/215/

23.
Spedizione geografica italiana
e congresso dei capi scioani.

Martini ritorna in Italia Il Marchese Antinori, capo della Spedizione geografica italiana, aveva per compagno Sebastiano Martini, già Capitano, e Giovanni Chiarini un giovane ingeniere, al quali si univa un certo Landini, come per diporto unitosi a loro. Questi signori fecero consiglio e decisero che il Capitano Martini cogliesse l’occasione della carovana incontrata per ritornare in Europa ad informare la Società geografica di tutte le vicende occorse, e per domandare soccorsi. Presi quindi tutti i concerti Martini si unì al Signor Arnus, e [30.7.1876]
[1.8.1876]
[28.8.1876]
partirono per Zeïla, mentre Antinori coi due compagni continuarono il loro viaggio verso il regno di Scioha. [p. 616] La notizia del loro arrivo fù per me, ed anche per il Re, una cosa affatto improvvisa. il re sente la notizia
[ordine del re: 3.9.1876;
partenza per Aramba: 4.9.1876;
per Coca: 27.9.1876;
per Ankober: 29.9.1876;
arrivo: 30.9.1876;
partenza per Liccè: 6.10.1876;
arrivo: 7.10.1876]
La carovana di Antinori non aveva ancora passato il fiume Awasce, che si spedì subito un corriere al Re, il quale dopo pochi giorni mi rispose poco presso in questo senso: Padre mio, di questo stesso corriere scrivo al mio Procuratore generale di Ankober, il quale sentirà tutti i vostri ordini per il ricevimento di cotesti signori in modo che siano contenti. Voi dovete conoscerli, epperciò non abbiate paura di comandare, che vi ascolteranno tutti i miei servi. Io confido in voi, e non mancherò di venire di nuovo in Liccèe per riceverli al più presto. Essi intanto abbiano la pazienza di aspettarmi o in Aramba più vicino a voi, oppure in Ankober.

Ho voluto riportare questa [missiva], perché da essa il mio lettore potrà concepire un’idea approssimativa del cuore del Re Menilik, e della sua buona disposizione o simpatia jper gli europei. lettera del re Egli non aveva ancora nessuna cognizione preventiva della Società geografica, e delle persone che la componevano, eppure in detta lettera spiega un zelo tutto particolare per il ricevimento dei medesimi. Conoscendo anzi come gli indigeni sono naturalmente sospettosi, e che sotto pretesto di zelo politico, i suoi grandi impiegati stessi avrebbero potuto sollevare [p. 617] certe questioni da rendere meno cortese il ricevimento dei suoi forestieri, ha /216/ voluto rimettere ogni cosa a me, assoggettando a me lo stesso suo Procuratore generale, o Viceré. Difatti questi, appena ricevuto l’ordine del Re volò subito da me per sentire i miei ordini, e, disceso ai confini all’incontro della Spedizione geografica, [2.9.1876] la ricevette colla massima cortesia. La Spedizione fu condotta in Aramba con tutto il suo immenso bagaglio. avanie di Antinori e sofferenze I poveri forestieri avevano passato il fiume Awasce in un momento in cui questo fiume aveva innondato tutti i piani sulla riva ovest, e dovettero fare circa un kilometro nell’aqua sino al ginochio a piedi, ed avevano sofferto moltissimo, fra tutti il povero giovane Chiarini, il quale arrivò in Aramba pieno di piaghe alle gambe. I poveri viaggiatori ebbero a soffrire, non solo nelle loro persone, ma ancora nel trasporto del loro bagaglio, nel quale ebbero molte perdite. Gli stessi loro servi, soliti a cogliere la circostanza dei forestieri, sollevarono loro infinite questioni, le quali arrivarono sino a me.

Aramba
[5-27.9.1876]
e Wanenamba
Antinori ed i compagni rimasero in Aramba, dove rifattisi dal viaggio, dopo alcuni giorni io sono disceso in Wanenamba, villagio ai piedi della montagna nostra di Escia, proprietà della missione, e tutto vicino alla città di Aramba, dove abbiamo passato un giorno insieme. Fu là [p. 618] dialogo con Antinori
[diversi incontri dopo il 6.9.1876]
che ho potuto sentire tutti i detagli, tanto relativi alla Carovana del Signor Arnus, quanto quelli della Spedizione [Spedizione] geografica italiana. Perché siete venuti, dissi ad Antinori, senza scrivermi una lettera, e senza aspettare una mia risposta? Se non altro io vi avrei dato delle istruzioni che vi avrebbero risparmiato tante avanie e tribolazioni; trovandomi ancora in Aden, rispose Antinori mostrandomi una lettera, ecco la lettera che vi aveva scritto, ma crederebbe che Abu beker mi domandò cento talleri per spedirgliela? Abu beker conosceva molto bene, risposi io, che non mandandola invece di cento avrebbe potuto mangiarne mille, come è accaduto. Noi siamo arrivati in Zeïla, continuò Antinori, avevamo quattro mille talleri, ed oggi appena ne contiamo 200., tutto è stato, parte consummato in cameli, proviste di viaggio, e simili, e parte statoci rubato.

mia prudenza tacendo Ora, se io mentre scrivo queste mie memorie, non pensassi ai missionarii miei fratelli che girano ancora da quelle parti sotto le influenze dirette o indirette di Pascià Abu beker, potrei riferire molti detagli sentiti, non tanto dai nostri viaggiatori europei suddetti, quanto dai loro servi e famigliari da poter divertire il mio lettore ed anche istruirlo per ogni caso simile, ma il timore di un colpo di vendetta mi fa tacere quello che forze sarebbe più curioso ed interessante. le raccomandazioni vane e pericolose Ad ogni caso il lettore per [p. 619] compensarsi un tantino di questa mia prudente reticenza potrebbe rileggere ciò che acadde a me pochi anni indietro nel mio /217/ viaggio da Ambabo al regno di Scioha, e da me scritto a suo luogo, facendo solo questo ragionamento a minori ad majus: Se ad un’amico, il quale volle gettarsi ciecamente nelle mani di quel signore, fidato nella sua amicizia e senza un’umbra di raccomandazione, ha fatto così, cosa non avrà fatto alla povera Spedizione geografica che cercò d’imporre [la propria autorità] con dei firmani e delle minacie di governi europei? [Per] Chi entra nell’antro del leopardo le stesse giustizie, anzi le sue carezze possono essere micidiali grafiature. I firmani dei principi mussulmani sono per lo più armi a due tagli, e le minacie dei cannoni europei non fanno per lo più che irritare la bestia.

il p. Gio:[vanni] Damasceno Ma lasciamo la storia di Antinori, e quella di Arnus, alle quali dovremo poi ancor ritornare, per riprendere un’altra storia arrivata alcuni mesi prima, la quale servirà mirabilmente a provare, come i firmani ed i cannoni invece di assicurare il viaggiatore europeo, lo espone anzi ben soventi a maggiori pericoli. La storia di cui è caso qui è quella del Padre Giovanni Damasceno morto in viaggio. Questo buon Padre, partito di Francia [8.1.1874] nel 1871., era aspettato da noi nell’interno con grande anzietà, per l’educazione dei nostri giovani, e [a Massaua: 25.1.1875] stette quasi un anno perduto di vista dalla missione nostra; egli, avendo tentato la strada di Massawah, e del nord del paese abissino, [p. 620] esso arriva al campo di Giovanni
[20.3.1875
partenza: 24.3.1875;
arrivo ad Aden: 29.5.1875]
dopo molte vicende arrivò sino al campo dell’imperatore Giovanni, quello stesso che qualche anno prima aveva lasciato passare il P. Luigi Gonzaga, ma che, mutata la politica, lo obligò a ritornare [indietro]. Presa quindi la via di Aden, dove rimase alcuni mesi, si imbarcò per Zeïla poco prima che arrivasse la Spedizione geografica italiana in detta città. Il P. Gio.[vanni] Damasceno rimase in Zeïla alcuni mesi, nel qual tempo si era cattivata la simpatia di quella città, ed in specie di Abu beker, il quale economicamente lo fece partire con un piccolo accompagnamento alla volta di Scioha, accompagnato da un certo Monsieur Pottier, già soldato instruttore francese, il quale figurava come semplice suo domestico, unitamente ad un nostro allievo indigeno per nome Ghebra Mariam (1a).

sua partenza da Zeïla
[24.4.1876]
Questa piccola carovana partì pacificamente di Zeïla quasi nello stesso momento che vi arrivava colà la Società geografica con Antinori, e poté camminare più di due settimane senza il menomo incontro per parte /218/ dei somauli e dei denakil, i quali anzi, da quanto mi risultò, lo amavano e lo servivano con grande simpatia. sua morte
23-24.5.1876
Ma il buon Padre Giovanni Damasceno, già stanco e travagliato dalle febbri in seguito al viaggio suddetto dalla parte di Massawah, a circa mezza strada ammalatosi [p. 621] di potente febbre cessò di vivere lasciando la desolazione nella carovana, la quale, benché musulmana lo seppelì nel deserto, accompagnato dal pianto di tutti. (1b) La carovana del medesimo però [fine giu. 1876] in meno di 40. giorni arrivò in Scioha felicemente portandomi il suo bagaglio. Se questo santo missionario non fosse morto sarebbe arrivato in Scioha pacificamente senza il menomo incontro per parte delle popolazioni nomadi di quei deserti. La ragione di questo è, perché il missionario cattolico è per lo più uomo di sacrifizio, il quale, da una parte sa tutto pazientare, e suole camminare beneficando i barbari in tutte le maniere a lui possibili; dall’altra parte poi egli non suole essere ricco, e camminare con gran sfarzo ed ecclatto da sollevare la cupidigia dei barbari. Ciò difficilmente si può ottenere da viaggiatori secolari, i quali sogliono viaggiare portando con se un mondo di richezze alle volte anche più visibile di quanto sia reale e positivo [il loro valore].

differenza trà l’uomo di Dio e quello del mondo
[l’uomo di Dio, e quello del mondo]
La storia di questo missionario, unita a quella del mio viaggio dalla costa al regno di Scioha nel 1868., bastano per dare un’idea al mio lettore di tante vicende arrivate, sia al Signore Arnus, sia ancora alla stessa Spedizione geografica. Il missionario cattolico sprovvisto di mezzi temporali, ed armato solo di virtù cristiana, mette in non cale gli onori, le commodità temporali, e le richezze del mondo; egli [p. 622] spera solo nel suo Dio, e cerca unicamente di arrivare allo scopo da lui voluto ad ogni costo, anche della morte. Ciò non si può sperare da una persona di mondo, il quale nel suo cuore non rumina altro che onori, dignità, richezze, commodità, e piaceri della vita materiale. Il missionario cattolico è come un’ucello che vola in alto colle ali dei mezzi sopranaturali, ad una meta celeste, mentre l’uomo di mondo è un semplice quadrupedo, che calcola solo nella robustezza delle sue gambe, e sente tutto il bisogno di un terreno sodo e piano. Io che scrivo, so quanto mi han costato i miei viaggi, e sono intimamente convinto che senza l’ajuto di un Dio, e la speranza di un premio eterno neanche avrei sognato [di] cimentarmi, ed avrei creduto un’ingiustizia se un potere di questo mondo, e per fini solo terreni mi avesse comandato di cimentarmi.

/219/ mio incontro colla spedizione geografica
[dopo il 6 set.]
Ciò detto unicamente per pagare il mio tributo di giustizia al mio Dio, facio ritorno al mio villagio di Wanenamba, dove ho avuto la fortuna di abbraciare [per] la prima volta la nostra Società geografica di Antinori e suoi compagni, e sappia il mio lettore che ritorno a loro, non con un’occhio di sdegno, ma di compassione, e di ammirazione nel tempo stesso, perché, se il Sacerdote sa a suo tempo volare portato dalle ali della providenza del suo Dio, nessuno più di lui, a suo tempo è anche giusto per misurare i sforzi della povera umanità abbandonata a se stessa. Io confesso che mi [p. 623] un gruppo curioso sentij veramente commosso al solo vedere i cari viaggiatori della nostra Spedizione geografica, ma più ancora sono costretto a confessare di trovarmi oggi incapace di esprimere, non dico ciò che passava in quel momento nel mio cuore, ma la sola scena esteriore del nostro felice incontro; scena che in Roma stessa oggi avrebbe un non so che di straordinario e quasi impossibile. Difatti, se un membro della Società geografica, di quelli che hanno chiuso affatto le loro orecchie alla parola rivelata del Cielo, et oculos suos declinare in terram, per prendere il nome di libero pensatore, adottato dalla società civile odierna, e dalla filosofia dell’epoca, avesse veduto il cognito Antinori abbraciarsi stretto con un Sacerdote di Dio, colla sua guancia immobile stringerselo come unico amico suo, che bella scena!, avrebbe esclamato il nostro libero pensatore, che bel gruppo! Forze che il Sacerdote di Dio in Scioha è divenuto libero pensatore? No, e mille volte no, perché sarebbe una gran stravaganza, essendo la verità una ed indipendente dalla libertà del pensatore.

no, e mille volte no No, ripeto io, e mille volte no, il bello del gruppo suddetto non sta nella versabilità e leggerezza delle opinioni, e sistemi filosofici, ma nell’altezza dei cuori riformati di Cristo; qui non vi entra lo spirito di partito che divide i cuori degli uomini, e fa sì, che nella stessa nostra Roma il libero pensatore non può far la pace col Sacerdote di Dio, il quale non può far piegare [p. 624] ad ogni versabilità e leggerezza il deposito delle verità eterne, delle quali egli è il custode; no, e mille volte no, non è l’amore alla verità quello che tiene [costui] lontano dal Sacerdote, non è la libertà di cercarla, ma la questione sta nel cuore che vuole essere libero di dormirsene tranquillo nel fango del vizio, come un’animale immondo. il sacerdote ed il libero pensatore Il cuore del Sacerdote di Cristo, disceso dal cielo per cercare non il giusto, ma il peccatore, egli solo è libero di volare anche al collo dello stesso nemico per abbraciarlo strettamente, come gli apostoli antichi sono partiti da Gerusalemme e venuti a Roma disposti di abbraciare anche Nerone loro nemico, così i moderni apostoli partono da Roma per abbraciare i poveri barbari, o eretici, oppure /220/ pagani. Il volo perciò nel gruppo suddetto non è nel libero pensatore verso il Sacerdote, ma di questi verso il libero pensatore. Quì appunto sta tutto l’ammirabile del gruppo in discorso. Non è lo stesso spettacolo che si vedeva in Roma stessa [† 9.1.1878] quando spirava il Re Vittorio, ed il cuore di Pio IX., quasi moribondo anch’egli, si agitava per dargli la pace? quando [† 5.6.1873] Ratazzi moriva in Frossinone, ed il P. Francesco [da Villafranca] vi correva da Roma?...

Ma lasciamo simili fatti che si replicano direi quasi ogni giorno nella storia vivente dell’apostolato in detaglio dei giorni nostri, e ritorniamo a Wanenamba, dove io correva al bacio dei nostri viaggiatori, rapito, come diceva sopra, anche da sentimenti di ammirazione vera e sincera.

[p. 625] racconti delle sofferenze
[23.7.1876]
Difatti, appena fummo seduti, io provava un gran bisogno di sentire in detaglio le notizie del loro viaggio, e di quello del povero Signor Arnus da essi incontrato in viaggio; essi ancora sentivano il bisogno di tutto dire, e di tutto raccontare. Nel momento in cui scrivo mi è impossibile di tutto riprodurre il complesso della storia di tutte le sofferenze, di tutte le privazioni, e di tutte le perdite, sia [subite] dal Signor Arnus nel discendere verso il mare, e sia ancor più di Antinori e compagni nel salire verso l’alta etiopia, poiché chi discende verso il mare vi discende già un poco abituato a preferenza di coloro che montano verso l’interno. Io che aveva fatto lo stesso viaggio alcuni anni prima, mi trovo obligato a confessare che essi hanno sofferto cento volte più di me e dei miei compagni; in proporzione noi abbiamo camminato fra le rose, ed essi fra le spine; noi siamo arrivati trionfanti, mentre essi arrivarono scorticati ed affranti.

io non me la sarei sentita Ora lasciamo i detagli impossibili a riprodursi colla penna dopo molti anni, ed entriamo nel merito della causa. Lasciamo da una parte il missionario che cammina [per] la via del calvario e gode di soffrire dietro le pedate del suo divin maestro, e prendiamo l’uomo di mondo come si trova, e tal quale è stato fatto dalla nuova società, e tal quale è stato spedito dai suoi superiori [p. 626] questi nel mandarli, non hanno detto loro, andate fatevi Santi e guadagnatevi il paradiso, ma hanno detto loro di andare per fare onore alla patria, e servire alla scienza. Essi ancora nel partire non hanno inteso altro e non hanno sperato altro che onori e rimunerazioni temporali per parte della patria loro. Ora, avendo io sentito [a] raccontare da essi medesimi tutti i detagli delle contrarietà e delle pene sofferte in viaggio, sia dal suddetto Signor Arnus, che dai signori della nostra Spedizione geografica italiana, io stesso sono stato costretto ad ammirare la loro pazienza di veri eroi, e tale che io nel /221/ caso loro, e per motivi così bassi di un miserabile interesse, e di un poco di onore, così a buon mercato non me la sarei sentita.

Landini compagno di Antinori Fra tutti i suddetti colui che più mi stupiva era ancora un certo Signor Landini, uomo già curvo, e più vecchio di me stesso, e di tutti i suddetti, il quale, mentre scrivo si trova ancora superstite e passeggia [per] le contrade di Roma inosservato; sia pure il Signor Arnus, sia pure Antinori, sia pure il povero Chiarini, io diceva allora fra me stesso, questi signori trovano il loro interesse, e la sola passione dell’onore e della scienza ha qualche cosa di superiore e di attraente, ma [per] il povero Landini tanto soffrire unicamente per una simpatia [p. 627] ed amicizia per il suo caro Antinori, od al più per una semplice curiosità di vedere nuovi paesi, oh questo era ciò che più mi rapiva! Caro Landini! soglio dire oggi al vederlo tutto solo, e quasi abbandonato, [a] tremare per le contrade di Roma, eri pur tu quello che camminavi innanzi agli eroi, e facevi loro coraggio, e perché nessuno si cura di te? Si parla delle ceneri del tuo caro Antinori, e tu qui di ritorno, senza il tuo antico padrone il Principe Bonaparte, nessuno penserebbe a te? oh mondo, quanto sono vane le tue grandezze! Io che in certo modo ho curato le piaghe del caro Landini, le quali versarono qualche stilla di sangue italiano in Africa in mezzo a quei deserti inospitali, mi crederei ingiusto, se non lo ricordassi in queste mie memorie. E tu, o caro Landini, non ti dimenticare, che la patria senza Dio è un semplice nome che sparisce nell’orizzonte come la cima di una montagna a chi viaggia in mare; la stessa amicizia non condita dall’amore divino, è un semplice prorito animalesco che cessa allo spuntare del sole sui confini dell’eternità, non ti dimenticare.

la spedizione geografica in Aramba
[5-27.9.1876]
Ma faciamo ritorno alla storia. I signori della Spedizione geografica, trattati colla massima cortesia dai Procuratori del Re Menilik, dovettero rimanere più di un mese in Aramba per aspettare l’arrivo del principe, il quale, terminata appena la Spedizione di Magdala, e restituitosi in Warra Ilù, lasciò là di nuovo il suo campo, e se ne ritornò in Liccèe, per ricevere [p. 628] i nuovi forestieri. arriva il re, e mi chiama
[4.10.1876]
Appena arrivato il Re Menilik in Liccè, io fui chiamato, e volle sentire da me tutti i detagli del loro arrivo ed averne le opportune informazioni prima di ricevergli. Il Re che [non] aveva nessunissima idea dello scopo puramente scientifico della Spedizione geografica, richiamando alla memoria ciò che aveva sentito dai suoi padri relativamente alla [lug. 1841-nov. 1842] Spedizione inglese del Capitano Harris, la quale ebbe luogo in tempo del suo avo Selasalassie, e che non aveva certamente dimenticato tutti i sospetti politici, i quali in quei tempi diedero motivo alla loro espiazione; il povero Re era molto imba- /222/ razzato; egli, molto amico degli europei, con maggiore facilità avrebbe ceduto, ma non così i suoi consiglieri, alcuni dei quali erano vecchj conservatori, i quali ancora si ricordavano delle antiche questioni avute cogli inglesi, e mettevano il povero Re alla tortura. Si fece un congresso in presenza mia.

il congresso dei consiglieri
[† dic. 1855]
parole di ato Naddò
Radunato che fu il congresso, alcuni giorni dopo, prese la parola uno dei vecchj chiamato Ato Naddò, il quale era considerato come padre e tutore dello stesso Re, vivente ancora il suo Padre Hajlù Malacot: Padre, mi disse, oggi voi siete come del nostro paese, dopo quasi quattro anni noi vi abbiamo conosciuto come uomo tutto di Dio che vi occupate più del Cielo che della terra, epperciò noi abbiamo tutta la confidenza in voi; quando un uomo è in pericolo di vita non bastano i medici ordinarli, ma vengono chiamati anche altri quanti bastano per guarirlo; il regno è la vita del Re, il nemico del regno è la malattia del Re. Ora diteci voi, come è possibile che uomini [p. 629] vengano da lontano senza uno scopo po[li]tico con centinaja di cameli carichi? Noi abbiamo avuto anticamente gli inglesi, che erano venuti come amici, e mandati via da noi, sembravano perduti, e quando meno ci pensavamo trenta e più anni dopo essi sono ricomparsi armati, ed hanno distrutto l’imperatore Teodoro. Oggi non si parla più di inglesi, ma si parla dell’Italia, si parla di Roma, e quelli che sono venuti sono mandati dal Re d’Italia il quale sta in Roma. Il solo nome di Roma spaventa tutto il mondo, epperciò noi abbiamo paura. Il nostro Re è ancor giovane; quando vengono uomini di là del mare, egli gli ama molto, senza calcolare molto lontano, ma noi non siamo così, e siamo amici delle nostre tradizioni antiche, e sappiamo molte cose che egli non conosce. Ora noi abbiamo confidenza in voi, e vogliamo sentire anche il vostro parere.

mia risposta al congresso Già io sapeva dal Re tutte le opposizioni che mi avrebbero fatte i consiglieri nel congresso: Io vi ringrazio della confidenza che avete in me, risposi io al congresso, e facio voti, affinché la vostra confidenza sia totale e sincera. Ora, se veramente voi avete fiducia in me, io vi dirò sinceramente lo stato della questione, e vi sarò sicurtà di quanto sto per dirvi. Voi avete tutta la ragione quando dite che il regno è la vita del Re, e che il nemico del regno è il male che mette il pericolo la sua vita. Troppo ragionevole perciò chiamare altri medici quanti bastano per guarirlo. Ma badate bene che tutti questi [p. 630] medici, fossero anche cento, per guarire l’ammalato devono conoscere la natura del male, e dove questo male sta, perché se il male è nelle gambe ed il medico applicherà il rimedio nelle mani oppure nella testa, allora invece di guarire l’ammalato lo amazzeranno, come è chiaro. Qui, o miei Signori /223/ sta la gran questione nostra. si giustificano gli inglesi Il fatto che voi mi citate degli inglesi è stato un grande errore dei vostri padri. Se gli inglesi sono venuti a battersi con Teodoro, essi sono venuti per forza e non volevano venire. [13.4.1868] Essi sono venuti, hanno battuto Teodoro vostro nemico, essi hanno preso i loro prigionieri e [16.4.1868] se ne sono andati, e non hanno cercato di rimanere nel vostro paese, come avrebbero avuto il diritto dopo averlo vinto. Con Teodoro medesimo gli inglesi hanno cercato sempre la pace, e di questo io ne sono stato testimonio; io stesso ho veduto i regali mandati per la pace, ma questi regali non hanno potuto venire, perché la strada del Tigrè era chiusa da Govaziè, e gli inglesi non volevano battersi, ne con Govaziè, ne con nessuno dell’Abissinia; essi cercavano solo i loro prigionieri, epperciò cercavano solo Teodoro.

chi cerca il vostro paese? Non sono dunque, ne gli inglesi i nemici del vostro paese. Così a pari ragione non sono i francesi, non gli italiani, non i tedeschi, non i spagnoli, e non i portoghesi che cerchino di impadronirsi del vostro paese. non i frangi lontani Tutti questi sono paesi lontani, i quali non troverebbero il loro interesse nel cercare il vostro paese. Per essi la guerra [p. 631] con voi sarebbe troppo difficile, perché troppo lontani, obligati a trasportare loro soldati sopra delle barche. Se qualcheduno cerca di venire al vostro paese, una gran parte vi vengono tirati da una vera simpatia, perché siete cristiani che avete conservata la vostra fede, in un paese circondato quasi tutto all’intorno dai musulmani, oppure dai pagani. Una gran parte anche vi vengono per il commercio, oppure per l’amore delle scienze, e per imparare [a conoscere] il mondo, e le diverse lingue. (1c) Gli europei perciò, che voi chiamate Frangi (2a) non sono certamente vostri nemici; anzi sono i veri vostri amici, che sinceramente vi amano, cercano anzi il vostro bene, e se possono, sono disposti anche ad ajutarvi.

ma gli egiziani e gli arabi vostri vicini Ora, diciamolo qui tra noi, sapete voi chi sono i vostri veri nemici naturali, che cercano [di] impadronirsi del vostro paese? Questi sono in generale tutti i musulmani: in particolare gli arabi, e gli egiziani. Voi siete così abituati a convivere con tutti questi vostri veri nemici, che /224/ stenterete a credere quello che io vi dico, e dubiterete anzi di me, perché vi dico il vero. detagli storici in prova Ma abbiate un poco di pazienza, e permettetemi di ragionare: io non vi dirò cose che voi non sapete, perché altrimenti un libro non basterebbe: or ditemi di grazia, il famoso Gragn, [or] son due secoli, che fece man bassa sopra tutta la vostra Etiopia che distrusse l’impero, e [1534] [ebbe] caciato l’Ati da Antotto sino al Tigrè, ove visse [per] anni rifugiato sopra la montagna Devra Damò; il famoso Gragn, [p. 632] che colla spada alla mano costrinse quasi tutti gli abissini a dichiararsi musulmani, non era forze un’musulmano arabo? Chi lo caciò, e [† 21.2.1543] lo uccise nelle vicinanze di Gondar? non sono stati forze i Frangi portoghesi? i quali soli hanno avuto compassione del vostro paese cristiano? Ma lasciamo i secoli passati, e veniamo al nostro secolo: or sono appena [1840] 40. anni, di chi è stata l’armata montata dalla parte di Celga sino al lago di Dembea, non è forze stata quella dell’egiziano Mahumed Aly? Chi l’obligò a ritornare indietro, non è stato forze il Re di Francia? Lasciamo ancor questo dei tempi passati: oggi stesso non è forze l’Egitto quello che vi sta facendo [iniziata: 26.9.1875] la guerra nel Tigrè? Non sono forze gli egiziani quelli, che da tutte le parti custodiscono le vostre frontiere, e proibiscono l’entrata dei fucili e delle munizioni da guerra, onde indebolirvi, affinché non possiate diffendervi?

condotta degli abissini contro i portoghesi Or bene, ritorniamo indietro [di] qualche secolo, e ditemi in fede vostra, come avete voi trattato i portoghesi cristiani cattolici che vi hanno liberato dal terribile conquistatore Gragn? quelli che hanno rimesso sul trono il vostro imperatore Ati Claudios, quelli che vi hanno fabbricato tanti palazzi imperiali di Gondar, e tanti ponti che ancora sussistono come monumenti delle loro fatiche fatte per il vostro paese? Io ho rossore di rispondere a questo quesito, il quale sarà ancora per molti secoli una vergogna per il vostro paese. Non è egli vero, che i poveri portoghesi, [p. 633] venuti da così lontano paese per salvarvi dal nemico, e da voi chiamati e sospirati, dopo avere tanto travagliato per il vostro paese furono caciati da voi come cani, ed i preti loro in particolare, in parte condannati a morte ed in parte esiliati [?]. Ma non sta qui ancora tutto il male; sussurro degli arabi e degli egiziani
la cancrena dell’Etiopia
chi sono stati i susurroni che sollevarono la questione contro i portoghesi loro benefattori? essi sono stati gli stessi loro nemici, cioè gli arabi, ed i copti egiziani. Questa cancrena dell’Abissinia cristiana non è morta, e domina ancora a[i] giorni nostri. Non è il mio stile di discendere al particolare delle persone, perché amo di restare in pace con tutti, altrimenti potrei qui nominare quelli che hanno molto lavorato per l’espulzione della deputazio[ne] inglese nel tempo del gran /225/ [1813-1847] Re (1d) Selasalassie, e potrei dire ancora oggi chi sono quelli che mettono in dubbio a voi la Spedizione italiana di cui è questione. A questo riguardo vi basti l’avviso del nostro D.[ivin] Salvatore, che cioè il lupo si veste ben soventi da agnello, ma egli è sempre lupo: già il vostro paese è pieno di musulmani, e lo stesso partito religioso che vi domina è un partito egiziano.

una storiella al congresso Voglio contarvi ancora una piccola storiella in conferma del fin qui detto, e poi lascierò a voi la parola. Nel mese di Giugno dell’anno 1846 del nostro calcolo latino, io sono partito da Roma per l’Abissinia (2b). Passando in Egitto mi sono recato a visitare fatto di Mahumed Aly Mahumed Aly Pascià, allora Viceré dell’Egitto, accompagnato dal Console generale di Francia in Alessandria. Il Viceré ci ricevette con grande etichetta e cortesia, ma quando sentì che io era un Vescovo in viaggio per l’Abissinia, egli allora prese il [contegno] serio e disse: L’Abissinia è come [p. 634] paese nostro, e nessun Vescovo può partire per l’Abissinia, se prima non giura fedeltà a noi; ah questo poi no, risposi io, io sarò là con quei signori, forze sarà loro amico, come potrò giurare di essere fedele a voi? io sarò fedele a quelli, e non a voi. Eppure è così, ripigliò egli, gli altri Vescovi fanno così, e dovete farlo anche voi: il console francese prese le mie parti, ed il Viceré si calmò, e tutto pareva finito, ma all’opposto, arrivato che fui in Suez per imbarcarmi, il governo egiziano, non mi volle lasciar partire, e fummo obligati a scrivere in Francia, ed allora solamente come per forza ci lasciarono passare (1e). Avete sentito? dunque gli stessi vescovi vostri Copti, prima di venire devono giurare fedeltà all’Egitto per venire in Abissinia. Da ciò potete capire come il governo egiziano pretende di essere padrone del vostro paese.


(1a) Sì parla di questo giovane quando si descrive il mio passaggio in Cairo [1864] nel 1865. avendolo allora preso dai Fratelli delle Scuole cristiane in Caïro per spedirlo a Marsilia. Allora si chiamava Luigi. Un’altra volta si parla di lui nel mio viaggio da Ambabo a Scioha, venuto con me, ma poi alcuni anni dopo [fu] rimandato alla costa per mancanza di vocazione. [Torna al testo ]

(1b) La storia della [della] malattia e della morte di questo missionario nostro è stata scritta dal suddetto Signor Pottiere, e mandata da me in Francia, dove fù publicata da diversi giornali religiosi di Franci [1876] nell’anno 1872. [Torna al testo ]

(1c) Quì io non parlo di geografia; perché in Abissinia i diversi nomi delle scienze sono idee affatto nuove, e non intesi; I dottissimi frà loro conoscono il nome di filosofia, senza saperne il significato. Come già è stato detto altrove in Etiopia il poco di scienza che esiste è la biblica, con qualche piccola idea di astrologia giudiziaria, o magica. Pochissima storia, e piena di lagune, e di confusione. [Torna al testo ]

(2a) Frangi è un nome di disprezzo che gli abissini hanno imparato dai levantini e dagli arabi, come già è stato detto altrove. [Torna al testo ]

(1d) Selasalassie avo del Re Menilik è chiamato universalmente il gran Re, sia per le sue qualità meritevoli di questo nome; sia ancora, perché è stato quello che ha di molto ingrandito quel regno. Egli era il settimo [rampollo] di quella dinastia, e Menilik è il nono. [Torna al testo ]

(2b) Il nostro calcolo latino aggiunge sei anni al calcolo dell’era cristiana etiopica; epperciò il nostro 1846. corrispondeva al 1840. dell’era etiopica. In Abissinia bisogna distinguere l’era cristiana dal Calendario. Quest’ultimo è il Calendario giuliano comune agli orientali, e quello stesso che esisteva fra noi prima della correzione gregoriana. L’era invece un anomalia propria dell’Abissinia. [Torna al testo ]

(1e) Questo fatto è già descritto altrove nel Vol. 1. [Torna al testo ]