/278/

32.
A Roma per il centenario di S. Pietro.
Risposta di Menelik. In Aden. Mekev e Krapf.

A questo riguardo scrissi una lettera a Monsignor Bel, ed i due suddetti col primo vapore inglese partirono per Massawah, dove frà i Bogoz avrebbero aspettato il mio ritorno dall’Europa [p. 92] e la venuta della risposta del Re di Scioha. Partiti essi per Massawah, partenza per Roma
[8.4.1867];
arrivo
[3.5.1867]
io col primo vapore francese sono partito per l’Egitto, e senza fermarmi ho preso subito il primo vapore che ho trovato per Civita vecchia, ed ho potuto arrivare a Roma pochi giorni prima [delle feste] del centenario di S. Pietro, dove, parte per i miei affari, e parte anche per le feste, ho dovuto passare circa un mese.

le feste di s. Pietro in Roma Ciò che passò in Roma in tutto quel mese non è cosa che meriti di essere riferita quì, come cosa conosciuta, e scritta da tutti i giornali buoni e cattivi di quei giorni, secondo il diverso senso di ciascheduno; mi contentero di fare qualche rimarco sopra le mie impressioni, perché una parte di quelle grandi funzioni erano cose, bensì conosciute, e lette nelle memorie passate, mai ancora vedute da me, e neanche sperava di rivederle più; ma, come si sa, la lettura agisce primariamente nella parte intellettuale, ingrandisce l’idea, ma non pascola la fantasia, e lascia ben soventi il senso freddo e pellegrino; mentre la veduta agisce principalmente sopra la fantasia, e commove il sentimento. grandezza di Roma papale Per chi ha fede non solo cristiana, ma cattolica, nelle funzioni del sommo pontificato in Roma vede tutto ciò che si può vedere in questo mondo; vede Iddio in terra, cioè per quanto è visibile Iddio nelle sue creature, perché vede il trono del suo rappresentante in questo povero mondo materiale; [p. 93] vede in lui il principio di unità di tutta la famiglia, la quale, benché smembrata da una parte divenuta eterodossa, pure sa di trovarsi là in origine, e lo stesso suo nome glie lo dice, ed attesta che sono branchi tagliati da quel grande albero; lo stesso paganesimo, senza conoscerlo, tiene là un principio di unità e di salute nel grave precetto che pesa sopra il Pontefice della Chiesa universale di insegnare e concentrare a /279/ Cristo tutto il mondo. Erano queste le mie impressioni in Roma nelle feste del centenario del 1867. quando per ben due volte viddi il Papa in grande Pontificale, [il] primo [20.6.1867] nel giorno del Corpus Domini nella processione, accompagnato da [486 vescovi] 500. Vescovi, venuti dalle estremità del mondo; la seconda volta [26.6.1867] nella solenne canonizzazione, quando Pio IX. parlava ed era sentito dalla quattro parti del mondo. Oh allora, esclamava io nel mio cuore, oh quanto è grande Roma ai piedi del Papa, con accanto dei fratelli che son venuti dai due poli! Oh Roma grande anche in Cielo stesso, dove la Chiesa trionfante non lascia di venerare l’oracolo del tuo Pontefice!

caduta di Roma capitale del mondo All’opposto, arrivato in Roma in Settembre del 1880. che malinconia per me, vedendo Roma pazza nella sua stessa caduta, col chiamarsi capitale, non più totius Orbis, come era riconosciuta ed acclamata dal diritto universale delle genti, ma [come una] semplice capitale civile, [p. 94] delle quali rigurgita il mondo; capitale di un paese relativamente molto piccolo, e nullo in diplomazia; capitale civile di un paese, che non è la metà della Francia, forze il terzo dell’impero austro Ungarico, forze un terzo del germanico, un quarto dell’Inghilterra geografica, ed un quinto della Russia, senza contare, i grandi centri asiatici, ed americani, i quali oggi incomminciano a mettere fuori la testa e farsi rispettare; una capitale civile che non può dirsi ancora di secondo ordine nel mondo conosciuto, ma solo primeggiare nel terzo. abbassamento della nuova capitale Ecco la gloria guadagnata da Roma divenuta capitale civile ed officiale dell’Italia nuova. Divenuta, intanto l’eterna città dei papi [capitale del nuovo regno d’Italia], cessarono anche le idee grandi, si restrinsero le sue idee monumentali, e naque il bisogno d’ingrandire la città in forma di un campo provisorio, [perciò] non si vedono più le opere grandi dei papi. La Roma civile nuova, sia [per] mancanza d’idee, sia [per] mancanza di mezzi non sa più costrurre un monumento, da segnare la sua nuova rigenerazione, essa scava la terra come i topi per cercare sotto terra la gran Roma dei barbari, colla quale vorrebbe imparentarsi anche nei costumi, e nella schiavitù che sta preparando ai rigenerati.

Tale è la sorte di Roma attuale, tali le mie impressioni al rivederla; anche Atene, vinta e battuta dai romani, sognava e sogna ancora le sue grandezze antiche, e le cerca [p. 95] sotto terra, perché è divenuta un sepolcro di rovine, ed ha perduto il genio delle cose grandi. Roma, mi diceva uno che dall’estero veniva con me, ha cangiato il sole colla stella d’Italia, ma la stella è sempre stella fatta per la notte, fatta per chi dorme e per chi ruba; fatta per chi sogna le sue perdute grandezze, e sta aspettando l’aurora e la sortita del sole.

/280/ arrivano le lettere del re Menelik
[8.8.1867]
Dominato intanto io dalla malinconia dell’epoca presente facio ritorno alle grandi feste di Roma Papale del 1867. Non erano ancora esse finite, che da Aden già veniva la risposta del Re Menilik, il quale, appena ricevuta la mia lettera, fece partire subito un suo fido alla volta di Zeïla, e di Aden in cerca di me. Il P. Alfonso da Macerata mi mandò subito la lettera di Menilik, ed a norma degli ordini lasciati colà; ho ricevuto, diceva nella sua lettera, gli inviati con tutti gli onori possibili: ma il governo inglese, il quale aveva ricevuto anche qualche lettera da Menilik, diede agli inviati un’allogio, e fissò loro una somma per vivere. Questa lettera di Menilik fu subito [subito] stampata da Marietti, allora Direttore della tipografia poliglotta della Propaganda.

mia partenza da Roma
[18.8.1867]
per Marsilia
[arrivo: 20.8.1867]
[a Lione: 26.8.1867]
Io intanto ho finito al più presto possibile i miei affari; ho preso congedo dal Santo Padre, e sono partito quasi subito [p. 96] per Marsilia, dove mi aspettavano i giovani venuti da Massawah con grande impazienza. Il mio arrivo fu un vero spettacolo da intenerire qualunque; ho passato tre giorni con quella nuova famiglia in continue conferenze, e poi lasciando al P. Emmanuele le mie istruzioni per preparar i giovani alla Confermazione che io aveva fissato [di] amministrare loro nella festa della natività della Madonna, partenza per Parigi
[27.8.1867]
sono partito per Parigi, dove mi aspettava il Signor d’Abbadie. Questo caro signore era già in ritardo di partenza per la sua campagna dei bassi Pirenei, ed io al pari di lui aveva pochissimi giorni a mia disposizione per trattare tutti i nostri affari, i quali erano moltissimi; ho lasciato perciò di dimorare in Convento, e mi sono stabilito presso di lui; così il giorno, e la notte era tutta a nostra disposizione. Antoine d’Abadie e la mia grammatica
[prefazione: 24.5.1866;
pubblicata: Parigi, 1867]
La mia grammatica era terminata, e rimaneva solo l’errata corrige da mettersi ad calcem della medesima, per essere consegnate [le correzioni] ai legatori. Egli s’incaricava della distribuzione prima di lasciare Parigi. Ho fatto con lui le diverse visite indispensabili ad alcuni dei principali amici, ed ai due ministeri degli esteri, e della marina, coi quali io aveva alcuni affari da finire; quindi al Consiglio centrale della propagazione, a quello delle Scuole d’Oriente, e dalla Santa infanzia lasciando all’amico ogni cura.

ritorno a Lione
[30.8.1867]
In meno di otto giorni ho finito i miei affari in Parigi, ed il 3. Settembre fù il giorno della nostra separazione effettiva. Egli avrebbe desiderato di accompagnarmi [p. 97] sino a Marsilia per conoscere il suo figliozzo, ma io stesso ho dovuto pregarlo di restarvi per finire i miei affari di quella capitale. Così partito da Parigi il 5. dello stesso mese ho potuto visitare il Consiglio centrale di Lione, e partire della stessa sera per il diretto e Marsilia
[6.9.1867]
alla volta di Marsilia, dove mi aspettava il P. Provinciale Domenico, venuto anche egli da Roma dopo di me, coi suoi Deffinitori.

/281/ prima comunione e Cresima dei giovani
[8.9.1867]
Si liquidarono alcune difficoltà sull’amministrazione del collegio, e licenziatomi da loro, ho passato due giorni per preparare i miei giovani alla prima loro comunione, e ricevere il sacramento della Confermazione la mattina della Natività. La notizia della funzione, nella quale io avrei detto qualche parola, si sparse per la città di Marsilia, e vi fù un concorso tale, che i due terzi della popolazione accorsa dovette rimanere fuori della Chiesa. Fu una festa tutta tenera ed edificante, la quale terminò la sera col canto dell’inno Te Deum

partenza per l’Egitto
[9.9.1867]
arrivo in Alessandria
[15.9.1867]
Passata la festa, i posti erano già stati presi sul vapore, e la mattina seguente dopo le nove siamo andati a bordo, e si partì direttamente per Alessandria d’Egitto. Anche in Alessandria non sono rimasto che soli due giorni, tanto che bastasse per regolare le partite dell’amministrazione con Monsignore [p. 98] Ciurcia, il quale, essendo [27.7.1866] nuovamente succeduto a Monsignor Wicicce nella Delegazione di Alessandria, egli desiderava alcuni schiarimenti nella Procura della missione nostra, a norma dei suoi predecessori. Dopo ciò, e Caïro
[20-24.9.1867]
[sono] andato al Caïro con P. Elia Vicario Generale di Monsignore; ad istanza di questo ho dovuto consacrare anche là due giorni per dire qualche parola ai giovani del collegio dei Fratelli [delle Scuole Cristiane], ed ascoltare alcune confessioni. Il P. Venanzio, Prefetto del piccolo convento detto dei Copti aveva già scritto a Suez di avvertire gli operai abissini del mio passagio, ed instava, affinche fosse riservato un giorno anche per essi prima che partisse il vapore. Così si fece, ed partenza per Suez
[25.9.1867].
ho lasciato il Caïro senza neanche salutare gli amici, e mi volle gran pena per trovare il tempo a tutto: tanto più che vi erano anche alcune monache del Buon Pastore, [24.9.1867] le quali mi aspettavano. I luoghi di missioni non trovano sempre un confessore, epperciò ministero in Suez qualche volta bisogna anche sapersi prestare.

gli operai abissini Con gran mio piacere, ho trovato in Suez, che molti degli operai abisini conoscevano già abbastanza un poco di arabo per potersi confessare dal missionario lcale; io perciò mi sono limitato ad alcuni, nuovi, i quali ne avevano molto maggior bisogno, come mancanti di lingua, e più esposti degli altri [p. 99] alla cacia dei mussulmani, ed io al solo vederli, soleva occuparmi a preferenza di essi, perché, una volta caduti nel lacio, i poveretti sarebbero stati esposti a perdere anche la fede. Nel mio passagio di un’anno prima, come già dissi a suo luogo, ho dovuto portarne via due per salvarli dal lacio in cui già erano caduti, divenuti poi bravissimi giovani; fù per me questo un grande avviso. Ringraziando Iddio ho trovato tempo a tutto.

[partenza da Suez: 27.9.1867]
arrivo in Aden [2.10.1867];
festa di s. Francesco
[giungono: 18.10.1867]
[inizio lug. 1867]
Venne il giorno della partenza da Suez verso il fine di Settembre, ed ho potuto arrivare in Aden il due di Ottobre per la festa del Serafico /282/ Padre S. Francesco. Da me avvertiti per tempo, per la stessa festa già erano arrivati da Massawah qualche giorno prima il P. Prefetto Taurino col suo Compagno P. Ferdinando, epperciò, per parte nostra, tutto andava bene. Anche il corriere mandato dal re di Scioha, per nome Ato Mèkev coi due suoi servi, già un poco annoiati del mio ritardo, furono sommamente consolati, perché trovarono in me una persona la quale conosceva la lingua loro da poter parlare. Mekev compagno di Kraf
[29.5.1839-12.3.1842]
Johann Ludwig Krapf 1810-1881 M.P.
Ato Mekev era un’antico domestico del Signor Kraf missionario protestante [p. 100] nel regno di Scioha nel tempo del Re Sela Salassie. Questo Signor Kraf caciato dal regno di Scioha dal Re suddetto, e ritornato alla costa per la via dell’Abissinia e di Massawah circa l’anno 1849. in tutto il suo viaggio fu accompagnato da questo Signor Mekev stesso sino ad Alessandria, e non lo lasciò se non [che] quando Kraf partì per l’Europa. Da questo Signor Mekev, divenuto mia guida, ho sentito tutti i dolorosi detagli dell’esilio del suddetto missionario protestante suo principale e maestro; ma nel tempo stesso non ho lasciato di conoscere il deposito di errori lasciati nel suo cuore, errori che mi costarono molta fatica per distruggerli.

Questo Signor Kraf stette in Scioha alcuni anni ancora dopo l’espulsione della deputazione inglese capitanata dal Capitano Harris. riputazione di Kraf Kraf non aveva moglie e godeva [una riputazione] di una certa quale riputazione, anche in materia di continenza, ma più principalmente, perché egli sapeva rispettare la fede e tutti gli usi del paese, massime in materia di culto della madonna e dei santi, e del digiuno, lasciando anche da una parte certi errori protestanti. Il Re Sela Salassiè lo rispettò sempre. Un giorno fu informato il Re, che Kraf teneva in casa una donna, e volle ad ogni costo saperne la verità; sotto pretesto di aver bisogno di qualche cosa, di notte ad un’ora impropria mando da lui un suo fido, e pare, da quanto mi raccontavano, [p. 101] abbia trovato di che convincersi della verità, motivo per cui non lo amò più; eh, diceva il Re, chi finge avanti [a] Dio, fingerà anche avanti di me, e si vuole che incomminciasse da quel fatto il piano di caciarlo via. Io però credo piuttosto che sia stato per un’altra ragione; affare dei fucili, e suo esilio Kraf aveva fucili, ed in quei tempi i fucili erano un’affare ancor più pericoloso del giorno d’oggi. Il Re cercò di comprare i fucili, e Kraf non volle venderli; spiccò il decreto di esilio, mandandolo per la via dell’Abissinia, perché la strada di Zeïla era già stata chiusa prima, dopo la partenza del Capitano Harris. Lo fece consegnare ad Kraf spogliato da Adera-villỳ un principe Galla per nome Adera-Villi, il quale da principio lo ricevette bene, ma poi anche egli cercò di comprare i fucili, e rifiutando Kraf, lo fece spogliare di tutto, e lo mandò mezzo nudo, a segno che /283/ [Aden: nov. 1842] arrivò alla costa domandando la limosina. Ciò che più fa stupire è che quei fucili andarono al gran Re Sela Salassie; da ciò si pensava che Kraf fosse stato spogliato di suo ordine; cosa che in lui fa stupire, perché Sela-Selassie lasciò una fama di gran probità, e direi quasi santità a modo abissino, cioè exceptis mulieribus a modo turco.

Kraf era una persona di talento, da quanto ho sentito di lui, anche da molti dotti; egli lasciò qualche scritto che ho veduto citato parecchie volte, ma che non ho letto. [dic. 1837] Egli era andato in Abissinia in qualità di missionario protestante, sotto [p. 102] la protezione del vescovo eretico Salama; sortito dall’Abissinia andò in Europa per publicare alcuni suoi lavori; e poi di là, ritornato in Oriente, dopo alcuni anni si recò nelle indie, dove si trovava ancora verso il 1860; [† 26.11.1881] dopo di ciò [non] ne seppi più nulla. Kraf andò in Abissinia nello stesso tempo che vi andò Issembergh, e Samuele Gobba
[Gobat giunge: feb. 1830; con Isembergh: 22.6.1843
Issembergh, e Samuele Gobba, tutti [e] due uomini classici nella storia delle missioni protestanti. Il primo di questi due si fece un nome per alcuni lavori scientifici stampati in lingua abissinese, di nessun valore per gli europei, come è chiaro, e di nessunissima utilità per gli abissini, i quali non potevano comprendergli, avendo [l’autore] fatto uso di nomi estranei [alla comprensione locale], in gran quantità senza una parafrasi, da imgombrare il senso. Il secondo Samuele Gobbà fu classico, perché, sortito dall’Abissinia, [1846] fu fatto Patriarca di Gerusalemme: fu il primo che portasse questo nome, e maritato con figli; di modoché gli stessi abissinesi ridendosene di lui, lo chiamavano Patriarca dell’ordine di Abramo, o di Giacobbe; queste dignità, anche fra gli eretici orientali, furono sempre date a monaci. [espulsi: Gobat: 12.12.1832; Isemberg: 22.6.1843] Anche questi due furono cacciati dal Tigrè, se non erro, nel 1844.

Ho voluto riferire queste storie, perché hanno una qualche connessione colla storia del nostro viaggio, del uomo che ci accompagnava, e del paese, dove eravamo diretti, cioè allo Scioha, benché non per restarvi, ma per passare più avanti, a tenore [p. 103] della mia domanda fatta al Re Menilik. il sognor Mekev è contento di vedermi Ritornando ora al mio arrivo in Aden, chi fece gran festa fù il Signor Mekev, perché allora cessarono tutte le sue pene sopra il risultato del suo viaggio, trovando egli colui che cercava; ora che voi siete venuto, mi disse, io non ci penso più, perché il pensiere sarà tutto di voi. Il povero Signor Mekev aveva bensì imparato un poco di lingua araba con Kraf, ma dopo molti anni non sapeva [più] spiegarsi. Il governo inglese gli aveva fissato qualche somma per vivere, ma alcuni impiegati arabi, incaricati di lui, vi mangiavano sopra, e gli davano ciò che volevano. Feci chiamare l’arabo incaricato, mi feci dar conto di /284/ tutto, e come sapeva che io stava bene col governo, allora si mise in regola.

mia visita a lui Io, appena arrivato, gli ho fatto una visita in gran tenuta per onorarlo in facia al paese, come inviato del Re Menilik, e lo invitava soventi a pranzo alla missione. Voi non siete cristiano? gli dissi, venite in Chiesa qualche volta, affinché, se non altro, vi farete conoscere che non siete, ne mussulmano, [p. 104] e neanche protestante; religione del signor Mekev no, rispose egli, io non sono mussulmano, e non sono protestante; anzi le dico che io sono diacono, e non vado alla Chiesa dei protestanti, perché ho veduto che essi non dicono la Messa; io ho ricevuto in Caïro il diaconato dal Patriarca Copto, e mi raccontò tutta la storia dell’ordine ricevuto. Allora, come io aveva qualche catechista abissinese, lo feci istruire, ed io stesso non mancava d’istruirlo per quanto poteva. Se il Signor Mekev fosse stato un semplice abissinese, come erano gli operai di Suez, sarebbe stato per me un’affare più semplice, ed avrei potuto più facilmente portarlo a ricevere i sacramenti, ma il poveretto era stato alcuni anni col missionario Kraf, e benché non si sia dichiarato protestante, pure io doveva supporlo imbevuto di molti errori dei medesimi, oltre a tutti gli altri disordini che non mancano ad un persona senza una guida, come ognuno può imaginarsi.

difficoltà per la sua conversione Se il Signor Mekev fosse stato un giovane abissino sotto i 20. anni, anche per questa parte avrei trovato minori difficoltà per metterlo all’ordine di un bravo cristiano praticante, ma egli era già una persona fatta verso i 40. anni di età, con moglie e famiglia; matrimonio abissino chi conosce l’Abissinia non stenta [p. 105] ad immaginarsi un gruppo di altre difficoltà che si presentano per mettere in regola simili persone per la parte del matrimonio. Difatti il povero Mekev aveva già ripudiata una moglie con figli, e conviveva con una seconda parimenti con figli, epperciò, oltre la fede, egli per questa parte [stava] con dei vincoli rispettabili, bastanti per tenerlo lontano dai sacramenti. Dalla parte della fede, con un poco d’istruzione vi sarei arrivato prima di partire, ma quando il povero prete trova simili imbrogli, egli ha le mani legate. In Abissinia si può dire che è conosciuto il matrimonio evangelico, ma non è praticato, che da pochissimi. La quasi totalità vive in matrimonio legata da una società di contratto civile e nulla più. Nel contratto non si parla di condizione di potersi separare, ma si suppone questa condizione, perché la legge civile obliga l’autorità locale ad ammetterla ed approvarla, all’istanza semplice di uno dei due coniugi, e si occupa della divisione dei beni frà i medesimi.

/285/ è un concubinato civile È chiaro perciò che il matrimonio ordinario degli abissini si riduce ad un semplice concubinato approvato dalla legge civile. Di legge ordinaria, di questi matrimonii, appena di dieci uno si può dire stabile; molti a quarant’anni hanno già cangiato tre o quattro volte la moglie con grande scapito della famiglia. [p. 106] Per far conoscere in tutto la presente questione molto grave per il ministero nostro sacerdotale, ed anche per la massima in se stessa, sopratutto in questi tempi, in cui la nostra civilizzazione stessa suole sollevare la questione del divorzio come riforma, io non farò altro che narrare semplicemente la situazione di quell’inviato, tal quale egli stesso me la raccontò, quale poi in seguito io ebbi tutta la commodità di esaminarla. [1842]
le diverse mogli del signor Mekev.
Ritornato dall’Egitto in patria ho sposato una donna secondo l’uso del paese, e sono rimasto con essa circa cinque anni; da essa ebbi due figli[:] un maschio ed una femina; dopo di ciò incomminciando essa a farsi altri amici, ci siamo separati secondo l’uso del paese. Io mi sono sposato con un’altra, e la ripudiata essa pure sposò un’altro marito. La mia seconda moglie mi diede due femine ed un maschio, ma il nostro amore raffreddatosi, colla seconda ci siamo separati senza far divorzio, dando ad essa una terra che le bastava per vivere colla sua famiglia; io poi ne ho preso un’altra, colla quale conviveva abitualmente, ma non ebbe figli. Questa è una schiava educata in casa, e molto affezionata alla medesima.

Per non ritornare alla storia di questo uomo, il quale servirà di tipo ai miei lettori per giudicare dello stato dei due terzi, o forze più, delle famiglie abissinesi, io continuerò a lasciarlo parlare. Più tardi, dopo il nostro arrivo in Scioha, avendo egli ottenuto un grande [p. 107] impiego alla corte di Menilik, e [1869] divenuto un gran personagio, egli avrebbe amato più di ogni altra cosa il mettersi in regola di coscienza; non era più questione, ne di fede, ne di altro, tut[te] le altre difficoltà erano sparite: [cresimato: 4.4.1869] il suo figlio Tessamà, divenuto seminarista nostro non faceva che inculcargli questo, ogni giorno ritornava sulla questione, ed avrebbe desiderato che io decidessi il suo caso, ma confesso che io stesso mi trovava imbarazzato a decidere. La sua prima moglie madre di Tessamà erasi legata da molto tempo con altro marito, ed aveva avuto altri figli da lui; la seconda sua moglie, essa non era convertita, e rifiutava di fare il matrimonio indissolubile, conosciuto in paese sotto il nome di cuorabì (comunicante, perché i soli maritati indissolubilmente potevano ricevere l’eucaristia). si conchiude il matrimonio di Mekev. Alla fine ho dovuto finire la questione sposandolo colla terza, la quale era sua schiava. Quest’uomo con tutte le sue richezze era un’essere infelice: i figli della prima e della seconda moglie non si pote- /286/ vano vedere fra loro. Tali sono le condizioni del divorzio. Per fortuna che il Signor Mekev era ricco, ma un povero, come avrebbe mantenuto tre case separate con figli?