/319/

33.
Questione del rito etiopico.
Messa latina adattata al rito.

questione sopra il rito etiopico Finita intanto [intanto] la cerimonia suddetta arrivò il momento propizio per trattare la questione già sopra indicata relativamente all’ordinazione di alcuni indigeni, questione molto delicata, perché unita alla questione del rito etiopico, per il quale, a misura che il nuovo clero arrivava a capire il rito latino, incomminciavano [p. 783] a sollevarmi certe questioni che mi facevano paura. posizone storica della questione Da principio, nel primo anno medesimo del mio arrivo in Scioha, come già ho riferito a suo luogo, per ragioni molto gravi di alta politica religiosa, ed anche per favorire le replicate istanze di molti, io aveva ordinato secretamente due dei primi oracoli, come già è stato detto. Io aveva fatto questo sperando di mettermi in relazione colla missione del Tigrè, e far venire di là il testo genuino della liturgia in uso là, pensando che [† 31.7.1860] il fù Monsignore Dejacobis aveva riveduto bene ogni cosa prima d’inaugurarla. Ma certe lettere sue, che mi scrisse poco prima di morire [mentre io ero] in Kafa mi lasciavano trasparire qualche pena a questo riguardo. In seguito poi [fine 1863] nel 1864. disceso io a Massawa per andare in Europa, avendo interrogato Monsignore Biancheri suo successore, anche egli mi lasciava trasparire alcune sue pene in proposito della liturgia in uso, massime per la Messa. Ma come i miei lavori fra i Galla erano in rito latino, io in Roma non ne aveva parlato. Così la cosa rimase come la lasciò Monsignor Dejacobis, e, da quanto mi pare, nulla è stato fatto.

Ora, stando a quanto han lasciato scritto alcuni scrittori, il Patriarca Mendez aveva tentato alcune riforme della liturgia, e non poté terminarle per causa della persecuzione. Venuto io in Scioha, [io] non pensava più alla liturgia della Messa etiopica, sempre fisso di restarmene nella sola liturgia latina già inaugurata fra i Galla con felice successo. esame fatto con gli indigeni L’ordinazione dei due sacerdoti suddetti fece sortire il bisogno [p. 784] di occuparmene, non potendo soffrire che i due sacerdoti ordinati rimanessero così senza celebrare, almeno qualche volta. Più volte mi sono /319/ la messa etiopica fatto leggere alcune messe, più in uso fra gli eretici, da alcuni indigeni capaci. Le relazioni colla missione abissinese del Nord erano chiuse affatto per la guerra tra Menilik e Joannes per far venire di là il testo in uso lasciato da Dejacobis; d’altronde, anche in quella missione, tutti gli antichi [missionari] da me conosciuti non esistevano più. Venne la circostanza della consacrazione di Monsignore Cahagne sopra narrata, si sollevò di nuovo la questione e si lessero alcune liturgie in uso fra gli indigeni. Ma il novello Monsignore recentemente consacrato aveva troppo bisogno di ritornarsene al suo Finfinnì, per occuparsi della questione del rito etiopico. Egli, visitata la colonia di Rasa col P. Luigi Gonzaga, se ne ritornò alla sua missione lasciando a me tutta la sollecitudine del rito etiopico suddetto.

piano di correzione
[inizio 1875]
Non ho abbandonato la questione, perché troppo mi premeva l’ordinazione di alcuni, e la celebrazione della Messa dai due sacerdoti già ordinati. Si fece il piano di dare un poco di ordine ad una delle 14. messe conosciute in paese, quella che era più in uso fra gli eretici, cioè la Messa dagli indigeni chiamata Mariam. Per dare un’idea del lavoro che dovevano fare i miei indigeni più capaci da me incaricati [dirò quanto segue]. traduzione della messa latina Si incomminciò per tradurre, e colla massima esattezza possibile la nostra Messa della SS. Vergine [p. 785] votiva per annum, incomminciando dall’Introibo sino al fine. Mentre si faceva la traduzione, io ne faceva la spiegazione, sia nella sua parte teologica, che nella parte mistica, oppure allegorica. Fatta che fù la traduzione, e ripassata con tutta l’attenzione si scrisse in due colonne; in una colonna il testo latino con tutte le sue rubriche; a lato del testo latino il testo indigeno, parimenti con tutte le rubriche anche tradotte. Colla differenza però che il testo della liturgia si scrisse in lingua etiopica, ed il testo direttivo delle rubriche tu scritto in lingua amarica volgare.

ordini dati agli indigeni Terminata che fù questa operazione, andate, dissi loro, ordinate la Messa Mariam d’accordo, osservando, per quanto vi sarà possibile, l’ordine della messa latina, principalmente nel canone, [man]tenendo la consacrazione nostra, incomminciando dal Pridie quam... sino all’unde et memores... inclusive. In tutto il resto conservate gli offertorii prima e dopo la consacrazione; levate dal canone certi Santi sospetti, oppure apertamente eretici, come Dioscoro, e basta per parte mia. Lascio a voi di ordinare tutto il rimanente. Io vi do tempo dieci giorni per fare questo lavoro; in capo ai dieci giorni guarderemo di risolvere la questione. Solamente vi raccomando di pregare Iddio, perché simili lavori devono venire da Lui. Sentiti che ebbero i miei ordini, essi se ne andarono, passarono otto giorni in conferenze e tentativi, ma [non] riuscirono a /321/ nulla. Passati i dieci giorni, ritornarono tutti in corpo, non per farmi vedere i loro lavori, ma piuttosto per farmi nuove osservazioni da complicare [p. 786] le mie operazioni. piano presentato dai miei dotti indigeni Prese per tutti la parola l’Alaca Tekla Tsion: Padre mio, disse, la messa latina è un’operazione che cammina con senso e con ordine dal principio sino al fine; tutte le nostre messe invece sono un sacco di molte preghiere e di molte lodi senza alcun ordine. Per ordinare una delle nostre messe bisognerebbe farla nuova, e noi non siamo capaci. Ora che male vi sarebbe, se si conservasse la messa latina, come si trova, almeno nella sostanza? Non potete voi approvarla tale [e] quale si trova? Il canto dei deftari si conservi il nostro come si trova, ma l’essenziale della Messa sia la latina; il publico nostro non se ne accorgerebbe affatto, perché non conosce la lingua. In quanto alle cerimonie esteriori, esse sono cose che si fanno nell’interno del Sancta Sanctorum a porte chiuse; esse si possono eseguire senza inconveniente. Quando entra il feriè Kedassie, cioè il canone della Messa, allora i deftari sogliono sortire dalla Chiesa, e come i preti e diaconi sono tutti cattolici nostri, noi possiamo fare tutto ciò che vogliamo. Tale sarebbe il sentimento nostro, e tocca solo a voi pensare se potete approvarlo, o no.

Il piano presentato del nostro clero non sarebbe stato cattivo; avrebbe anzi tolto, tutte le difficoltà; solamente io non aveva la facoltà di arbitrare in un’affare cosi essenziale, e la sola [p. 787] Sacra Congregazione dei riti coll’oracolo del Papa avrebbe potuto fare un tal passo. mio esame della questione Ma in pratica è egli un’affare possibile? Io ho pensato, ed esaminato la cosa in tutti i sensi ed in tutti i lati per rispondere a me stesso in questa questione, e presentarmela in un lato praticamente possibile, e tale che potesse soccorrere al bisogno mio attuale di quel momento. una mia supposizione Se io mando a Roma questo piano, la S. C. dei riti, veduta la gravità della questione [non] farà mai un passo senza, o chiamare a Roma i dotti indigeni con qualcheduno dei missionarii più capaci fra gli europei, se non altro, come interpreti. Oppure manderà questi miei lavori per essere esaminati anche dalla missione del Tigrè, ed il Vicario ap.[ostolic]o del Tigrè appoggierà la questione ai suoi indigeni. Questo solo passo potrebbe sollevare questioni, e mandare in fumo ogni cosa, e forze anche fare del male, perché gli indigeni schiavi dei loro usi, per una sola parola minaciano anche il scisma. Nel caso mio poi, anche dopo alcuni anni non otterrei una risoluzione, di cui ho bisogno hic et nunc. Quid igitur agendum?

Per altra parte poi un’oracolo qualunque sortito dalla Santa Sede; anche solo sopra l’approvazione di una sola messa etiopica, sarebbe /322/ un’implicita approvazione del [del] rito etiopico, il quale, secondo il mio parere, non è ancora un rito approvato per oracolo [p. 788] della S. Sede, oppure di qualche concilio generale, fin quì, secondo me, la Chiesa di Dio, ha dato sempre delle risposte provisorie, le quali indicano bensì una tolleranza degli usi abissini, ma nessuna bolla pontificia è sortita che abbia approvato solennemente il rito etiopico. Che poi il rito etiopico sia o non sia un rito non tocca a me il giudicarlo o definirlo, ma stando al fatto, ed a ciò che si è fatto fin qui non lo pare. stato del rito etiopico Non lo pare, primo, perché il rito etiopico [non] ha mai avuto un Vescovo etiopico, ma un semplice Vescovo copto; anzi secondo le leggi dell’abissinia, un’abissino non può essere Vescovo, ma deve essere un copto. In secondo luogo poi non mi pare un rito, perché il supposto rito etiopico non possiede una liturgia completa; egli manca in pieno del pontificale, ed il vescovo Copto venuto dall’Egitto dice la Messa Copta, e funziona in Copto; questo supposto rito etiopico non possiede altro che una liturgia del battesimo piena di lagune, ed anche di abusi. Quindi possiede una Messa, anche questa molto bisognosa di correzioni. In tutti gli altri sacramenti, o si sono serviti sempre del rito latino, oppure sono state fatte versioni arbitrarie dal latino.

Io, figlio docile della Chiesa di Dio, come è mio sacro dovere di essere, ne sono, ne voglio essere contrario alla disciplina della Chiesa sulla diversità dei riti, ma altro è essere amico, altro esaggeratore dei medesimi. La diversità dei riti da alla chiesa di Dio un’aspetto di maestosa grandezza, ciò è innegabile. [p. 789] Quando Iddio coll’oracolo della Sua Chiesa l’ha riconosciuto bisogna venerarlo ed ajutarlo per quanto si può. Iddio poi penserà al resto. Tuttavia non bisogna crearlo con delle esaggerazioni, perché di sua natura non lascia di essere una cosa che rende più difficile l’unità della Chiesa medesima. ragioni diverse sopra la stessa materia La Cristianità della povera Abissinia, nata molti secoli dopo, e per sua disgrazia, nella stessa sua infanzia rimasta isolata, prima ancora di arrivare ad un’educazione completa, rimasta orfana, e quasi senza vita, incapace di reggersi da se, il supporla adulta sarebbe una vera esaggerazione. La Chiesa egiziana, che naturalmente doveva essere sua tutrice, suffocata anche essa dall’islamismo, e divenuta un parassito eterodosso nella Chiesa di Dio, epperciò incapace di ajutarla, e compire la sua educazione; sono queste tutte circostanze da calcolarsi, per non abbandonarla. Se io dunque ho detto sopra che non è un rito, ho voluto semplicemente far conoscere il suo stato quasi inselvatichito, per movere la Chiesa di Dio a pensarvi, e provedervi. Questo è stato tutto il mio scopo.

una mia protesta Io poi [non] ho mai avuto intenzione di occuparmi direttamente dei /323/ diversi riti esistenti nella Chiesa di Dio, essendo questa una questione che io non ho studiato abbastanza. Se ho detto qualche cosa in queste mie memorie, non sono stato mosso da una passione di dominare; la compassione piuttosto di vedere tante cristianità separate dalla Chiesa di Dio, unico centro di vita sopranaturale, ha potuto farmi dire [p. 790] certe cose meno esatte: il mio scopo però è sempre stato quello di concentrare il gregge di Cristo verso la vera Chiesa madre. L’esperienza mi ha fatto conoscere un mare di miserie nelle diverse Cristianità, massime nell’oriente, e mi ha fatto conoscere ancora le grandi difficoltà che incontra la Chiesa di Dio per rimediarvi, difficoltà tali, che rendono la malattia quasi incurabile. La questione dei riti entra di mezzo, ed è cagione in gran parte dei gran mali suddetti. L’oriente è il paese dei nostri primogeniti; il popolo è per se stesso molto religioso, ed inclinato a sentire la parola di Dio. Più volte ho trovato, nei miei viaggi, di questi scismatici isolati; ho veduto sempre in essi una gran tendenza, verso il missionario cattolico, una gran cura di far battezzare i loro figli, e di venire alla Messa; sopratutto in morte, erano fortunati di confessarsi, e di ricevere i sacramenti prima di morire. Chi ha letto queste mie memorie deve convincersi di questo fatto nella storia di [1850]
[1864]
Stefano in Massawa, e della casa Tomas in Gedda.

un mio parere Secondo me, sarebbe questa una questione molto da studiarsi: è questione niente meno di un buon terzo della cristianità; di quella cioè che mantiene ancora uno scheletro di gerarchia ecclesiastica, e quasi intatta la fede nei sacramenti. il scisma orientale Certamente che la Chiesa di Dio non ha dormito sopra questa materia; non vi è secolo nel quale non si siano fatti grandissimi tentativi per la riunione delle Chiese d’Oriente, tentativi rimasti sempre o quasi sempre senza frutto. Io non sono al caso di esaminare le ragioni per le quali tutti questi tentativi non sono riusciti, ma un’altro [p. 791] più dotto e più illuminato di me potrebbe scoprirne le ragioni, e suggerire dei mezzi termini, per rendere più efficace il ministero su questo punto. La prima causa è certamente la mancanza di fede e di istruzione nel clero, perché al lume della fede il scisma diventa impossibile. La seconda causa è senza dubbio il cesar[as]ismo, col quale il clero ab antiquo ha fatto causa comune. La terza causa potrebbe forze essere anche la questione del rito, spinta forze troppo avanti per soverchia prudenza. In questa materia, secondo il [mio] poco giudizio, non si dovrebbe dimenticare l’origine della diversità delle lingue, come l’abbiamo nel Santo Libro. Prima la famiglia umana aveva una sola lingua; venne l’orgoglio di Babele, e naque la confusione di Babilonia. La Confusione delle lingue è stata dunque un castigo, dopo il quale /324/ è venuta la confusione delle idee, cioè il paganesimo. Ciò che è stato un castigo non potrà mai essere un tipo di perfezione. La Chiesa di Dio l’ha tollerata, e pro bono pacis ha anche sanzionato la diversità dei riti, ma da quanto mi pare [non] l’ha mai raccomandata, come istrumento di divisione e di scisma nella Chiesa medesima.

la mia risposta al clero indigeno Ciò sia detto unicamente per far conoscere il terreno, sopra il quale, io ho creduto bene [di] fondarmi nella risposta alla domanda fattami dal clero indigeno di Scioha. Radunato il mio piccolo clero, ciò[è] alcuni già ordinati alcuni anni prima, e che non avevano ancora celebrato, ed alcuni altri che avrei avuto bisogno di ordinare: Sentite, dissi loro, voi sapete le mie intenzio[ni] quali erano, di aggiustare almeno una delle messe in uso nel vostro paese; ne abbiamo riveduto parecchie, ma non si è trovato altro che disordine. Con tutto ciò io rimaneva fermo nel mio progetto. Per [p. 790 bis = 791 bis] facilitarvi l’operazione, abbiamo tradotto una messa latina, affinché vi servisse di norma, e vi ho fatto la spiegazione della medesima. Dopo ciò, come sapete vi ho dato dieci giorni di tempo, per ordinare una delle vostre messe a norma del tipo latino. Quando io sperava di vedere il vostro lavoro compito, voi invece vi siete presentati facendomi la domanda di poter celebrare colla messa stessa tradotta dal latino.

concedo la facoltà richiesta Ora, fatte le mie riflessioni, e calcolate le grandi difficoltà per avere una risposta da Roma, la sola giudice competente in materia di rito. Per non vedervi obligati ad aspettare ancora degli anni senza celebrare, eccovi la mia risposta provisoria. Io in virtù delle facoltà straordinarie ricevute, e come rappresentante la S. Sede di Roma, autorizzo i sacerdoti da me già ordinati prima, e quelli che verranno ordinati in seguito, o da me, oppure dai miei successori, di condizioni apposte poter celebrare servendosi della messa recentemente tradotta dal latino; ciò colle seguenti condizioni:

1. Previo giuramento di servirvene solo provisoriamente sino a nuovi ordini venuti da Roma: ciò unicamente per amministrare la ss. eucaristia ai fedeli nostri cattolici in caso di bisogno.

2. Di celebrare solo nei nostri oratorii privatamente, e senza nessuna solennità.

ostie fermentate 3. Che si celebri in fermentato, facendo delle piccole ostie a uso latino, e coi ferri di uso fra noi, se si potranno avere.

e vino di zebibo 4. Che riguardo al vino si osservino a puntino tutte le regole da me prescritte nel caso di farlo col zebibo.

[p. 791 bis = 791 ter] vesti, 5. Che il sacerdote non possa celebrare, se non /325/ vestito di vesti sacerdotali a uso latino, meno la pianeta, in luogo della quale potrà sostituirsi la cappa (piviale) in uso nel paese.

cerimonie, 6. Si conserverà l’uso delle due specie sacramentali; ma per evitare gli inconvenienti si insegnerà un cerimoniale a parte.

e canto 7. Nelle messe private non avranno luogo i canti dei deftari; ma in caso di bisogno come liturgia affatto estranea alla celebrazione della s. messa, si potranno permettere i canti in uso nel paese, purché non vi siano cose contro la fede o costumi, e siano materiali presi dalla S. Scrittura.

8. In quanto all’amministrazione degli altri sacramenti potranno servire tutte le traduzioni state fatte, fino a tanto che non verrà un testo approvato da Roma.

si raccomanda il secreto Terminata che fu la questione della Messa e del rito, Sentite, dissi: siccome queste mie determinazioni non sono che provisorie, e potranno essere annullate da un giorno all’altro dalla S. C. dei riti di Roma, alla quale [lettere di M. a Propaganda: 18.2.1875; 20.11.1877] io ho riferito ogni cosa, voi siete rigorosamente proibiti di publicarle. Voi potrete sempre che volete servirvi della Messa da noi tradotta dal latino, come se fosse una delle Messe del paese, ma dovete guardarvi bene di sollevare la questione della mutazione stata fatta, unicamente per mettere in sicuro la mia e la vostra conscienza. Secondo l’uso del paese, il ferie kedassie (infra actionem) è una parte esclusivamente del sacerdote, che suol terminarsi nel Sancta Sanctorum a porte chiuse, il popolo, dal momento che sente la lingua sacra del paese, [non] arriverà mai a capire il cangiamento da noi fatto; anzi gli stessi preti, i quali [p. 792] sanno appena leggere senza comprendere la lingua sacra, essi medesimi non arriveranno mai a penetrare il mistero delle cose nostre (1a). L’introduzione quindi di una messa [la]latina potrebbe rimanere anche molti anni senza essere scoperta, e quindi passare in uso fra gli indigeni eretici stessi.

sistema nelle questioni Qui credo bene [di] notare una cosa molto utile alle nostre missioni. Quando occorresse di correggere qualche errore isolato nei loro riti, oppure anche nei loro libri; non è sempre una cosa lodevole il sistema di fare la cosa publica, per mezzo di consigli o dispute moltiplicate, altrimenti si corre pericolo di sollevare questioni anche micidiali. Nelle dispute esiste sempre la parte che contradice, anche fra i nostri proseliti. Chi fa l’avvocato contrario nelle dispute, suol farlo per lo più guidato dalla passione di prevalere e farsi onore; non si può supporre [per]perciò dotato di una virtù sufficiente per darsi vinto, anche nel caso di conoscere il suo torto; egli perciò non lascierà di moltiplicare le lagnanze ed accuse contro chi l’ha vinto. Ne viene perciò la conseguenza d’incomminciare la questione, quando dovrebbe essere terminata. Il sistema migliore quindi, e sempre quello, di assicurarsi secretamente coi dotti, e poi fare le cose secrete. I paesi che vivono di tradizione e di abitudine, è così che vanno presi; altrimenti [non] si farà mai nulla, e si cade nell’inconveniente delle nostre camere legislative.

Questo sistema è utile non solo al missionario apostolico, ma allo stesso viaggiatore fra i popoli barbari, se pure egli vuole andare [p. 793] la guerra dell’apostolo, e quella del soldato lontano, e camminare sicuro; questo è il sistema cristiano. Il cristiano prende raramente a ribuffo le passioni del uomo suo fratello; egli cerca più di convincersi, che non di vincere. Una volta convinto della verità, la quale sta sempre dalla parte di Dio, anzi è Iddio stesso; una volta trovata la verità, egli considera come la vittoria compita; epperciò non si cura più della vittoria esterna, ma cerca piuttosto di convincere, che non di vincere, lasciando anche trionfare esternamente il suo avversario. È questo il pretto e netto [d] sistema di Cristo, che suole vincere perdendo, e perdere vincendo. Cristo è stato vinto nei tribunali umani di Pilato, e dei Pontefici, ma ha convinto il mondo della verità, e l’ha [at]tirato perdendo, e morendo. Il vero missionario apostolico e seguace del suo maestro, egli figlio di questa scuola ammirabile, suole tenere questa via, e non mancherà di vincere, o tardi, o tosto. L’apostolo, che cerca solo di convincere, trovata la via vera, egli suole fare uso della pazienza, più che dei cannoni e della spada; la pazienza attacca il cuore del uomo e convince, mentre il cannone e la spada, vincendo distrugge ed irrita l’uomo materiale nelle sue passioni. La Vittoria del soldato è di oggi, quella dell’apostolo di Cristo è vittoria di domani. L’apostolo che ha fede, se non vince in questo mondo, vince nell’altro.


(1a) Nel paese di Scioa appena sanno leggere la lingua sacra, ma non la comprendono. In Tigrè poi la cosa sarebbe diversa, perche il dialetto volgare del paese è la lingua sacra corrotta, epperciò il clero la comprende di più. [Torna al testo ]