/102/

12.
Deputazione galla e rifiuto di Menelik.
Teorie sui primitivi. Missione a Gilogov.

altri sviluppi della missione Mentre avevano luogo le ordinazioni di questi due sacerdoti, ed io attendeva al mio apostolato con un ministero misto, nel modo già prima descritto, in Liccèe nella città di Menilik, nei due anni 1868. e 1869. la missione di Finfinnì in Finfinnì la missione sotto la condotta del P. Prefetto Taurino incomminciava [a] prendere uno sviluppo consolante nel duplice aspetto materiale e spirituale. Le case dello stabilimento furono terminate da dirsi sufficienti per la famiglia. La popolazione dei contorni incomminciava a prender[vi] gusto ai catechismi di uso, e la nuova [p. 418] chiesuola era già uffiziata. Dopo alcune difficoltà quella missione si trovava come sistemata; il Re Menilik aveva esteso i confini dei terreni assegnati, come proprietà della missione, la quale contava circa una ventina di famiglie soggette come gabbar per il servizio e per la coltura dei terreni; una gran parte dei figlii già avevano ricevuto il battesimo. Mentre la Missione di Finfinnì incomminciava a svilupparsi [17.7.1869]
[2.4.1868;
13.5.1868]
vicino alla Pasqua del 1869. arrivò una deputazione dal Gudrù in Finfinnì. Poco dopo il nostro arrivo in Scioha era stato spedito un corriere a tutte le missioni antiche di Gudrù, di Lagamara, di Ghera, e di Kafa. Il corriere era stato diretto a Monsignore Cocino, il quale si trovava in quel momento in Gudrù. Questo Prelato trattenne il corriere presso di se, e fece partire subito altri corrieri alle diverse missioni suddette portatori delle nostre lettere. Tutte quelle missioni quasi non speravano più di rivedermi, ed al sentire il mio arrivo in Scioha, è innesprimibile l’entusiasmo col quale ricevettero la notizia. Monsignore Cocino pregato da tutti i nostri dovette pensare e risolvere la spedizione destinata di venirmi a prendere.

corriere del Gudrù
[lug. 1868; ritorno: 16.11.1868]
La spedizione [era] intanto rimasta a Finfinnì per la Pasqua, mi mandarono solo le lettere, affinché io avessi tempo a leggere e conferire col Re sopra le disposizioni da prendersi. Ho letto tutte le lettere venute dalle diverse missioni, e confesso che svanirono [p. 419] tutti i miei timori. Dopo [26.8.1861] la crisi del 1861. io non ho goduto più un momento di /103/ tranquillità, riguardo massime alla missione di Kafa, della quale io non aveva più avuto notizie dirette; quella missione nei miei calcoli futuri, era tanto importante, quanto tutte le altre missioni; io aveva lasciato colà alcuni migliaja di cattolici col solo Abba Hajlù. Lascio perciò considerare [quali fossero i miei timori al riguardo]: notizie consolanti di Kafa ebbene, tutto all’opposto, la missione di Kafa, mi diceva Abba Hajlù nella sua lettera, naturalmente ha dovuto soffrire per la sua partenza, e per la mancanza di ministero attivo; essa è stata alcuni anni sospesa nel suo movimento, ma, per la grazia di Dio, oggi posso dire che sente tutta la sua vita antica. La notizia della sua venuta ha svegliato un grande entusiasmo, tutti, persino [Gallito: nov. 1870-apr. 1890] il nuovo Re, sperano di rivederla. Il buon sacerdote indigeno passava quindi a darmi alcuni detagli consolantissimi. In quanto poi a tutte le altre missioni di Ghera, di Nonno, e di Lagamara, esse mancavano di sacerdoti, e si trovavano abbatute, ma la notizia del nostro arrivo le fece tirare un gran respiro di nuova vita, e tutte sperano di rivedere un’altro giorno simile all’antico.

notizie dal Gudrù In particolare poi la missione del Gudrù, essa aveva anzi avvantaggiato di molto: il nostro giovane Re Gosciò, mi scriveva Monsignor Cocino, esso, dopo [† apr. 1864] la morte del suo Padre Gama, regna pacificamente sopra tutto il Gudrù, ed assistito dal suo tutore Walde Ghiorghis [p. 420] ha già fatto molte leggi di riforma verso il cristianesimo, fra le altre l’osservanza della Domenica. Il nostro Gosciò ed il suo tutore Walde-Ghiorgbis, proseguiva Monsignore Cocino, essi spediscono regali al Re Menilik onde ottenere la sua venuta, nella quale tutti speriamo. Ma quì stava la gran difficoltà: io ne parlo al re il Re Menilik sentì tutte queste notizie con gran piacere, ma poi [non diede] quasi nessuna risposta diretta, e quasi nessun segnale di vedere presto l’arrivo della spedizione. arrivo della spedizione
[19-23.7.1869]
Di fatti, arrivata essa alcuni giorni dopo l’ottava di Pasqua, spedì subito a complimentarla con alcuni regali di comestibili, ma poi contro ogni suo uso in simili circostanze, ogni giorno [faceva] promesse, e mai veniva il giorno della sua ricezione, la quale ebbe luogo, direi quasi, freddamente, dopo circa otto giorni di nojoso riposo, e dietro mie replicate istanze.

Capo della spedizione era un sacerdote indigeno per nome Abba Jacob, quello stesso, di cui si è parlato molto nella mia andata a Kafa, colui che [dal 25.8.1861] rimase tre mesi in prigione in tempo del mio esilio da quel regno in compagnia di Abba Joannes, col quale [era poi] fugito, ripreso sulle frontiere, e poi rimandato libero col suo compagno suddetto. Con lui era venuto pure un servo di Abba Hajlù, un’altro [p. 421] del Padre Leone da Ghera, un terzo da Lagamara, ed un quarto dal Gudrù. Tutti portarono piccoli regali, ed in specie quello del Gudrù recava al Re /104/ Menilik una quantità di oro, spedito dal Principe Gosciò. suo ricevimento in corte Il Re Menilik ricevette il tutto con gran piacere; si trattenne a lungo cogli inviati parlando molto volontieri coi medesimi, i quali gli raccontavano notizie di tutti quei paesi, tutte cose nuove e curiose per quel giovane Re, il quale non si saziava più di detagli di ogni genere risguardanti la missione, la politica dei diversi principi, ed i costumi dei diversi paesi. impressioni diverse La conversazione fù molto lunga e graziosa; ma come era la prima volta non si parlò di altro, e fummo tutti congedati dicendo che si sarebbe parlato di affari in seguito. Secondo il solito il Re Menilik fece a tutti qualche liberalità regalando ad ognuno sufficientemente belle [camicie] da vestire, e dopo il nostro ritorno facendo seguire un pranzo di uso per loro. Come il ricevimento fu publico, fece un chiasso alla corte del Re Menilik, e diede motivo a molti discorsi di ogni genere.

Scioha imparò la strada Prima di questo fatto in Scioha non si era sentito mai [a] parlare, ne del Gudrù, ne di Lagamara, ne di Nonno, ne di Ennerea, ne di Gemma Abba Gifara, ne di Ghera, ne di Kafa, [non] essendovi nessuna comunicazione diretta, e conosciuta [p. 422] tra il regno di Scioha e tutti quei paesi galla della mia antica missione. Gli stessi mercanti musulmani, conosciuti in quei paesi sotto il nome di Wurgi, sudditi del regno di Scioha, prima di quell’epoca, non usavano di tenere la strada diretta [nella] direzione ovest per andare al Gudrù, all’Ennerea, ed a Kafa, ma tenevano la strada del nord, unendosi coi mercanti dei Wollo, si recavano in Iffagh, dove si univano coi mercanti di Massawah per recarsi a Basso, e poscia al Gudrù, È stata la missione nostra, che ha incomminciato ad aprire relazioni dirette tra il regno di Scioha e quei paesi della missione antica da me fondata, i quali con ragione si possono dire i più bei paesi di tutta l’alta Etiopia. future conseguenze Io poi non ho motivo di gloriarmi di questa iniziativa, perché una volta che Menilik ed il suo governo ebbero cognizione di quei paesi, e delle loro richezze, il cuor loro non riposò più fino a tanto che arrivarono colle loro armate. Incomminciò Menilik, [distruzione di Nunnu: 1.11.1878; di Lagamara: 3.11.1878] il quale nel 1875. arrivò sino a Lagamara; dopo di lui la gelosia vi portò anche le armi del Gogiam, ed oggi quei bei paesi diventarono il ballo delle armate cristiane [ch]e devastarono tutto, senza risparmiare la missione stessa. Ma si parlerà di ciò a suo tempo.

una seconda udienza Dopo sette o otto giorni a mia istanza la spedizione fu chiamata tutta sola, ed io l’ho lasciata andare, affinché potessero spiegarsi più liberamente. Appena arrivata essa alla presenza del Re prese la parola prima [p. 423] di tutti il sacerdote Abba Jacob, e dopo di lui, uno dopo l’altro parlarono tutti esprimendo il desiderio universale che io vi andassi [con loro] ; il Re sentì le parole di Monsignore Cocino, e di Gosciò /105/ principe del Gudrù, si lesse la lettera del P. Leone, e del P. Hajlù scritte anche a nome di quei Re. Molto bene, rispose il Re Menilik, io penserò a tutto, e preparate che saranno tutte le cose, tutto si farà. Intanto trattenne tutta quella gente parecchie ore a farsi raccontare notizie, e prendere informazioni di tutti quei paesi, e poi con belle parole gli [gli] congedò senza nulla conchiudere. Io gli scrissi parecchie lettere facendogli conoscere che la spedizione era impaziente di partire prima delle pioggie, ma il Re Menilik furbo, senza aver l’aria di rifiutare, da un giorno all’altro procrastinando arrivarono le pioggie, che in quell’anno molto anticiparono, e così venne la stagione dell’inverno, e si dovette stare in pace.

arrivano le piogie Come la città di Liccè in tempo delle pioggie diventava come impraticabile per il gran fango, io mi sono recato a Fekerie ghemb colla spedizione, perché colà mi aspettavano i due Alaca ordinandi per la scuola, ai quali si aggiunse ancora il sacerdote Abba Jacob [p. 424] ed ho passato colà due mesi facendo scuola a quei tre sacerdoti, e coltivando là piccola coionia di cristiani. sforzi inutili per la partenza Verso il principio di Settembre sono ritornato in Liccè per continuare le trattative della spedizione. Almeno all’aprirsi della stagione il Re avrebbe dovuto prendere qualche risoluzione per la mia andata al Gudrù e per il ritorno della spedizione. [inizio set. 1869] Presi io stesso il partito di parlarne direttamente al Re, il quale diede una speranza vaga la prima volta che ne feci parola, dopo di che prese ad osservare un silenzio misterioso; alla fine, come per levarsi la seccatura stette più di due mesi procrastinando sempre l’udienza e non ci trovammo più. Io ho utilizzato quel tempo per istruire il mio Prete, il quale ne aveva molto bisogno, ma, non solo il Prete, gli stessi suoi compagni incomminciavano ad essere inquieti per il ritardo della loro partenza, il quale prendeva un non so che di aspetto misterioso ed indefinibile. Parlando di questo ad un’amico che conosceva tutti i misteri della corte [mi confidò]: la difficoltà non è per la spedizione, la quale può partire quando vuole, ma la difficoltà è per Lei, cosa che il Re [non] farà mai, mi rispose egli; ella sospenda la sua partenza, e tutto sarà finito.

esame della situazione Già io dubitava di ciò prima ancora che quell’amico me ne parlasse, e come la questione era molto grave, trattandosi niente meno che di rimanere nel regno di Scioha, e di [abbandonare le missioni] [p. 425] abbandonare le antiche missioni dell’ovest, che io tanto amava, e che mi costarono tante fatiche, missioni nelle quali io [avevo] avuto da Dio tanti segnali di speciale benedizione, non ho voluto prendere sopra di me sola la risponsabilità della decisione, [10.9.1869]
[30.9.1869]
ne scrissi al Padre Prefetto, [il] /106/ quale venuto da Finfinnì, e ponderatasi la questione: il Re Menilik sa la risposta datami quando io gli scrissi da Zeïla di lasciarmi progredire il mio viaggio alla missione antica del Gudrù e di Kafa, dissi io, risposta e promessa conosciuta persino in Roma; preso ora alle strette in questo senso, forze risolverà di lasciarmi partire in forza della parola data, o forze risolverà solo di fare una finzione, lasciandomi partire, e facendo nascere delle difficoltà prattiche per farmi restare senza avermi più obligazione di riconoscenza, come è uso fra quei popoli.

speranze e pericoli Per altra parte poi si presentavano le speranze future della missione già incomminciata nel regno del Re Menilik: già si era spiegato un certo movimento fra i cristiani, e già [alcune] operazioni erano state incomminciate, sia fra le caste Cristiane, che fra le caste galla pagane. Lo stesso Re già aveva dato parole, e fatto delle promesse; tutto doveva considerarsi, e dovevano anche ponderarsi le conseguenze di un disgusto che poteva nascere, sia alla corte del Re, e sia ancora nella popolazione, massime nella parte del partito Devra Libanos; tutto fu ponderato ed esaminato, sia il già fatto, sia il da farsi, e sia ancora il da temersi in ogni [p. 426] caso di disgusto, sia dalla parte della corte, che da quella del popolo. l’apostolo coi governi Dopo che io ho potuto aquistare qualche esperienza sul campo delle missioni e dell’apostolato, il mio sentimento e la mia convinzione fu sempre contraria al sistema di confidare nella politica, e nel favore dei principi, come elemento troppo fragile e troppo misto di passioni per servire di base ad un’operazione religiosa, la quale di sua natura deve discendere dall’alto, ed entrare nella convinzione intima delle masse popolari, prima di esercitare sulle medesime una pressione qualunque. Gli apostoli mandati da Cristo, lavorando sulle masse popolari, dopo un fiume di sangue versato dai martiri, senza battersi colla spada arrivarono a vincere l’impero cosmopolita dei Romani. All’opposto [2a metà sec. IV] S. Frumenzio, detto in Abissinia Abba Salama primo, per avere incomminciato il suo apostolato alla corte di Axum finì per stabilire in Abissinia un Cristianesimo anfibio pieno di paganesimo, e di Mosaismo, da cui non si poté mai più rilevare in seguito.

civilizzazione dei barbari Avvi ancora un’altra massima da considerare prima di passare alla parte storica nostra. Le popolazioni che noi, nel nostro gerghio di lingua civile, usiamo [di] chiamare barbare, ma che io invece inclinerei [a] chiamare più primitive che barbare, ed ancora pagane, oppure in parte eretiche di buona fede, le quali [p. 427] in verità [non] hanno mai o quasi mai gustato tutte le richezze spirituali del cristianesimo vero, sia in materia di dottrine e sia ancora di grazie spirituali. Di queste popolazioni noi crediamo che non abbiano religione; arriva anzi tutto il con- /107/ trario: la religione fra loro è la base di tutta la società, e della poca civiltà che hanno; fra le tribù pagane il Sacerdozio in famiglia è nel promogenito con un maggiorasco totale senza alcun pericolo di rivolta nei cadetti contro il loro oracolo tradizionale; tali sono i galla e tutte le tribù ancora nomadi dei deserti circonvicini per quanto io ho potuto esaminare. Non parlo dell’Abissinia, dove esiste un’impero in rovina sotto la pressione di un clero nominale che molto può sopra di esso.

alcune idee sui tempi preistorici A questo proposito non posso tacere la ripugnanza del mio criterio per un’opinione sostenuta da molti in questi ultimi tempi a proposito della storia della razza umana dei tempi preistorici; sostengono dunque questi tali un’epoca, di un’antichità indeterminata, nella quale l’uomo eguale a tutti gli altri animali abbia vissuto in uno stato perfettamente selvagio, senza presentare alcun carattere di tendenza sociale, e di istinto verso l’idea teocratica. Io dalla mia gioventù aveva già letto sufficientemente gli antichi greci e latini, e certi sogni loro (1a), per conoscere i canoni sopra i quali suole appoggiarsi una simile opinione; ne tanto meno io qui m’intendo di confutarla essendo una materia fuori del mio campo; so benissimo essere già stata direttamente trattata da altri, a me molto superiori; [p. 428] siccome però in questi nostri tempi si è svegliata una vera febbre in cerca delle antichità coll’unico fine di cercare i primordi dell’umanità, e si fa lavorare persino la vanga ed il piccone in cerca dei suoi fasti antichi pagani, onde oscurare le glorie del cristianesimo che insegna l’uomo come creato ed educato da Dio stesso; io lascio ad altri l’andare in cerca dei sogni preistorici (1b) per ritornare nel campo delle mie osservazioni più reali e positive.

Io dunque in tutte le mie escursioni di 35. anni nell’Africa orientale, ho tenuto sempre agli occhi fissi sopra l’umanità del suo stato più isolato, e più lontano dai nostri usi e dalla nostra educazione; ed ecco i canoni i più caratteristici che spiegano l’uomo nella sua natura primitiva, e nelle sue inclinazioni.

/108/ l’uomo in società Canone 1. L’uomo, più è abbandonato a se stesso, e lontano dalle società organizzate con qualche civilizzazione, più ancora egli si attacca alla società domestica, ed ai vincoli di sangue e di parentela. In questo stato nasce subito la legge del taglione, nelle questioni di sangue, per consacrare e tutelare la sua esistenza. A questa legge prendono parte tutti i consanguinei conosciuti, anche quelli, i quali potrebbero supporsi disuniti per questioni di diverso genere, perché allora cessano tutte le altre questioni in facia alla questione del sangue.

l’uomo e la religione Canone 2. L’uomo che vive lontano da ogni specie di paese civilizzato e da qualsiasi religione positiva, egli diventa un mistero a se stesso, e suole adorare tutto ciò che non conosce, e lo divinizza; egli nella sua tribù si trova sempre con delle osservanze religiose tradizionali a qualche divinità; si trova [p. 429] sempre in lui più o meno chiara l’idea della creazione, e ben soventi la [creazione] tradizio[zio]nale biblica; il sacrifizio di animali è per lo più indivisibile dal uomo così detto selvagio.

l’uomo e l’epoca sua ferina Canone 3. L’esistenza di un’epoca, nella quale l’uomo in uno stato puramente ferino, sempre in giro per le selve alla cacia, come una jena, senza alcuna relazione di famiglia, abbandonato dallo stesso Padre e dalla stessa madre, io la credo una vera esaggerazione, eguale a quella delle due razze, la razza schiava e la razza padrona, inventate dal crudele dispotismo dei Signori pagani tanto greci che latini, ai quali facevano eco i pochi scrittori di quei tempi. Io ho passato qualche giorno nascosto in una tribù di Woïto, [considerata] come infame in Abissinia, epperciò isolata e lontana dalla casta civile del paese. Il grosso della tribù era più lontana in luoghi più vicini ai pascoli per le bestie bovine, nel luogo dove era io vi erano solo capre, come luogo deserto e quasi inaccessibile; esistevano là due bimbi dai tre ai quattro anni di età; in luogo di pane detti bimbi avevano ciascheduno una capra accostumata a lasciarsi tettare: era molto bello il vedere detti bimbi [a] tettare e faceziare colle loro madri capre: allora io pensava fra me stesso alla storia dei due fondatori di Roma: non potrebbe darsi, diceva fra me, che invece di una lupa non fosse stata una capra o pecora [a sfamarli]? forze in quella epoca mancavano capre? lascio il giudizio al mio lettore. (1c)

/109/ Io intanto facio ritorno al mio canone terzo, e dico, invece di supporre un’epoca del uomo talmente selvatica e ferina, affatta contraria al suo naturale istinto [p. 430] e poco conformi alle tradizioni quasi universali di tutto il genere umano, [è] meglio, e più ragionevole rialzare un tantino l’idea del u[o]mo primitivo, supponendolo in uno stato nomado, sì e come sono ai nostri giorni quasi tutti i nomadi dei deserti. origine delle divinità pagane Le nostre razze tanto greche che latine; ossia che avessero perduto di vista le tradizioni adamitiche e noetiche, ossia che non volessero più riconoscerle, perché troppo paterne, con un sistema di favole e di esaggerazioni si erano creato delle nuove divinità adorando alcuni genii particolari, ed avevano innalzato una nuova aristocrazia di oracoli e di sacerdoti di Saturno, di Cerere, e di Giove, e simili, per dominare così le masse popolari. Lavorando ad innalzare l’aristocrazia, in pari tempo lavoravano a deprimere le masse popolari; è in questo modo che i primi scrittori avevano addottato un linguagio sfavorevole alle masse popolari abbassandole con supporle di un’origine selvatica e ferina. Così si devono interpretare le espressioni dei primi scrittori, tanto greci che latini, i quali seguivano la corrente di questa febbre aristicratica preparando il dispotismo crudele delle republiche greghe e romane a danno delle povere masse popolari divenute schiave dell’aristocrazia.

dignità del uomo primitivo Ciò presupposto, passando sopra il sistema delle divinità pagane, sottentrato per supplire al sistema biblico di Dio creatore, rinasce naturalmente la dignità delle prime razze umane, e scompare [p. 431] l’epoca degradante la razza umana [ritenuta] selvagia e ferina, e si fa ritorno allo stato nomado e patriarcale del uomo [organizzato] in società, quella cioè del mio terzo canone sopra indicato. Potrei ancora qui aggiungere altri canoni, come quello del pudore naturale, quello del matrimonio, e quello della proprietà sacra in tutti i tempi, tutti risultati delle mie meditazioni, e dei miei esami o analisi sopra le tribù anche le più barbare e selvagie. Quale bisogno di supporre nel uomo primitivo un’epoca in cui questa creatura così nobile sopra tutto il creato, [dovesse] come una jena girare nei boschi in cerca di che mangiare? È vero, l’uomo col peccato originale ebbe un gran scapito nelle produzioni spontanee della terra, e nel dominio sopra gli animali che [gli] si rivoltarono [contro], al quale avrebbe avuto diritto nel suo stato d’innocenza; ma rimase sempre il sufficiente al suo vitto, e la maggior parte degli animali domestici che si vedono oggi, gli rimasero ancora sempre fedeli in tutti i tempi.

Ne io fui solo nell’esaminare tutti questi canoni fondamentali in diffesa della dignità del uomo primitivo. il p. Egidio da Garezzo
[1.5.1843]
Un mio studente per nome P. Egidio (*) /110/ da Garezzo, andato nelle missioni del B[r]asile prima di me [che fui destinato] alle missioni dell’Africa orientale; questi [trascorse] quasi tutta la sua vita fra i selvaggi di quell’impero. lettere del padre Egidio Conoscendo questo Padre il mio genio analitico sopra le razze umane ancor barbare e selvagie, egli, poco presso nella medesima latitudine Sud come la mia al Nord [p. 432] esaminava, e mi scriveva tutto quello che vedeva fra i suoi barbari e selvaggi [, e me lo scriveva]; era una cosa [una cosa] ammirabile il vedere poco presso la medesima cosa fra i selvaggi dell’America del Sud, ed al Nord nell’opposto emisfero dove io mi trovava in Africa orientale. Tanto è vero, che in materia d’istinto naturale umano le distanze dei luoghi e dei tempi non bastano per variarlo. Le lettere del P. Egidio da Garezzo furono sempre da me conservate gelosamente, ma sgraziatamente perirono in Kafa nel 1861. con molti altri documenti che mi sarebbero stati utilissimi oggi nello scrivere queste mie memorie storiche. Ma è tempo di finirla colla mia digressione; lascio perciò ai miei canoni stabiliti sopra in deposito nel cuore del lettore per le circostanze di bisogno, e con un solo [foglio di carta da scrivere] alla mano facio ritorno al corso della mia storia sopra la questione della mia partenza per il Gudrù, dove io era aspettato ed anche sospirato.

religione dei barbari Ripeto dunque qui ciò che già ho detto sopra: noi crediamo che i popoli barbari non abbiano una religione, come sopra a pag. 427., invece l’hanno, anzi più tenace dei popoli civilizzati; l’hanno i [i] galla, ma meno armata di ragione, ma sufficientemente tenace per vincoli di parentela e di usi, e più per una certa libertà nella morale; l’hanno poi molto più i cristiani, ed armata anche di ragioni, di interessi, e di forza politica, di cui essa è il cemento che unisce i ciotoli, le pietre, ed i massi; la religione fra i popoli [p. 433] barbari è un gioiello nelle mani di un bimbo che non lascia senza strepiti e senza pianto; l’eresia poi fra i barbari è in certo senso più tenace, perché per una parte la ragione poco serve per essi, e per l’altra consacra l’immoralità, per la nullità del suo ministero. vado, o no, grande imbarazzo Io perciò mi trovai molto imbarazzato per decidere sul punto della partenza; partire contro la volontà del Re, e contro le aspirazioni di una gran parte del popolo sarebbe stato come interrompere il movimento popolare, con pericolo anche di disgustare a Re. Rimanere poi in Scioha per secondare il movimento, e compiacere il Re, avrebbe certamente contristato molto tutte le missioni antiche, e scoragito di molto i nostri cristiani di quelle parti. In quanto a me la partenza era quella che io vedeva ogni giorno nei miei sogni; la simpatia per quei paesi, per quella gente, e per il piccolo gregge di cristiani che mi costarono tante sollecitudini, e che mi diedero tante consolazioni, l’avrebbe /111/ certamente vinta. Per me la confidenza nella politica, e nell’amicizia delle corti era un’argomento debole, perché troppo umano, e di avvenire poco sicuro...

non si parte, ecco la risoluzione Tuttavia il partito degli assenti, bisogna pure confessarlo, è sempre il più debole, ed i presenti la vincono sempre; dopo molte considerazioni e consigli, alla fine [deliberai]: parta la spedizione tutta sola per il momento, ancora qualche tempo, io verrò, oppure verrà il P. Prefetto a conoscere tutto quell’antico gregge: ecco [p. 434] la risoluzione stata presa, risoluzione che mi valse una separazione per sempre da quei paesi, e posso dire anche in gran parte [fu] la rovina di quella missione. il re molto contento
[udienza: 4.10.1869]
Appena il Re sentì l’eco di questa nostra risoluzione, oh allora sì che si svegliò dalla paralisi! cosa non disse per coonestare? cosa non promise per contentare la spedizione? e cosa non fece? Regali alle persone che dovevano partire, regali a Monsignore Cocino, e regali al principe Gosciò, ben presto tutto fù in ordine. Io stesso dovetti dire ciò che non pensava, dovetti scrivere ciò che non credeva, e dovetti promettere ciò che non sperava, perché, sta scritto che, fatta la pilola amara bisogna dorarla...! Naturalmente nel linguagio e modo di parlare, tutto fù a modo di corte, ed io stesso avverso a non più dire alla corte, ho dovuto prenderne gusto: non è una negativa, ma un semplice ritardo per gravi motivi, ecco ciò che si disse, che si scrisse, e che si promise.

nuovi pensieri per me Fratanto si dovette pensare all’avvenire di quella missione lontana, [e] vedutomi respinto e con poca speranzadi potervi andare. Per altra parte Monsignore Cocino mio Coadiutore [mi scriveva], [rinunzia: 10.3.1862 e nov. 1869; accolta da Pio IX: 16.2.1872] non cessando di esternare il suo desiderio di rinunzia alla mia successione, benché disposto sempre di rimanervi come suddito; il P. Prefetto Taurino già essendo stato riconosciuto da me come Vicario [p. 435] generale per il regno di Scioha: nuove providenze Sentite, gli dissi, per maggiormente impegnarlo, dunque pensi Lei a quella Missione come più vicino; io la farò conoscere come mio rappresentante e Procuratore generale colà, ed Ella incomminci a [14.10.1869] mettersi in relazione col Coadiutore Monsignor [Cocino] Vescovo di Marocco, e cogli altri. Senza dirgli nulla, da quel momento ho risoluto di [20.2.1869; 6.5.1871] trattare colla S. C. di Propaganda per farlo nominare Vescovo e mio Coadiutore in luogo del suddetto. In quei paesi, dove le corrispondenze sono difficili, e le grandi operazioni ritardano naturalmente anche degli anni, appena si vede un raggio sull’avvenire non bisogna perder tempo, ed incomminciare a scavare le fondamenta della fabrica futura, per non trovarsi poi sprovvisto di armi quando viene l’ora di battersi

/112/ parte la spedizione
[da Liccè: 9.10.1869]
per Finfinnì
[arriva il 12;
parte per il Gudrù: 15.10.1869;
arriva il 23]
stanco di Licee progetto per alt[r]a casa
Così, prese che furono le risoluzioni, e pervenuto il P. Prefetto come sopra, egli pensò alla partenza della spedizione, e consegnategli tutte le lettere che già teneva preparate, con lui la spedizione partì per Finfinnì, ed io sono rimasto nel campo del regno di Scioha Cristiano per continuare le operazioni incomminciate. Fin là essendo stata incerta la mia dimora in quel regno, ho avuto sempre pazienza, ed [non] ho mai pensato ad abbandonare la città reale di Liccèe, ad eccezione [p. 436] di qualche mese passato a Fekeriè Ghemb, come è stato detto avanti; ma io era stanco della corte e della città reale, dove un concorso continuo mi opprimeva, obligandomi a passare il giorno in continue conferenze e conversazioni; dove la bassa e l’alta corte tutti ricorrevano a me per [ottenere] la pace col re e colla regina, e dove finalmente le medicine [d]a darsi crescevano ogni giorno più. Ho fatto conoscere al Re queste mie strettezze; egli avrebbe bramato a preferenza, che io mi stabilissi in Fekeriè Ghemb. Là posso darvi tutto quello che vi do qui per la vostra sussistenza, egli mi disse, come già conoscete, e potrei anche aggiungervi tutto ciò che voi volete; Fekeriè Ghemb è una mia città, dove si trovano tutte le amministrazioni, io posso andare per vedervi, ed anche voi potete andare quando volete facendovi accompagnare dai miei di corte, e sarete là come padrone.

motivi per tenere Fekeriè ghemb Io non intendeva di lasciare Fekeriè Ghemb per molte ragioni; prima di tutto perché aveva già là qualche [qualche] principio di cristianità con alla testa l’Alaka Tekla Tsion già secretamente ordinato sacerdote, ed alcuni suoi discepoli, i quali pure correvano per la stessa via, benché ancora non ordinati. In secondo luogo, perché Fekeriè Ghemb si prestava molto per assistere le corrispondenze colla costa del mare; [perché] dalla stessa mia casa di Fekeriè Ghemb io vedeva l’arrivo delle carovane con un canochiale, e poteva di là [p. 437] far conoscenza cogli impiegati delle frontiere, ed anche con molti musulmani capi [capi] carovana per la spedizione di lettere o pacchi senza passare dal Re; il solo Deftera Gulti, già divenuto cattolico praticante, e capo dei registri delle dogane, egli mi serviva a maraviglia a tale effetto. Per ultimo [motivo] Fekeriè Ghemb si prestava per il progetto che io nodriva in cuore per fare uno stabilimento sulle frontiere verso il fiume Awasce, di dove pensava di coltivare le tribù Adal-Denakil; stabilimento che mi avrebbe servito di rifugio in caso di persecuzione; benché poi questo mio piano esiggesse ancora degli anni per preparare l’opinione [pubblica]. Tutte cose che io non avrei potuto ottenere senza la posizione di Fekeriè Ghemb.

un mio progetto al re
[10.12.1869]
Io non lascierò Fekeriè Ghemb, dove già ho casa e cappella stabilita, /113/ come non lascierò la casa di Liccèe, dove penso sempre di venire qualche volta per passare qualche tempo con V.[ostra] M.[aestà] ogni qual volta vi saranno affari da trattare, risposi io al Re. Ma io non posso restare sempre qui senza soffrire nella mia salute. Neanche posso restare sempre a Fekeriè Ghemb, come luogo troppo lontano da Finfinnì, con cui sono in continua relazione di corrieri che vanno e vengono. Io perciò bramerei a preferenza di stabilire una casa non molto lontana da Liccèe, e sulla strada di Finfinnì fra i Galla di quella parte. il re manda ad ato Govana
[1a metà dic. 1869]
Il Re che già aveva portata la vittoria con impedire la mia partenza [p. 438] per il Gudrù, non frappose più difficoltà, e sul momento, chiamato il Signor Mekev [gli ordinò]: parti sul momento e va da Ato Govana; gli dirai di venire [qui] al più presto, perché ho bisogno di parlargli, e dettogli alcune parole secrete lo congedò. Partito che fu il Signor Mekev, il Re prese la parola di nuovo [rivolto] a me: questo Govana, mi disse, è un mio generale di valore, capo di alcune Provincie galla; egli desidera molto di farvi una casa, ed il Signor Mekev è quello che spinge molto questo affare; ho mandato lui, perche so che se la intendono. La questione dunque mia camminava benissimo: il Signor Mekev veniva ogni giorno da me e mi parlava appunto dell’Alaca di S. Giorgio, uomo dottissimo capo dei registri di Ato Govana, il quale era in via di conversione al Cattolicismo, e che stava predicando in quella casa, dove vi fece nascere il desiderio indicato dal Re.

è conchiusa la nuova casa Difatti l’indomani mattina venne il Signor Mekev con Ato Govana, il quale condusse pure seco lo stesso Alaca di S. Giorgio, [vi] passarono circa un’ora dal Re, dove io sono arrivato che già tutto era combinato. L’Alaca di S. Giorgio era l’incaricato dei lavori, con ordine di passare d’accordo con me per la scielta del luogo, e per l’esecuzione del lavori occorrenti. Così in poco più di tre mesi io ho potuto recarmi a prendere possesso della nuova casa nella provincia [p. 439] di Haman, sopra un monticello chiamato Gilogov, dove in pochi anni, come suole accadere quasi sempre, il monticello era già coperto di case, e si fece un piccolo villagio di nostri addetti della nuova Missione, come se ne parlerà in seguito. La Missione detta di Gilogov, oppure di Haman si trovava circa dieci millia geografici più al Sud della città di Liccè sopra la strada diretta di Finfinnì. Essa ebbe principio in Febbrajo 1870. quasi un’anno e mezzo dopo quella di Finfinnì, la quale si trovava circa 30. millia al Sud, verso le sorgenti del fiume Awaz.


(1a) dico sogni lo stile esaggerato di quei tempi mitologici, quando si creavano le divinità e si esaggeravano i fatti dell’antichità sconosciuta. Io rimango [stupito] come ai tempi nostri, massime dopo Lutero, la menzogna essendo passata in sistema, ed invocata dall’eresia e dalla politica; alcuni scrittori, abbiano poi tanta fede a certi scrittori antichi, supponendoli senza passioni politiche e religiose, quando si tratta di fare la guerra alla storia bibli[c]a, ed al sistema del regno sopranaturale. [Torna al testo ]

(1b) Mentre scrivo sto leggendo un lavoro intitolato Genesi dell’incivilimento, di Salvatore Aguglio. L’[ho] incomminciato[:] è un gran lavoro. L’epoca dei Ciclopi ha avuto un gran merito nell’incivilimento materiale del uomo, ma non era l’epoca della felicità popolare; la forza brutale dei Signori ebbe la sua parte, come Atene, Roma e Memfi d’Egitto. [Torna al testo ]

Salvatore Aguglia (Termini Imerese 1810 Napoli 1888), Genesi dell’incivilimento esposta da S. A., Napoli 1882, vol. I, fasc. I, pp. 80, prima parte dell’opera incompiuta La scienza della civiltà, dedotta dalla genesi e storia dell’umano incivilimento. M.P.

(1c) Credo d’aver già parlato altrove della casta Woïto più a lungo; anche il fatto qui narrato è già [stato] mentovato altrove, nel mio viaggio del 1864. discendendo dal Gudrù alla costa di Massawah, ma con altri detagli, e particolarità — L’uso di tettare le vacche, le pecore, e le capre era comune in Kafa fra i ragazzi pastori affamati. Nei deserti del Sudan i ragazzi stando in piedi sono stati veduti [a] tettare il camelo. [Torna al testo ]

(*) “... Frei Egidio de Garezzo, de 1846 a 1860, catequizou os Mundurucus nas aldeias do Curi e Jaituba, no rio Tapajós...” www.promapa.org.br/2006/index.php?pag=artigos&exibartigo=192. M.P.

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