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14.
Le autorità al banchetto di Menelik
e la grave malattia di Filippo Verdier.

Ho voluto riferire in generale questo piccolo tratto di storia futura, affinché il lettore di queste mie memorie sia prevenuto e possa più facilmente comprendere molti fatti della storia che seguirà sino al 1878. Ciò detto, facio ritorno [p. 455] al corso di storia dell’anno [1871] 1870. da me interrotto per riferire i fatti del Tigrè che cangiarono di molto la natura della storia del regno di Scioha, e della missione nostra. convitto di Assuero in Scioha Cessate le pioggie dell’anno suddetto, ed avvicinandosi la festa del Mas[c]al ([Esaltazione della] croce di Settembre) il Re Menilik sentiva il bisogno di far parlare di se, onde soffocare la corrente delle notizie del nord venute dal Tigrè, ed accaparrarsi l’armata, imaginò una gran festa a modo del Re Assuero. Per la festa suddetta della Croce, nella quale i principi abissinesi sogliono trattare i loro sudditi in banchetti straordinarii, egli publicò un banchetto di tre giorni continui, per il quale fece dei preparativi colossali ed inauditi nelle [feste] precedenti di quei paesi.

una mia visita dei preparativi Quando tutti i preparativi furono terminati, come io [non] soleva mai sortire dal mio appartamento, ne per mangiare, ne per bere, ne per vedere, il Re volle che io vedessi una volta tutti quei preparativi, e la sera avanti verso notte, quando il publico dei curiosi erasi ritirato, e non restavano più che alcuni della casa reale per eseguire gli ultimi lineamenti del quadro, la convenienza volle che io contentassi la M.[aestà] Sua, che degnavasi di accompagnarmi e farmi vedere le operazioni mirabili, la maggior parte prodotti della sua imaginazione. un paragone Io, come europeo, aveva certamente veduto in Parigi ed in Roma parati spettacolosi e colossali senza alcuna [p. 456] proporzione mille volte maggiori, come ognuno [non] stenterà a credere; eppure confesso ingenuamente che il primo colpo d’occho mi fece maggiore impressione di quella che mi abbia fatto la visita dei preparativi fatti dall’imperatore Napoleone /123/ III. [1867] all’esposizione universale di Parigi, e posso dire con una tal quale certezza, che nel supposto impossibile, che il gruppo da me veduto alla corte di Menilik, tal quale si fosse trovato all’esposizione suddetta avrebbe riportato le principali ammirazioni degli stranieri accorsi a quella Capitale, principalmente per la sua originalità, e relativa bellezza di un genere senza esempio. (1a)

La mia imaginazione e fantasia, dopo 13. anni, nel momento in cui scrivo, ha perduto della sua vivacità, per richiamare ad una rassegna esatta tutti gli oggetti che arrichivano quel bellissimo quadro di industria abissina; lo stesso dizionario della nostra crusca mancherebbe di vocaboli per classificarli tutti, essendo una gran parte oggetti sconosciuti, epperciò privi di nome proprio nei nostri paesi. sala del banchetto Tuttavia il mio lettore, per farsi un’idea aprossimativa di quel capo lavoro in questione, si immagini una piazza quadrata della grandezza di circa 300. mettri [per] ogni suo lato, cangiata in una gran sala posticia coperta di tele dei diversi colori dell’iride all’altezza di circa sei mettri almeno, o forze più. la sua architettura Il tetto sorretto [p. 457] da dodeci file di sufficienti colonne di legni vestiti a dissegno; così dei travicelli che reggevano orizzontalmente la tela del tetto. Non parlo degli ornati, e dei pendenti di cristallo di tutti i colori e di verotterie, o simili gingilli, perché non la finirei, e la memoria stenta [a] racapezzarli. Sarebbe questa poco presso l’idea della sala in discorso, se il lettore avrà cura di imaginarsi ancora di più una specie di grande abside in mezzo a ciascuno dei quattro lati per interromperne la monotona loro figura, in uno dei quali si trovava la porta d’ingresso, nel suo opposto il trono maestoso del Re, e nei due laterali i grandi depositi di viveri di ogni genere; separati tali absidi di vaste tende richissime di ornati.

il contenuto degli atrazzi Fin qui però non vi sarebbe ancora gran cosa di straniero e peregrino all’imaginazione del mio lettore europeo, perché non sarebbe questione che di un’architettura di genere, bensì curioso, e di carattere tutto particolare, ma facile a concepirsi. Ma non sta ancora qui il più bello, il più peregrino, ed il più curioso per noi europei. Il più bello, il più vago, il più difficile ad imaginarsi è il complesso del contenuto, sia di mobili e di atrazzi, e sia ancora di viveri di ogni genere, per descrivere i quali e dipingerli nella fantasia del mio lettore, mi mancano in lingua /124/ nostra i termini abbastanza fedeli e caratteristici, da trasportar[ne] [p. 458] sino a noi l’imagine dei medesimi, come articoli d’industria indigena ed ancora primitiva molto lontana dai concetti nostri. le tavole ed i pani Incomminciando dalle tavole debbo servirmi di similitudini e di parafrasi; esse erano di una lunghezza simile a quelle dei nostri conventi religiosi, collegi, e seminarii, fatte non di legno, ma di canne spaccate a piccole liste, e tessute in forma di stuoje, sostenute da due grandi tamburri dello stesso tessuto alle due teste che servivano loro di piede; ma esse erano più basse delle nostre tavole, perché i commensali dovevano sedersi per terra, ed erano nude senza mantili. Alle teste di ciascheduna delle tavole si alzavano due torrette di pani detti tavita (specie di focacie dello spessore di un centimettro circa, rotonde, e larghe due buoni palmi ciascheduna, [del] peso di una grossa libra, sufficiente per il pasto di una persona). Ciascheduna torretta di pani era di 50., che valeva cento pani [per] ciascheduna tavola, la quale contava 12. posti di persone invitate. Le tavole erano 150. dal qual numero era facile calcolare il numero degli invitati.

il trono del re Dopo avere percorso la gran sala, accompagnato dal Re stesso, il quale mi faceva da cicerone, sono stato condotto all’abside del trono, il quale presentava una vera meraviglia per quei paesi, ed anche per noi nella sua originalità. Il trono era separato dal gran salone da un magnifico tendone diviso in due, dovendo aprirsi e chiudersi in certi momenti all’ordine del Re. descrizione del trono La platea del trono si trovava all’altezza di un mettro e mezzo; essa era abbastanza grande [p. 459] da potervi sedere il Re colla regina, circondato dai personaggi più distinti della sua dinastia, e da altri grandi di primo rango del suo regno, e da potervi circolare un sufficiente servizio. Dietro il trono si trovava uno spazio, dove il Re poteva pranzare e conversare colle persone della sua stretta confidenza; più dietro ancora [si apriva] una sala invisibile, dove la Regina mangiava e si tratteneva con le grandi dame invitate alla festa. Il trono poi era accessibile di prospetto alla gran sala per una gradinata semi circolare di otto gradini, grande ciascheduno circa un mettro, dove solevano sedersi le persone particolarmente chiamate a mangiare vicino al Re, più alto, o più basso secondo il [loro] merito personale di ciascheduno.

deposito della carne Dopo il trono siamo passati a visitare le due absidi laterali. Nell’abside a man diritta sortendo si trovava la carne già preparata per l’indomani, e divisa tutta in pezzi. Io aveva veduto [feb. 1851] una quantità di carne preparata poco presso eguale, in un gran negozio di Londra, nel mercato non molto lontano dalla torre così detta degli incendii, colla differenza però che colà la carne era tagliata in grandi pezzi, di una metà, oppure un /125/ quarto dell’animale; laddove alla corte di Menilik la carne era divisa in piccoli pezzi, in certo modo, seguendo l’ordine anatomico e la distribuzione dei muscoli; ciaschedun pezzo ha il suo nome proprio. ordine della distribuzione La ragione è perché [p. 460] in simili inviti, per lo più dalle persone di qualche distinzione, non si mangia altro che carne cruda [di] puro muscolo, e quando si dà suol nominarsi il pezzo; nominato il pezzo, tutti sono in caso di conoscere se è quello o se non è quello [desiderato], se è intiero oppure no. La carne dei tessuti e delle articolazioni per lo più si fa bollire, e suol darsi alle persone non invitate e meno distinte, ed ai poveri. Ora una simile distribuzione minuta in convitto così grande porta una complicazione immensa, ed una distribuzione tutta classificata come le nostre biblioteche, cosa molto interessante per un’europeo calcolista. Veduto tutto questo deposito, il Signor Mekev capo di quel dicastero: veda, disse, di tutta questa carne, domani sera [non] vi sarà più nulla; fu calcolato un bove ogni dodeci tavole, e si trova qui appesa la carne di cento e più buoi. Domani a mezzo giorno caderanno altre cento teste di buoi per il secondo giorno, e così per il terzo.

deposito delle bevande Passammo quindi all’abside opposta, dove si trovava il deposito della birra e dell’idromele. Anche là si presentava all’occhio un colpo di vista ammirabile per la gran quantità di grosse giarre di birra purgata in mediocre quantità; ma una gran quantità di idromele [era] già purgato di tre qualità già altrove descritte; ciascheduna qualità era notata [p. 461] e classificata. La grandezza delle giarre, e la distribuzione delle medesime colpiva l’occhio, il numero delle giarre passava il mille; ciascheduna giarra conteneva dieci madighe, e ciascheduna madiga doveva contenere venti litri caduna. Piramidi di corni, di caraffe, e di bicchieri di tutti i colori si vedevano disseminate da ogni parte. regola nella distribuzione Per la sola distribuzione dell’idromele alle diverse tavole vi sono circa 200. persone alcune destinate a portare, altre a versare, ed altre a distribuire. Ciò osservato fummo condotti a vedere una quantità di cassoni vuoti riccamente adobbati; questi erano situati nella platea o spazio esistente avanti la gradinata del trono. Prima d’introdurre gli invitati, domani mattina saranno riempiti d’idromele per chi vorrà bere come ad una fontana, disse l’uffiziale che ci accompagnava. Esiste una quantità di persone destinate a guardare chi cade ubriacco per subito prenderlo e portarlo fuori in una casa a parte.

conclusione Lascio qui di descrivere molte altre particolarità di quel vero teatro, massime in materia di ornati, perché altrimenti questa sola parte domanderebbe un libro, ed anche, perché nel momento che scrivo molte cose sono cadute dall’arsenale della mia imaginazione. Credo però che /126/ il detto basti per provare ciò che ho detto sopra, che cioè il banchetto del Re Menilik avrebbe attirato gli sguardi della moltitudine, all’esposizione [p. 462] di Parigi. ordine del banchetto Per terminare la storia di quel banchetto debbo ancora riferire l’ordine e la distribuzione del medesimo. Il banchetto durò tre giorni; ciascun giorno, la mattina sino a dopo mezzo giorno erano introdotti gli invitati in tre rate di circa un’ora e mezza ciascheduna. Agli invitati non si dava birra, se non a chi la domandava; erano fissi cinque corni a caraffe d’idromele ciascheduno, cioè tre di terza qualità da principio, e due di seconda qualità, colla dose di brodò (carne cruda [di] muscolo puro), ed intingolo di uso. Gli invitati erano persone qualificate, o per titolo militare, o per titolo civile d’impiego, o per titolo ecclesiastico. Sortita l’ultima rata degli invitati, si lasciavano entrare i forestieri non invitati, ai quali si dava tre corni di birra, e due d’idromele, poca carne cruda, e pietanza a sazietà. Questi occupavano tutta la sera. Vicino a notte erano introdotti i poveri, i quali portavano via il restante, e sortivano dopo aver bevuto due corni di birra, ed uno di idromele. Il Re colla sua corte presiedeva solo agli invitati.

fine inteso dal re nel banchetto Il Re Menilik fece questo banchetto con una solennità senza esempio in Etiopia, perché l’imperatore Giovanni suo emolo avendo la tacia di avaro, intendeva con ciò di deprimerlo nell’opinione publica di tutta l’Abissinia. Egli coi cannoni ha vinto Tekla Ghiorghis ed ha guadagnato la corona imperiale, ed io gli farò la guerra coll’idromele [p. 463] e col brondò, soleva dire coi suoi amici. Se questo povero Re in così dire la sbagliò come cristiano, dobbiamo in certo modo confessare che non la sbaglio nel suo calcolo politico. gran concorso Non solo dal regno di Scioha, ma da Gondar, e da varii altri paesi del nord corse tanto mondo alla festa di Menilik, che [nel]la città reale sua, più di un kilometro all’intorno il mondo [di convenuti] era così fitto, che non si poteva più passare. In mezzo a tanta calca, ed in un paese dove non si trovano ne alberghi, ne venditori di pane fu un vero portento di sagacia il reale governo [che] pensò a tutto, alla corte [servendo] più di dieci mille [persone] ogni giorno, e come questo non bastasse, in tutti i quartieri si trovavano piccoli depositi ed incaricati di dare il necessario a chiunque non avesse avuto [libero] l’ingresso. In tutta la città e contorni il terreno era coperto di pane e carne caduto dalla mano dei poveri.

malatia di Verdier In prova che il fin qui detto non è un’esaggerazione, il seguente fatto accaduto a me farà una testimonianza, mentre io sto facendo un passo nella storia propostami. Nel mezzo giorno del terzo giorno venne una persona a dirmi che il Signor Verdier, di cui già si è parlato, si trovava gravemente ammalato, e mi chiamava. sono chiamato in fretta La sua casa era lontana più di un /127/ kilometro alle ultime estremità della città, e bisognava andarvi frammezzo agli urti di una calca indicibile; ma pure, chi è nel caso di comprendere il ministero del Prete sa, che la voce di un’ammalato che grida pietà [p. 464] al cuore di un Sacerdote che ha fede, e che vuole essere fedele al suo ministero, una tale voce è più forte che non è un cannone per lui; tanto più che il povero ammalato era un povero giovane europeo che il diavolo colle sue menzogne l’aveva allontanato da noi per perderlo. Era dunque il caso di partire, e partire sul momento. Preso il necessario con me per la malattia dell’anima e del corpo, accompagnato da due giovani soldati che mi facevano largo, sono partito: cosa incredibile! appena messo il piede fuori del cortile cammino sopra il pane l’ho messo sopra uno strato di pane, e camminai sempre sopra il pane per circa mezz’ora che mi volle per arrivare sino all’ammalato. Il lettore di queste mie memorie sarà non solo stupito, ma scandalizzato leggendo questo, lo scandalo cesserà però se rifletterà che anche nei nostri paesi i piccoli ragazzini, e qualche volta, anche certi esseri di cuore e di mente alterata sogliono piangere se non hanno pane, ma appena ottenuto se lo lasciano cadere di mano.

gravità della malatia Ma lasciamo il riflesso del pane, divenuto così a buon prezzo nel tempo del banchetto in discorso, e passiamo ad esaminare una persona gravemente ammalata, e si rifletta che la persona è in pericolo della vita, ed è un povero europeo, già adulto e non bimbo, venuto dal paese suo [p. 465] con una certa persuasione di venire in Scioha fra i barbari, i quali possono paragonarsi ai bimbi per mancanza di educazione cristiana. Il nostro ammalato, [era] ridotto quasi agli [agli] estremi da una duplice malattia d’indigestione, di pane, di carne, e d’idromele che lo riduceva ad uno stato in cui era nientemeno che minaciato da una congestione cerebrale, ma prima di questa, da un’altra indigestione di altre creature che gli fecero perdere la testa per passioni sregolate, senza che io mi trovi obligato a spiegarmi più chiaro.

convertito si confessa Il povero Verdier trovandosi adunque in uno stato in pericolo della vita animale che stava per abbandonarlo, e già quasi privo di vita civile per mancanza di onore, ebbe ancora tanto che bastava di lucido intervallo per ricorrere al prete che aveva abbandonato, e per ritornare a Dio, unica sua speranza. Confessatolo alla meglio che ho potuto, e ravvicinatolo a Dio coi soccorsi della religione, ho dubitato un momento, se dovessi tentare di salvargli la vita materiale con una forte dose di emetico, unica risorsa il quel frangente, risorsa però anche pericolosa per ogni caso che la congestione fosse già troppo avvanzata. gli do un vomitivo Comunque mi sono risolto di tentare, ed ho dovuto passare anche la sera con lui, /128/ perché mancavano persone, alle quali potessi consegnarlo [p. 466] con qualche sicurezza: dopo circa tre ore e più di agitazione, a forza di aqua tepida, servendomi anche di altri mezzi per scuotere gli organi, già quasi paralizzati, per eccitare il movimento rivulsivo, alla fine fui consolato di ottenere qualche scarica di sopra e di sotto. Ottenuto questo, l’ammalato si sentì un poco sollevato, e si spiegò la crisi favorevole. Ho mandato a chiamare Abba Joannes, persona di cui poteva fidarmi per assisterlo la notte, ed io ho potuto rientrare in casa circa le otto di sera con qualche sicurezza.

mie pene per l’ammalato Il prete che ha portato qualche vittoria sopra il cuore di qualche infelice, che ha corso la via della perdizione, diventa come una madre, appena sortita dalla crisi del parto, la quale non sa volgere altrove il suo occhio che sopra la piccola creatura che gli costò tanti sospiri. Così io in quella notte non ho potuto riposare, e non ho potuto dimenticare lo stato del povero Verdier. Prima del giorno ho celebrata la S. Messa per raccomandarlo in essa al Dio dei dolori e delle misericordie. Terminata la S. Messa, e fatte le preghiere e catechismo del mattino alla famiglia, sentiva il bisogno di rivedere il mio ammalato, nel doppio scopo delle due cure incomminciate. una mia seconda visita I tre giorni del banchetto erano passati, i forestieri del regno partivano a gran forza, epperciò la calca incomminciava [a] diminuire: [p. 467] arrivato che fui all’infermo, l’ho trovato molto meglio, ma in uno stato di gran [di gran] debolezza: oh Padre, mi disse, avrei bisogno di confessarmi ancora, ma la mia testa è ancora molto ammalata, e sento un gran bisogno di dormire, caro mio, risposi, la congestione al cervello era già andata molto avanti, ed avete bisogno di qualche giorno per ritornarsene dal cammino fatto, ma il polzo si è rilevato, si è spiegata la febbre, e dovete avere pazienza, aspettando che la malatia facia il suo corso, e dovete ancora temere che non si svegli qualche infiammazione al cervello.

suo stato compassionevole Già ho notato da princpio quasi, appena era arrivato questo individuo, la sfavorevole opinione nella quale minaciava di cadere; il poveretto era arrivato ad un punto da movere [a] compassione non solo me ed i missionarii, ma il Re medesimo, per la sua condotta. A fronte che egli stesse lontano da noi preti, pure non fosse altro che per l’onore del nome europeo io aveva fatto ogni mio possibile per ajutarlo, ma tutto fu inutile; egli cadde tanto [in] basso, che ne uomini ne donne volevano più rimanere al suo servizio; ammalato come era, egli si trovava senza persone di servizio; ho dovuto lasciargli il mona[co] Abba Joannes ed aggiungergli qualcheduno dei miei giovani per farlo custodire. Dopo alcuni giorni si riebbe dalla sua malattia, e siccome si era un /129/ poco ravveduto [p. 468] avrei voluto vederlo un poco ristabilito anche nella publica opinione, ma una volta perduto l’onore in quei paesi, [è] peggio ancora che in Europa, perché un popolo ignorante e superstizioso difficilmente cangia le sue idee preconcepite. ne parlo al re;
sue promesse
Ne ho parlato anche al Re, il quale mi raccontò tutte le sue stravaganze [sue]: Padre mio, mi disse, voi non sapete quanti dispiaceri ho avuto per lui, e quanto danaro mi ha finito: alcuni mi dicono che è [stato] [de]rubato, ma altri mi dicono tutto l’opposto, è capace, dicono, di dare tutto quello che ha ad una donna per avere il suo favore; Comunque voi mi assicurate che è convertito, epperciò vi prometto di prenderlo sotto la mia protezione. Come è un buon fuciliere, guarderò di nuovo ciò che potrò fare della sua persona. Così per quel momento finì l’affare del povero Verdier.


(1a) Mi fece nascere l’idea del paragone la preghiera ricevuta in quel tem[po] per lettera da Parigi di spedire famiglie di diversi paesi dell’Etiopia per rappresentare alcune case etiopiche all’esposizione suddetta. [Torna al testo ]