/86/

10.
Nuove gestioni. La missione di Finfinnì.
Restaurazione dell’antico regime scioano.

il mese di settembre detto «Meskerem» Arrivò intanto il mese di Settembre, mese equivalente al Maggio dei nostri paesi, perché dopo le pioggie della zona del sole, in quel mese tutto è in fiore, epperciò [sarebbe] l’unico mese dell’anno, che colà dovrebbe essere dedicato alla Madonna, il fiore del mondo in facia [p. 388] alla corte celeste; mentre il mese di Maggio nostro è il mese più triste e malinconico di tutto l’anno, perché in esso tutto è secco, e tutto polverio. Il mese di Settembre è il primo mese dell’anno nell’Abissinia, e quasi in tutto l’oriente, mese in cui si publicano le leggi e si danno le cariche ed impieghi (1a) Come il Re già mi aveva confidato, così fù, il nostro Signor Mekev ricevette l’impiego del Sega biet, che importa l’amministrazione di tutti i pascoli del regno, e di tutti gli animali destinati al macello, di proprietà regia. Si avvicinava perciò l’epoca in cui doveva trattarsi l’affare del nuovo stabilimento e missione di Finfinnì per Abba Jacob. Mi fu di tutta necessità perciò pensare alla partenza per Liccè. Benché in Fekeriè Ghemb non mi mancassero le occupazioni, e fossero anzi in certo senso maggiori; pure le mie occupazioni là essendo tutte di ministero apostolico, mi erano più simpatiche; e d’altronde in Fekeriè Ghemb io mi trovava meglio di casa, ed era anche più libero di persona, epperciò mi rincrebbe molto lasciare quel luogo; ma chi ha già abbandonato più volte il mondo grande ed il mondo piccolo dello stesso Ordine religioso sa addattarsi.

partenza da Fekerè ghemb Venuto il momento di partire da Fekeriè Ghemb fu una vera crisi dolorosa per tutta quella popolazione, la quale si trovava bene di corpo e di anima. L’Alaca Tekla Tsion con una gran parte dei suoi scuolari vollero /87/ seguirmi [p. 389] e così siamo partiti lasciando tutto il mondo nell’afflizione. Sarebbe una ripetizione il dire che il nostro viaggio fu una conferenza continua mista, ora di dogma, ora di morale, ora di mistica, ed ora anche di filosofia, dando ragione di certi fenomeni di ogni classe che si trovavano [ad] ogni istante in quei paesi, per i quali gli indigeni sono avidissimi di sapere. le perpetuelle e la pioggia Siamo arrivati all’altezza circa i tre quarti di Emmavret, dove, come già notai altrove si trovano le perpetuelle ed ho pregato quei giovani di raccoglierne una quantità per ornare il mio quadro della Madonna della nostra Cappella di Liccè: detto, fatto, andarono quei giovani e ne portarono ciascuno un piccolo mazzetto; veda, Padre, mi dissero, è una fatalità[:] sono tutti chiusi, e non sono ancora fioriti. Cosa mi dite? risposi loro, corriamo dunque, perché altrimenti saremo colti dalla pioggia; vedete, questi fiori jeri erano tutti aperti, e si sono chiusi questa notte, [il che è] segno di pioggia.

Di fatti ebbimo appena tempo di montare Condy che ci trovammo inviluppati dà una nebbia foltissima, la quale non tardò a risolversi in dirotta pioggia, e siamo arrivati a Liccè. Se fosse stato in Europa una pioggia simile [d]i parecchie ore sopra le spalle, sarebbe stato un’affare [p. 390] da prendersi una bella malattia, ma in quei paesi di clima sempre eguale, niente di tutto questo; un’ora prima di arrivare alla città le nostre perpetuelle si riaprirono, e non tardò a sortire un sole ardente che seccò tutte le nostre vesti prima di arrivare a casa. Quelle perpetuelle sono un’igrometro marcatissimo, e fanno l’officio del cappuccino in uso fra noi per marcare la pioggia. I nostri giovani di casa la mattina solevano osservare le perpetuelle della madonna per conoscere il tempo. nostro ritorno a Liccè
[31.8.1868; udienza del re che accorda Fekeriè ghemb: 4.9.1868]
Appena arrivato a Liccè ho mandato subito qualcheduno dal Signor Mekev per i complimenti di uso per la sua promozione; egli era circondato da amici venuti [d]a lui per lo stesso motivo, colla differenza però che i nostri andarono colle mani vuote, mentre gli altri si presentarono colle mani piene, e molto più piene coloro che spera[va]no qualche impiego sotto di lui; in quei paesi un simile impiego porta un gran movimento d’impiegati subalterni, e quindi una gran risorza per il nuovo impiegato; chi paga per non essere levato, e chi per ottenere il suo posto.

il commercio degli impieghi In tutti i paesi di governo debole cosi vanno le cose[:] si danno gli impieghi principalmente per mangiare, e poi secondariamente per servire il publico; [p. 391] incommincia [a] lucrare lo stesso governo nel dare gli impieghi vendendoli indirettamente al maggiore offerente, benché incapace; lucra e mangia il governo nel dare l’impiego colla condizione indiretta di lasciare mangiare l’impiegato alla sua volta coi suoi /88/ subalterni. Così cangiatasi la natura dell’impiego, tanto in alto che nel basso, e divenuta una piazza di proprio interesse, perde il governo che mette nelle cariche gli incapaci, e perde alla sua volta anche l’interesse publico, e tutto diventa un commercio egoistico. La stessa chiesa scismatica dove regna la simonia così camminano anche le cose, e così suole [de]cadere il sacro ministero, il quale non parte più da un principio di zelo e di azione, ma da un principio egoista di onore e di lucro. Quindi tutto essendo venduto, e venduta la stessa giustizia, diventa un governo di inabili. La sola Chiesa di Dio con gran pena, e con grandi rigori disciplinari si è mantenuta sempre pura, epperciò ha avuto sempre dei grandi uomini, ed ha potuto fare sempre portenti nel mondo. Ma guai al momento in cui l’impiego diventerà un benefizio invece di essere un peso! Lo stato, e la stessa Chiesa diventerà un capitale da essere venduto e prostituito.

Il Signor Mekev, benché occupato nel fare il suo commercio di nuovo impiegato, pure non dimenticò i grandi servizii dalla missione ricevuti, ed appena arrivato [p. 392] io venne quasi subito a trovarmi. la questione di Finfinnì Si parlò degli affari della missione di Finfinnì, e dimostrò le più sincere disposizioni di aggiustare le cose col P. Prefetto Abba Jacob. Era questione di un terreno abbastanza vasto, il quale contenesse almeno una ventina di case di gabbar [= portatori] già stabilite, le quali formassero la base di una piccola colonia indipendente subordinata alla missione; questi gabbar avrebbero dovuto aiutare i missionarii nella costruzione delle nuove case da farsi, e per coltivare una quantità di ter[re]no per il necessario mantenimento della casa della missione. Il complesso dei pascoli regii formanti Abelam di Finfinnì soggetto al Signor Mekev, comprendeva forze una circonferenza di 40. kilometri, con un centinajo di case. Sarebbe stato il caso di smembrare dal detto corpo di pascoli al più dieci kilometri di circuito con una ventina di case. La questione era grave, ma non gravissima, poiché il Re in tutto il suo regno possederà forze una cinquantina di simili pascoli, anche più grandi.

liberalita del re e di Mekev Ora il Re Menilik aveva già spiegato il suo piano forze ancora più vasto e generoso. Il Signor Mekev aveva per noi delle eccellenti disposizioni, e sarebbe stato glorioso di finire questo affare in modo che la missione fosse contenta. miei impegni Io poi, sperando sempre ancora di poter partire alla volta del Gudrù, e delle altre missioni ovest, [p. 393] avrei voluto finir presto questo affare prima della mia partenza, perche Finfinnì era un bellissimo luogo, il più centrale che si avrebbe desiderato per le relazioni colle missioni antiche tra il Gudrù e [il] Kafa già stabilite. Il momento della mia partenza può arrivare da un giorno all’altro, io diceva fra /89/ me stesso; questa mia partenza potrebbe cagionare qualche freddezza coi Re e con molti del suo governo, epperciò vorrei che tutto si finisse prima. [5.10.1868] Ho parlato molto col Re, ed ho parlato ancor di più col Signor Mekev, il quale ogni sera sortendo dalla corte per andare a casa sua passava sempre da me, e si fermava almeno mezzora. Io perciò teneva come certo che la cosa sarebbe sortita presto e compita.

i missionari a Finfinnì
[partenza da Liccè: 8.10.1868; arrivo: 11.10.1868; arrivo di p. Ferdinando: 26.10.1868]
Appena arrivato io da Fekeriè Ghemb i missionarii per parte loro, impazienti di levarsi di frammezzo la melma della corte, vollero ad ogni costo partire, e congedati dal Re, muniti di ordini provisorii, già si trovavano sulle vicinanze di Finfinnì, e già avevano incomminciato [a costruire] alcune case in un sito da loro scielto chiamato Birbirsa, dove aveva esistito un’antica chiesa, della quale esistevano ancora alcune rovine, ed alcuni sepolcri. I loro lavori andavano molto adagio, benché un poco [p. 394] ajutati da alcuni galla vicini a titolo di pura amicizia. Essi avevano preso allogio provisorio nel cortile di un ricco galla per nome Sarrawa il più vicino a Birbirsa. Benché il loro padrone gli trattasse molto bene, pure la numerosa famiglia che avevano si trovava molto alle strette, e gridavano a me per avere un titolo un poco più esplicito che servisse loro d’introduzione presso quelle tribù. il re decide la questione
[8.4.1869]
Alla fine il Re si decise di agire; chiamò il Signor Mekev, e l’obligò a prendere una decisione. Come in quei paesi tutto si fa a parola d’uomo, e questa è di un’elasticità che si presta a tutto, il tutto si fece nelle debite forme, e formalità, ma in una proporzione di un terzo di quanto pensava il Re, e lo stesso Signor Mekev. Basti il dire che le ultime precise intenzioni del Re Menilik e del suo ministro si ottennero appena due anni dopo a forza di atti publici ottenuti per forza, e dopo mille disturbi, come se si fosse trattato di un’affare di stato.

restizioni in pratica difetti d’amministrazione La ragione di tutta quella restrizione non fu un cangiamento, ne della parola reale, ne di quella del suo ministro, ma unicamente perché si dovette passare per l’atrafila di dieci impiegati subalterni, i quali tutti, ciascheduno nel suo posto, [p. 395] avevano, tutti un diritto di mangiare, secondo gli usi di quel dicastero, e vero diritto comprato con certi contratti innominati in modo, che sopra dieci un solo doveva arrivare all’erario del Re, sopra cinque uno doveva entrare nella borsa del Signor Mekev, e così in proporzione di tutti gli altri impiegati subalterni. Quando il Re coll’atto publico diede l’impiego al Signor Mekev, secondo l’uso del paese, della sua autorità e padronanza diede nove, e tenne per se uno; Cosi il Signor Mekev, quando cangiò i suoi subalterni in forza di regali ricevuti anche egli senza nemanco riflettere incontrò delle obligazioni senza fine con uno direttamente, ma con dieci indiretta- /90/ mente, ed obligazioni in certo modo di giustizia tale, che, anche nel caso che tutti quei impiegati subalterni fossero stati Cristiani cattolici, in foro conscientiæ un confessore stesso avrebbe avuto di che pensare prima di condannarli.

Così arriva in certe società troppo complicate, ed apoggiate ad una certa buona fede che non esiste più, se non di semplice nome, nella moralità publica; una similitudine essa è come una machina di orologio piena di rugine e di polvere, dove ciascun dente ritarda il movimento per una diminuzione di forza stata divisa da un’ [p. 396] elemento estraneo al movimento del machinismo da paralizzarlo quasi totalmente in modo da guastare l’orologio talmente, che l’artefice quasi scieglierebbe di mettere l’orologio di nuovo al fuoco per farne un’altro più semplice. La moltiplicità delle ruote e degli ordegni per se stessa è ordinata a facilitare il movimento dividendo il peso della leva a diversi punti, ma quando ogni ruota ha una vita e dei bisogni a parte, allora finiscono per ingombrare di più l’organamento quasi vitale della machina. troppi impiegati ne sono la causa Così il re Menilik con una senatoria avrebbe con tutta facilità potuto cedere tutti quei pascoli alla missione, mentre difficilmente poteva staccarne un pezzo tenendo in piedi tutta quella amministrazione. Si verificava là ciò che diceva un soldato di Napoleone primo; in pieno campo di battaglia egli era un leone che faceva tremare il mondo; entrato a Parigi diventava un pigmeo che si lasciava vincere da uno miserabile scriba. I missionarii miei quasi dubitavano della sincerità del Re, e del ministro; invece tutto all’opposto erano molto spiacenti di vedere le loro parole ed i loro passi arenati come chi cammina nelle maremme col fango sino a mezza gamba.

diversità tra il nord e il sud in Etiopia Ho voluto trattenermi in tutti questi detagli per far conoscere la civiliz[za]zione del regno di Scioha a preferenza dell’Abissinia del Nord caduta molto più bassa del Sud. In tutta l’Abissinia del Nord non esiste [p. 397] più proprietà fuori di certi luoghi privileggiati, come alcune città riguardo a certe case, e ad alcuni predii urbani, tutto il resto è come un deserto ridotto all’essere di pascolo publico; chi ha mezzi per coltivare coltiva dove vuole. Il governo raccoglie tributi sopra i bestiami, e sopra l’aja divide il raccolto dai pochissimi coltivatori, ma i terreni non pagano più tributo, ne trovano compratori. All’opposto, dalla storia sopra narrata si vede quanto diversa [sia] la condizione del regno di Scioha, dove la popolazione è fiorente, dove il minimo pezzo di terreno ha il suo proprietario e può venderlo se [lo] desidera a ragionevole prezzo, a fronte dei rigorosi tributi che il terreno paga al governo; ciò in grazia di una dinastia tutta paterna che governa colà da quasi due secoli.

/91/ i veri re di Scioha
[1813-1855]
ed il giogo do Teodoro
[1855-1865]
È vero che nel regno di Scioha per la troppa bontà dei governanti, come si disse sopra, il paese di Scioha è stato inondato da una sovverchia quantità d’impiegati e di usi che rendevano il governo troppo debole da una parte, e dall’altra pesantissimo sopra le infime masse popolari; tuttavia al nostro arrivo era ancora il migliore paese di tutta l’alta Etiopia. Nei pochi anni che vi regnò Teodoro in Scioha fu rovesciata tutta l’organizzazione troppo complicata degli antichi Re, e vi sottentrò un giogo ferreo di una vera schiavitù [p. 398] peggiore ancora della greca, e della romana, che Iddio aveva permesso sopra i nostri antenati pagani, onde prepararli alla ristaurazione della vera libertà evangelica. dura schiavitù dell’impero La povera popolazione del regno di Scioha adunque, abituata da più di un secolo ad un governo tutto paterno del suo re (1b), caduta sotto la dura schiavitù dell’imperatore Teodoro, il quale, senza misericordia affatto, a colpi di bastone, l’obligava non solo a dare al governo in tributo i cereali frutto delle proprie fatiche, destinato alla propria sostentazione, ma come un’asino da soma portarlo sulle proprie spalle sino a Magdala, e sino a Devra Tabor, dove arrivato, [veniva] ricevuto con rimbrotti e minacie, obligato ancora a mantenersi e lavorare da schiavi settimane e mesi prima di essere congedati.

sospiri e tendenze verso i re Fu cosa naturale perciò che quella popolazione tendesse ad ogni costo alla rivolta, sospirasse il governo dei loro antichi re, e che finalmente venuto Menilik, lo ricevessero come un’angelo venuto dal cielo. Menilik poi per parte sua, educato alla corte di Teodoro, dove imparato aveva una disciplina di ferro e senza misericordia, trovatosi come per miracolo in possesso del trono dei suoi padri, è chiaro che avrebbe potuto ritenere una parte delle riforme introdotte dal conquistatore, anche con un certo vantaggio della popolazione, [p. 399] la quale in verità era stanca delle complicazioni introdottesi nel governo, come già si disse; circostanze critiche ma il Re Menilik era troppo giovane per pen[dere] a riforme, e le circostanze erano troppo torbide per tentarle, la popolazione poi in odio della schiavitù sopportata, nemanco ci pensava più, contenta di possedere il suo antico Re. Così il nuovo Re Menilik, appena giunto, per dare una piena soddisfazione a tutti, in due parole, come si suol dire, ordinò che il paese era ritornato alle medesime leggi ed usi in vigore nel tempo dei padri suoi, e che tali erano le sue volontà precise; divenuto egli difatti nemico di Teodoro, la circostanza era troppo critica per lui il pensare ad altro; tanto più che nell’amministrazione esistevano ancora molti degli antichi impiegati, i quali potevano ancora fare qualche reazione in favore del caduto governo.


(1a) In ciò il paese non è fortunato come noi, perché in questo mese colà tutti i frutti sono pendenti, cosa favorevole ai cangiamenti d’amministrazione oppure dei titoli di proprietà. Meglio [sarebbe] Gennajo, perché allora tutta la natura è in riposo perfetto. [Torna al testo ]

(1b) [Manca la nota M.P.]. [Torna al testo ]