. Fra i galla invece non essendovi villagio, e la popolazione vivendo in case molto segregate fra [di] loro [p. 535] più difficilmente si forma il miasma, epperciò si salvano per lo più le famiglie ricche ed agiate.

diarea miasmatica; sua gravità. La diarrea fin quì descritta prodotta [d]a atonia e debolezza è più pacifica, e raramente presenta dolori di ventre, e nel caso che vi siano sono passeggieri prodotti dai gaz, e precedono [la] per lo più la scarica, dopo la quale regna per lo più la tranquillità nel ventre; anche nel caso che l’ammalato muoja muore di sfinimento per pura cessazione di forza vitale. Non così succede della diarrea miasmatica; essa è per lo più /302/ sempre accompagnata da dolori più o meno vivi, secondo la diversa condizione dell’ammalato più o meno robusto, e pieno di vita. Nei campi militari, composti nella maggior parte di giovani dei due sessi nel fiore dell’età e bollore delle passioni, la diarrea che ha per lo più incomminciato da una semplice diarrea prodotta dalla miseria, passa quasi subito in dissenteria, con dei dolori vivissimi, accompagnati da sforzi sterili di scarica, e qualche volta anche da emissioni di sangue, indizio d’infiammazione, con pericolo di passare anche in cancrena, cosa che ho veduto arrivare qualche volta. Non si può esprimere il dolore di questi poveri infermi mal nodriti, mall’alloggiati, mal custoditi, e qualche volta obligati a camminare ancora coll’armata; per lo più di dieci uno guarisce.

diarea puramente miasmatico epidemia nei paesi. Si deve però fare qualche distinzione di questa diarea dei campi militari che si sollevò spontaneamente nei paesi da un miasma sconosciuto. Come qui trova individui di tutte le qualità, età, e condizioni personali, la diarea e la stessa come la sovra esposta, ma non è eguale la gravità [p. 536] e l’esito della medesima, essendo questa in migliori condizioni su tutti i rapporti. Questa è la più comune di tutte, e ben soventi certi paesi sono decimati dalle vittime che suol fare. Non vi è condizione esente da questo flagello; nei ricchi e ben nutriti la dissenteria è più forte. Le donne, dal momento che incommincia l’età critica sino [a] 40. anni, epoca che cessa per lo più in quei paesi, sono le più tormentate, e perdono anche il frutto del loro ventre, anche nel caso di guarire, e con tutta facilità il loro doppio sangue passa in emorogie; anche la gioventù è bersagliata. I poveri sono i meno aggravati. Io mi sono trovato parecchie volte testimonio di questa epidemia, e mi sono sempre trovato imbrogliato per trattarla con frutto certo.

miei sforzi, mio sistema tenuto nella cura. Ho studiato molto la maniera di trattare questa malatia coi pochissimi mezzi che offre quel povero paese, ma in questa [non] ho mai potuto seguire un sistema di cura uniforme, come nella precedente, ed ho dovuto sempre seguire i sintomi del momento. Quando i dolori ed i spasimi erano forti, allora mi attaccava ai calmanti. medicine indigene che si trovano. La benedetta pianta providenziale della malva, la quale seguita l’uomo dovunque, e si trova solamente dove si trova l’uomo, e non si trova affatto nei deserti, ancorché pieni di vegetazione, questa era per lo più la mia risorsa, sia all’esterno con fomenti o anche impiastri, sia per l’interno con decotto ben saturo. Anche il papavero, la lattuga selvagia, [p. 537] oppure anche domestica, quando poteva averla, facendone decotto concentrato, ed estraendo una specie di oppio mi ajutavano a calmare i poveri ammalati nelle loro agitazioni quasi convulsive. Anche il tamarindi, l’anni- /303/ si, la camomilla, secondo i diversi sintomi, erano gli unici mezzi indigeni. In quei benedetti paesi non bisogna pensare al mezzo dei clisterii, perché colà sta scritto[:] nec nominentur, essendo cosa per loro molto ripugnante e direi quasi immorale; appena poteva servirmene per me stesso e per qualche persona più fida della casa, capace di gran segretezza, altrimenti avrebbero dato luogo a dicerie anche disonoranti per noi. Qualche volta questi istromenti essendo stati trovati nell’apertura [delle casse] per la visita delle dogane, domandato cosa erano, ho dovuto studiare la maniera di declinare la questione diretta.

esito più o meno critico. Confesso di non essere stato tanto fortunato in questa malatia, come nella precedente. Quando la malatia non è molto seria, allora con alcuni calmanti, e con un regime dietetico e nutritivo, la cosa per lo più camminava bene; principalmente coi poveri, i quali sono più docili nell’osservare le prescrizioni. Ma quando la malatia era seria con forti dolori, spasimi, proriti frequenti di scariche, e tanto più con sangue, allora appena si poteva ottenere un poco di pazienza per [mezzo de]i fomenti, quasi unica medicina in simili casi, [e] l’affare diventava molto critico. Sopratutto, ciò che rendeva molto dubbia [p. 538] la cura era il ricorso secreto ai maghi, ed il ricevere da essi delle medicine, chi sapeva quali? sono chiamato da un’infermo ricco. Un bel giorno sono pregato di recarmi da un ricco ammalato, che aveva veduto più volte, sta molto male, mi dicono; mentre si cammina il messagiere parla dell’avvenuto col mio giovane, e [questo] sente che un mago era venuto, e gli aveva dato qualche medicina, dopo la quale stette peggio; entro in casa, mi avvicino e sento il singhiozzo, lo guardo, l’occhio suo è bianco marmoreo, il polzo ristretto appena sensibile, la carnagione dura e fresca; [domando:] gli avete dato qualche medicina? La tale sua moglie, rispose una delle sue mogli, gli fece venire un’oghessa, ossia perito, e gli diede qualche cosa; molto bene, risposi, la medicina agisce, epperciò non si può fare altro, vedremo domani; ciò detto me ne sono partito, e nella notte morì. Come questo infermo aveva tre mogli, frà queste vi esisteva una gelosia, ed un linguagio molto contradittorio: alcune volevano [sostenere] che la moglie l’aveva fatto avvelenare, altri poi volevano che un’altra moglie l’abbia fatto mangiare, epperciò nulla si poté sapere di certo. L’unica cosa certa si è che prima non presentava sintomi di pericolo, e dopo la medicina del mago la cosa cangiò; [se] abbia cangiato per causa della medicina suddetta, oppure per altra stravaganza non si può sapere.

Ho gà parlato altrove come questi poveri ricchi poligami siano esposti ad essere avvelenati dai maghi ad istanza delle mogli, e che io stesso prima che fosse conosciuto il mio carattere sacro, sono stato pregato di /304/ dare medicine in questo senso, epperciò da questo lato sempre vi è da [p. 539] temere. Oltre le mogli, questi ricchi sono poi circondati da un’infinità di persone di corte, e tutti vogliono dire la loro opinione, chi gli vuoi procurare una medicina, chi [un’] un’altra, chi gli porta da mangiare e quasi lo costringe a mangiare. l’infermo ricco più difficile a curarsi. Oltre a tutto ciò quando io aveva la disgrazia di dovermi occupare di qualcuno di questi, uno valeva per dieci nei disturbi che mi soleva dare, e nella sollecitudine ciò che dice il vangelo rapporto alle difficoltà di salvarsi [per] il ricco, lo vedeva verificato per la salute del suo corpo, quante altre cose si dovevano calcolare in lui: egli è pieno di vita e di sangue, e questa pienezza di forze in queste circostanze sono tante armi di più alla malattia contro di lui; egli è pieno di affetti alle persone, alla casa, alle sostanze, tutte cose che in un povero pagano, senza speranza avvenire, gli facevano una posizione crudele; un’essere che per lo più ha vissuto in una surexcitazione sensuale continua che l’ha reso incapace di soffrire. Tutto ciò era per il povero paziente una corrente che lo portava alla morte, come per lo più rendeva quasi impossibile la sua conversione nelle cose dell’anima sua. la sorte dei ricchi divenuti schiavi. L’abitudine ai piaceri di diverso genere, le sue richezze, i congiunti divisi in tante fazioni, quante erano le sue mogli, gli amici stessi erano per quel povero infermo altrettanti vermi che lo mangiavano ancor vivo. Per questa ragione io tremava quando era il caso di occuparmi di un simile infermo, come certo [p. 540] che tutte le mie sollecitudini andavano a finir male; le persone stesse di casa mia mi compativano, perché ne conoscevano le difficoltà. Eppure non [ci] si poteva rifiutare senza pericolo di farsi dei nemici. La persona sopra narrata era una persona che mi aveva mandato molti soccorsi in tempo della carestia, ed io sperava per questo di essergli utile, prima all’anima sua, e poi anche alla sua salute corporale, ma con tutte le mie buone intenzioni e volontà efficace, per mille complicazioni, e l’anima sua, e la vita sua, tutto è andato perduto. Così arriva al povero ministro di Dio condannato dal suo ministero ad affliggersi per le miserie altrui: ciò mi arrivò molte volte in Africa, e non lascia di arrivare qualche volta nei nostri stessi paesi: io amava molto il povero Re Vittorio Emmanuele per averlo molto avvicinato nella sua educazione in Moncalieri, ed anche amministrato [dei sacramenti]; [† 9.1.1878] sentita la sua morte, fui molto sollecito a domandare come morì, e dopo più di un’anno di informazioni, ancora sono incerto se possa direttamente e nominatamente pregare per lui, perché ancora non so se si sia riconciliato con Dio e colla sua Chiesa. Lo stesso mi diceva il R.mo P. Francesco da Villafranca riguardo al Ministro [† 5.6.1873] Ratazzi; queste povere persone del gran mondo hanno certi gran vermi che gli mangiano vivi, non solo nel [campo] temporale fa- /305/ cendogli schiavi, ma nello stesso spirituale, e ciò [p. 541] che più affligge, arriva loro a fronte delle loro buone disposizioni, perché legati da catene di ferro ad una schiavitù che ha trovato il modo di legare anche i sovrani.

la sorte dei poveri divenuti ricchi perche liberi. All’opposto molto diversa era la condizione dei poveri, ossia della condizione più bassa della popolazione contadina in quella circostanza di epidemia generale. Io poteva visitare più di 25. ammalati ogni giorno; appena entrato in una casa, già sapeva di essere sospirato, rispettato ed ubbidito in tutte le mie ordinazioni. Veduto l’ammalato, esaminatolo, interr[og]ati quei di casa sull’accaduto, io era certo che nulla mi si nascondeva, e poteva formare la mia diagnosi certa sul da farsi; sapeva [di] certo che tutta la casa era di un sol cuore e dipendeva dalle mie labra; io ordinava ciò che potevano fare, e ciò che non potevano, se poteva farlo io lo ordinava ai miei che mi accompagnavano; così in poco tempo sbrigava la mia visita; e me ne partiva tranquillo, sicuro di quanto aveva ordinato, perché in quella casa tutto era semplice, nessuna divisione, nessun partito contrario che cercasse [di] diminuire la confidenza in me, ed agli ordini dati. Se vi era qualche cosa da temere per la vita dell’ammalato, io lo diceva poi a qualcuno dei miei giovani più capaci, ed egli pensava a disporre le cose, sia per preparare le persone di casa alla rassegnazione, ed anche per l’infermo, se vi era qualche cosa da farsi per l’anima sua, non fosse altro che disporlo al battesimo secreto da darsi. In questo modo ho potuto calcolare che in proporzione era molto maggiore il numero di quelli che guarivano nella bassa classe dei poveri [p. 542] a differenza della classe dei ricchi, dove la cura era troppo difficile per le ragioni sopra esposte, ed il povero infermo si trovava troppo esposto alle dispute e passioni dei privati.

diarea in seguito a stravizi nel mangiare. La terza specie di diarrea è quella che ha origine dagli eccessi nel mangiare, e [nel] bere, la quale attacca ben soventi individui particolari, non il paese intiero, come le sue antecedenti. Come questa è una malatia che si presenta soventi, è bene dirne due parole per finire questo argomento. Due sono le circostanze nelle quali essa si sviluppa. La prima e più comune è quella che si sviluppa dopo i grandi inviti nupziali o mortuarii, dove si mangia molta carne, e si beve a petizione. La seconda suole accadere nei paesi galla dopo il così detto Ciociò, ossia ritiro di alcuni giovani, per lo più dopo le raccolte, per rifarsi delle fatiche; questi giovani comprano un bove in società, e si ritirano in una capanna a mangiarselo, e [la] dura[no] fino a tanto che [non] sia finito il bove, proibito [a] qualunque di accostarsi in quel fratempo. Questa diarrea incommincia sempre per lo più dopo le due circostanze suddet- /306/ te con sintomi di grave indigestione. Più volte mi riuscì di curarle da principio con forti vomitivi. In difetto, dopo alcuni giorni di mall’essere passa in diarrea o dissenteria, secondo le diverse predisposizioni predominanti, con sintomi anche di putrido, accompagnata da febbre continua, [p. 543] e può essere anche micidiale. Tanto l’abissino che il galla del basso popolo, non trovando che raramente carne, quando ne trova a petizione ne mangia delle quantità di questa carne cruda, che si stenta [a] credere, ed aggiunge in simili circostanze una birracia satura di foglie amaricanti di diverso genere, la quale per lo più gli ubriacca e gli fa passare quasi due giorni a dormire con tutto quel capitale di carne nel ventre; divenuto un vero sepolcro.

avisi al viaggiatore in simili casi. In tutti quei paesi quando si trova un’europeo, tanto più un missionario in questi casi sogliono ricorrere a lui, perché lo suppongono sempre medico, e persona fornita di medicine straordinarie; è bene perciò che il medesimo sia ben informato di tutto. Dopo questi grandi inviti [conviviali] occorrendo di essere chiamato per uno di questi infermi, essendo ancora da principio, se la potrà cavare onestamente con onore con un buon emetico, perché è semplice questione di indigestione, qualche volta anche così forte, che produce una congestione cerebrale e [giunge persino a] cagionare la morte; in caso diverso la base della malatia essendo sempre un’indigestione, è bene far precedere un vomitivo. Con questo in pochi giorni se la sbriga; in caso diverso, seguitando i segnali di congestione leggiera alla testa, e che non si siano spiegati altri sintomi al basso ventre, allora potrebbe anche ripetere il vomitivo [p. 544] e così finirebbe ogni cosa. Nel caso che fossero già passati molti giorni e che la diarrea avesse preso possesso, allora il vomitivo sarebbe da lasciarsi, se pure non seguitano segnali allo stommaco, ed alla testa, perché in tal caso, se le forze dell’ammalato lo permettano, e che non vi siano altri sintomi più gravi al basso ventre, si potrebbe ancora tentare in piccole dosi

conseguenze del ciociò, o ritiro carnale. Quando la diarrea ha avuto luogo in seguito al così detto ciociò, o ritiro sopra detto, più difficilmente ha un’origine da una grave indigestione, tanto più se ha già finito il suo ritiro, perché allora per lo più se ne mangia più moderatamente, essendo cosa a spese proprie e che dura molti giorni. Questa società di giovani del ciociò può durare per lo più da otto a dieci giorni, secondo la quantità dei socj, che finiscono più o meno presto la carne. Lo sbilancio sanitario è causato piuttosto perché passano questi giorni mangiando quasi solamente carne; questo sbilancio potrebbe avere anche altre complicazioni, avendo luogo per lo più questo ritiro in una capanna mal riparata, situata framezzo boscaglie, in /307/ luogo vicino a torrenti, epperciò poco sani, e ben soventi in luogo di miasmi sospetti e pericolosi. Sono tutte queste circostanze da avvertirsi nella cura, perché questa malatia potrebbe essere complicata con altre bisognose di cure a parte. Del resto supponendo una diarea semplice, [p. 545] secondo le circostanze si può [c]urare come le precedenti, avuto riguardo ai sintomi particolari, o di infiammazione, o di putrido, o di febbri, anche periodiche, con periodi più o meno chiari.

il ventre dell’etiopico pieno di vermina. Una cosa [non] si deve mai dimenticare in tutte le malatie, massime interne ed intestinali di tutte quelle razze etiopiche, ed è là presenza del tenia o verme intestinale solitario, il quale [non] manca mai, e presenta per lo più dei sintomi dagli europei poco compresi. Ma il verme solitario non è il solo, trovasi inoltre il verme comune anche [d]a noi, e, se ne trovano quantità tali da far stupire; una volta ho veduto un’individuo [a] renderne per secesso una quantità incredibile. La presenza di tutta questa vermina esalta molto il sistema nervoso, motivo per cui una persona, anche sana; presenta delle fasi e dei sintomi molto varianti persino nel polzo stesso, e prova delle crisi da crederlo gravemente ammalato. Sono stato chiamato parecchie volte a vedere alcuni ammalati, donne specialmente, e le ho trovate immobili senza segnali di vita, e da principio mi spaventava, ma oggi non mi spavento più. Ritornerò sopra questo argomento, quando descriverò le cose di Kafa.