/27/

3.
Udienza di Joannes: Masciascià Workie.
Gli scioani ostili alla pace.

i due eserciti [stanno] per separarsi Quando i due eserciti di Giovanni, e del Re Menilik entrarono nelle Provincie nord-ovest del regno di Scioha, le cose cangiarono d’aspetto. I due eserciti dovevano separarsi a giorni; i due principi uniti in pace dovevano tollerarsi a vicenda, e dimostrarsi una simpatia come obligata dalla prudenza per non dare motivi ad una rottura, benché entrambi si trovassero in una posizione di vera violenza da desiderare il momento della loro separazione. Da una parte l’imperatore Giovanni aveva accordata il razia all’armata contro le abitudini del regno di Scioha, a cui prese parte anche l’armata [p. 897] del Re Menilik con disgusto quasi universale della sua diplomazia, la quale non soleva arrivare a simili ecessi, se non nei casi di guerra accanita nei paesi di nuova conquista. L’imperatore Giovanni intendeva con ciò di prendere la sua posizione di despota dopo un mese di forzata prudenza trovandosi nell’interno del regno di Menilik; ed intendeva anche dare uno sfogo alla sua armata accostumata a simili eccessi. umiliazione di Menilik Il Re Menilik per parte sua, passate le nozze del suo incoronamento, doveva in ciò fare una publica confessione ed una professione di suddito, a spese della sua antica autonomia. Era questa per lui una grande umiliazione.

Devra Libanos divenuto karra A tutto questo si aggiungeva l’affare di Devra Libanos, il quale aveva irritato più della metà del suo regno. L’istesso imperatore Teodoro, impadronitosi del regno di Scioha, aveva rispettato sempre quel santuario, e [non] cercò mai di darlo nelle mani del partito Copto eutichiano; egli aveva negato il [permesso al] Vescovo Salama, che, si trovava con lui in Scioha, di visitare quel santuario. Il Re Giovanni all’opposto lo diede al suo Ecciecchè capo del partito Karra eutichiano, e l’Ecciedché lo diede ad Abba Ghera Salassie confessore della corte del Re Menilik e capo eutichiano in Scioha. Un simile passo equivaleva in Scioha, quasi tutto appartenente alla fede Sost Ledet, ad una dichiarazione generale di fede eutichiana, contro tutte le tradizioni di quel regno; epperciò naque nel regno di Menilik un disgusto quasi universale. Ma non si arrestò /28/ qui ancora [p. 898] la piaga della disunione tra i due principi, e tra i due eserciti. calunie e brighe degli eutichiani La missione cattolica aveva piantato profonde radici nel paese di Scioha. Io in particolare, come già molto conosciuto in tutti quei contorni, e persino al campo di Teodoro, dove il Re era stato educato, aveva preso una grande influenza nella corte del Re, e sopra il suo cuore. In seguito a tutto ciò il partito Karra eutichiano aveva lavorato molto alla corte dell’imperatore Giovanni contro la missione cattolica, presentandola come complice di tutte le mene del Re Menilik colla politica egiziana, tutte bugie, delle quali già si disse qualche cosa altrove, essendomi io dichiarato affatto contrario a simili mene, come l’alta diplomazia di Scioa alla presenza dello stesso Re Menilik, aveva già dichiarato nel trattato della pace. Tutte queste calunnie erano già state distrutte, ma pure l’imperatore Giovanni, il quale se ne era molto giovato, tenne detta mia giustificazione secreta, per non scoraggire il partito eutichiano che molto si adoperò per la pace.

loro manovre contro di noi Questo partito intanto sempre dominante alla corte dell’imperatore Giovanni, tenen[te] la chiave delle udienze presso l’imperatore Giovanni, lavorò sempre da una parte per tenermi lontano dall’imperatore medesimo mandando in fumo tutte le intelligenze passate tra l’imperatore Giovanni, ed il Re Menilik sul punto dell’udienza mia per motivi e timori esaggerati, senza che gli stessi due principi se ne accorgessero. parole di Menilik a Giovanni Dopo otto e più giorni dal mio arrivo al campo, il Re Menilik, vedendo che la mia udienza sempre veniva prolungata da un giorno all’altro, stanco alla fine ne parlò all’imperatore con queste parole = Sire, siamo stati d’accordo di chiamare Abba Messias, dicendomi voi stesso [p. 899] che desideravate vederlo; gli ho spedito tre lettere, ed egli mezzo ammalato è al mio seguito da otto giorni; si è presentato alcune volte al vostro campo inutilmente; già in lontananza le notizie vanno, chi dice che è stato bastonato dall’imperatore; altri dicono che è legato, ed altri, che deve partire con V.[ostra] M.[aestà] per essere caciato dal paese. Se non lo volete ricevere ditemelo, che io lo rimanderò al suo monastero, ma pensate voi alle conseguenze... risposta dell’imperatore Quando l’imperatore ebbe sentito le parole del Re Menilik stette un momento pensieroso, ma poi, rotto il silenzio, tutto risoluto rispose: ma certamente che io voglio riceverlo; ditegli che venga domani a mezza mattina, ed appena recitato il mio Salterio io lo riceverò. Quali consigli, e quali ordini abbiano avuto luogo alla corte imperiale io non ho potuto saperlo, solamente da una sorgente certissima io ho potuto [conoscere] le suddette parole del Re Menilik all’imperatore, e la risposta di questi al Re Menilik, come sopra sta scritta.

/29/ notizie della sera Difatti della stessa sera sul tardi alcune persone venute dalla corte dell’imperatore vennero a dirmi che in corte si parlava del nostro ricevimento e di alcuni preparativi che si stavano facendo nella gran tenda di ricevimento, e nel campo del Re Menilik molto si parlava pro e contro; arrivata la mattina seguente a un’ora di sole circa arrivò un domestico dell’interno della corte di Giovanni a chiamarci. andata nostra al campo di Giovanni
[6.4.1878]
Prima di noi partì il Re Menilik col suo treno solito, e circa un’ora dopo siamo partiti noi, accompagnati da pochi dei nostri per custodire [p. 900] i muli di cavalcaturi, e preceduti dal messaggiere imperiale. Dal campo interiore del Re Menilik, dove era la nostra tenda, [ci siamo trasferiti] sino al campo interiore dell’imperatore Giovanni; abbiamo messo non più di un quarto d’ora; camminando, amici ed inimici, tutti ci guardavano ciascheduno nel loro senso. Appena arrivati, non ci fecero aspettare, ma fummo introdotti subito in una piccola tenda di aspetto, tutta vicina alla gran tenda di udienza, dove abbiamo aspettato un’altro quarto d’ora noi due soli, io cioè ed il P. Gonzaga; per dar campo agli ultimi preparativi ordinati espressamente per noi. Io mi attendeva un qualche cerimoniale speciale, atteso il movimento che si spiegava intus et foris; nel poco tempo di aspetto, una gran calca di persone rispettabili delle due corti erano stati introdotti come spettatori del gran momento atteso dal publico, come una crisi che interessava molti di tutti i partiti; eccoci chiamati.

introdotti all’udienza Fummo condotti ad un’apertura laterale della gran tenda dell’udienza imperiale; in mezzo alla calca passammo una specie di corridoio per arrivare ad un’altra apertura tutta vicina; passammo anche quella, per entrare nella platea del trono imperiale, luogo oscurissimo, a segno che io nulla vedeva, solamente ho sentito la voce del Re Menilik non molto lontano, e la voce dell’imperatore che ci disse: ben venuti.

Masciascià Workie Chi ci aveva introdotti nella gran sala del trono era un certo Ato Masciascià, [p. 901] persona da noi molto conosciuta alla corte del Re Menilik (1a), fù egli che mi disse: L’imperatore vi dice[:] ben venuti; ma io mi trovai in mezzo ad un mondo di gente, e perfettamente all’oscuro. dialogo coll’imperatore Dopo mezzo minuto di silenzio mi sono orizzontato un tantino, ed ecco il breve dialogo che ebbe luogo con Giovanni.

/30/ D.[omanda] Giovanni: Perché siete venuto?

R.[ispondo] Io: Per fare un’atto di rispetto a V.[ostra] M.taestà]; mi perdoni se mi presento colle mani vuote, perché non ho avuto il tempo di preparare [il dono], ma vi rimedierò.

D.[omanda:] Cosa fate quì in Scioha?

R.[ispondo:] Vostra Maestà deve sapere che sono un missionario cattolico; come voi avete missionarii cattolici nel Tigrè, dovete conoscere cosa facio. Ad ogni caso, il Re Menilik tutto vicino a V.[ostra] M.[aestà] potrà informarvi di ciò che facio.

D.[omanda: E che cosa volete?]

R.[ispondo:] Io non domando altro che la libertà del mio ministero. Presento le mie congratulazioni per la pace fatta; prego Iddio, affinché la benedica. Quindi occorrendo qualche bisogno io vi farò sentire la mia parola col mezzo di Menilik, del quale non ho che lodarmene.

Questo è poco presso il dialogo che ebbe luogo tra me e l’imperatore Giovanni. Dopo ciò l’imperatore disse: molto bene, potete ritornare al vostro campo, ed io parlerò col Re Menilik, e per mezzo di lui vi farò conoscere le mie intenzioni. Ciò detto, senza vedere nessuno, fatta una riverenza, sono sortito.

[p. 902] ammirazioni sul ricevimento Il mio lettore sarà stupito nel leggere come andò a finire la mia famosa visita all’imperatore Giovanni, la quale fece tanto parlare [il] tutto il regno di Scioha. A dire il vero, io stesso ne sono stato stupito, e confesso che molte parti di quella storia mi sono ancora attualmente un mistero. Nei 35. anni di missione in Etiopia, pendenti i quali, ho potuto conoscere quasi tutti i principi abissinesi, non esclusa la casa paterna dell’imperatore Giovanni, nella quale ho passato tre giorni, ed ho conosciuto la sua madre, ed il suo fratello maggiore, io confesso di non avere veduto un ceremoniale così stravagante, e potrei dire anche sciocco. L’aver trovato Masciascià Workie alla corte dell’imperatore, come mio introduttore, e come cerimoniere del trono imperiale, tanto mi bastò per darmi un’idea molto superficiale e puerile di quel ricevimento; ciò mi fù come di un’avviso a non cercare discorsi serii coll’imperatore Giovanni, essendo Masciascià conosciuto da tutti come il procuratore degli eutichiani a quella corte.

un mio sospetto Potrei sbagliarmi, ma io attribuisco a lui tutto quell’apparato tenebroso. Presso l’imperatore io fui presentato come una specie di negromante, persona molto pericolosa, dalle cui parole non solo, ma dai suoi sguardi /31/ conveniva guardarsi. L’imperatore sentiva nel suo cuore un certo bisogno di vedermi, perché egli ha dovuto sentire parlare molto di me, non solo alla corte di Teodoro, dove egli si trovava nel 1863. quando io fui per qualche tempo a quella corte; egli ha dovuto conoscere in modo particolare il mio corregna, o compagno di catene, e forze ha avuto con lui delle conferenze dopo la sua conversione. Dopo [p. 903] [di] tutto ciò egli dalla sua famiglia ha dovuto sentire molte cose di me dal suo fratello maggiore Goxà e dalla sua Madre Waletta Salassie. ragioni di conferma Masciascia Workie, il quale si trovava pure alla corte di Teodoro, e forze presente a molti portenti fatti da Dio colà, come già ho riferito altrove, già forze posseduto dal demonio fin d’allora, invece di esserne edificato, come lo furono moltissimi, ha dovuto attribuire tutto quello ad una virtù magica, come suole arrivare per lo più a molti cuori similmente posseduti dal diavolo, i quali trovano a dire, non solo sopra il Papa, ma sopra i Santi, e sopra Cristo medesimo, uomini della categoria del Curci, del Renan, e di tanti altri simili uomini satanici. Con quest’arma Masciascià Workie ha dovuto formarsi un largo frà gli eutichiani molto numerosi alla corte di Giovanni. Il nostro Masciascià ha dovuto prevenire l’Ecciecchè, e gli altri oracoli Karra eutichiani per impedire ad ogni costo il mio ricevimento; ma quando ha veduto che non poteva più impedirlo si manovrò in modo da renderlo, non solo inutile, ma ridicolo in facia al publico.

fui condannato al limbo Difatti la trasformazione tenebrosa della tenda imperiale unicamente stata aggiustata per il mio ricevimento è un mistero che non si può spiegare diversamente. Il tendone del ricevimento imperiale è bianco, grandissimo, epperciò per se stesso molto chiaro. Nella notte precedente Masciascià Workie con alcuni domestici dell’Ecciecchè, combinarono nella notte altre due tende di colore oscuro nell’interno del gran tendone che lo rendevano talmente oscuro, che io [non] ho potuto vedere, ne l’imperatore, ne nessun altro di coloro che mi stavano d’intorno: un raggio del sole come una saetta mi cadeva sul volto da rendere la mia figura visibile [p. 904] all’imperatore ed a molti altri, mentre esso mi accieccava completamente. Entrando io aveva cercato di innoltrarmi un poco più, ma Masciascià Workie che mi stava accanto mi teneva fermo proprio in quel punto; da ciò ho argomentato che sia stata una cosa combinata. fine del ricevimento: congratulazioni Sortendo dalla tenda imperiale, appena fummo un poco lontani mi aspettavano alcuni dei nostri impazienti di presentarmi le loro congratulazioni: tutto è andato alla meglio, [notarono,] ma pure abbiamo osservato una cosa che fece colpo a tutti; in mezzo a tutte quelle tenebre, quel raggio di luce sempre costante sopra la sua testa /32/ [per] tutto il tempo dell’udienza, quello veniva proprio dal cielo, come vediamo nelle immagini, [e si commentava:] ecco Mosè che discende dal monte colla facia cornuta: la luce e le tenebre che quella luce sia venuta dal Cielo, oppure dagli uomini, lasciamo da una parte la questione, risposi io, ma debbo farvi osservare una cosa, ed è, che la luce illumina sempre ed è fatta per schiarire la vista, mentre a me faceva l’effetto contrario. No, caro Padre, rispose egli, l’amore all’umiltà ceda oggi a quello della gloria di Dio, e cento volte no; perché in tutti, anche nei nemici nostri, quella ha prodotto una sensazione opposta.

Al sentire questo mi sono imposto silenzio. Sarà, dissi, perché Iddio tutto può, ed avrà ragione colui che, mancando un pezzo d’acciajo, ottenne il fuoco percuotendo la pietra focaja con un pezzo di zucca. In seguito a ciò non ho voluto esaminare più oltre il fatto, ma da quanto ho potuto conoscere la sensazione prodotta sembrava davvero quella. Se così è, bisogna confessare, che in presenza di un cuore retto e semplice, e di una fede viva, il diavolo stesso serve [p. 905] anche qualche volta la s. messa come un’angelo, benché senza merito; anzi per la sua confusione. Masciascia Workie Masciascià Wo[r]kie, era una persona che [non] veniva mai da me, ed [ed] interrogato più volte non aveva rossore di dire che non veniva per tre ragioni, primo, perché era framassone; secondo, perché era mio nemico, essendo Karra in corpo ed anima; terzo, perche non voleva convertirsi al cattolicismo. Egli non poteva parlare più chiaro, come non poteva parlare più chiaro Garibaldi contro il papa, seguito da tutta la sua schiera di angeli caduti dal cielo con Satanasso, eppure siamo sempre ancora obligati a sperare il salutem ex inimicis nostris, perché Iddio l’ha detto, e sta scritto; egzier ibaltal, cioè Iddio è sempre vincitore, [come] dicono gli abisini, ed è vincitore anche perdendo. Così finì la questione del mio ricevimento.

congedo delle due armate Fratanto passarono circa otto giorni di pigliagio orrido che distrusse tutte le Provincie nord-ovest del regno di Scioha sul versante del Nilo Azzurro; a questo pigliagio dovette stringere le spalle il A Re Menilik, perché, nella pace conchiusa coll’imperatore Giovanni, si era obligato a scortarlo sino alle frontiere dei Galla Wollo. ultime convenzioni trà i due alleati Due giorni dopo il mio ricevimento si separarono le due armate colla condizione [imposta a Menelik] di un tributo annuo, e della rinunzia al titolo d’imperatore. Riguardo alla fede dovevano restare in vigore le decisioni provisorie che ebbero luogo a Devra Libanos. Per il restante fu stabilito lo statu quo sino ad un’anno; dopo il quale si sarebbero [p. 906] radunati tutti i più dotti dall’estremo nord all’estremo sud dell’Etiopia per esaminare la fede, giurando l’imperatore, che egli stesso [avrebbe] abbraciato la fede /33/ che sarebbe stata creduta la migliore in concilio. L’imperatore giurava pure nella pace conchiusa che in avvenire non avrebbe più oltrepassato i Wollo colla sua armata; lo stesso avrebbe fatto il Re Menilik dalla parte del nord. Il Re Menilik per parte sua si obligava innoltre a fare la pace con Bafana, restituendola allo stato di prima nella sua piena situazione di regina.

una lagnanza contro Bàfana Questa ultima condizione fù la più indigeste per quasi tutta la diplomazia del regno di Scioha; è il segnale, dicevano, che la nostra pace non è sincera; questa donna è stata quella che ci ha tirato in Scioha l’armata dell’imperatore, colla speranza di distruggere la nostra dinastia regnante per introdurre quella dei suoi figli colla protezione dell’imperatore. Dopo la sua rivolta noi abbiamo già protestato contro di essa, e volevamo escluderla dalla pace: Oggi ci ha portato una pace vergognosa, pace che noi non cercavamo. Per causa di questa donna la nostra sede di Devra Libanos è occupata da un Karra eutichiano; per causa sua i soldati di Gondar hanno gustato il pigliagio del nostro paese, e cercheranno sempre di ritornarvi. Per ingannarci ha promesso un congresso in materia di fede, dichiarandosi disposto di abbraciare egli stesso la fede di Devra Libanos, onde introdurre l’unità della fede nel paese. [p. 907] Scioa non crede a Giovanni Ora tutte queste sono bugie; egli spera col mezzo di Bafana di finire di distruggere il nostro paese, la nostra fede, e la nostra dinastia; vada la pace, essi dicevano; noi non cerchiamo il suo paese, ma se viene possiamo batterci e ci batteremo. Nel momento della separazione delle due armate il disgusto era tale, che faceva temere una rottura; ma il Re Menilik teneva forte per la pace, e le truppe di Scioha non erano tutte concentrate, motivo per cui l’imperatore Giovanni la passò franca, e poté sortire sano e salvo; del resto non saprei come sarebbe andata.

Partenza dell’imperatore per Derrà
[9.4.1878]
L’imperatore prese la via di Derrà piccolo principato musulmano, verso il Nilo sulla strada del Gogiam, principato che per l’avanti aveva sempre mantenuto la sua indipendenza ed autonomia, favorito da una fortezza, benché attaccato molte volte dagli antichi Re di Scioha, e dallo stesso Menilik. L’imperatore Giovanni, senza attaccare la fortezza di Derrà, col pigliagio distrusse tutto quel paese, e se ne ritornò in Beghemeder per la via di Saïnt. Menilik a Tirrà
[a Jaga: 10.4.1878;
a Uolaumu: 11.4.1878;
a Gullalè: 12.4.1878]
Partita che fu l’armata dell’imperatore Giovanni, il nostro Re Menilik era come umiliato per restare ancora, anche solo un giorno in quelle provincie state distrutte dall’armata imperiale sotto la sua stessa protezione; neanche volle ritornare per la via che era venuto vergognoso di vedere la desolazione di tutti quei paesi, onde qualche ora dopo fece il giro all’ovest verso Tirà, e passammo la notte, in un bellissimo paese all’Est [p. 908] del paese suddetto, dove le po- /34/ polazioni non furono toccate, ma tuttavia si trovavano ancora in fuga per timore. malinconie di Menilik Io [non] viddi mai il Re Menilik tanto malinconico, come in quel giorno; egli tutta quella sera girava da solo, e [non] si lasciava avvicinare [da] nessuno. Il campo nostro presentava l’aspetto di una casa, dove era succeduta una gran catastrofe. Abbiamo girato circa tre giorni o quattro al sud-ovest per schivare i paesi ed i popoli stati saccheggiati. I corrieri stessi venuti da lontano non potevano avere udienza dai Re. Le persone venute dalla parte di Ancober o dall’interno al vedere me ed i nostri della missione facevano le loro meraviglie e le loro più vive congratulazioni, perché ci supponevano partiti coll’armata dell’imperatore Giovanni.

un dialogo con Menilik Alla fine il Re ruppe il silenzio e mi fece chiamare: ebbene, disse, è stato contento della visita fatta ad ati Joannes? Io so[no] certo d’avergliela fatta, [risposi io,] ma siccome [non] ho veduto nessuno, potrei sempre ancora dubitarne (1b). Io non so come l’imperatore Giovanni siasi lasciato dominare dalla paura d’incontrarsi ad occhio nudo con voi, ripigliava il Re Menilik, è quel matto di Masciascià Workie che ha fatto tutto quell’apparato: credetemi, che l’imperatore non sarebbe cattivo; (2a) mentre così diceva venne un suo operajo a fargli vedere il nuovo sigillo. L’emblema del Leone di giuda era ancora quello di prima, solamente l’iscrizione era stata [p. 909] cangiata, invece che prima diceva, Menilik re dei re d’Etiopia, diceva solamente[:] Menilik Re di Scioa; benché lo già avessi tutto veduto, pure mi diede il sigillo in mano, dicendo queste precise parole, vedetelo se è ben fatto, e se [non] manca nulla. Dopo averlo esaminato glie l’ho rimesso: l’opera materiale dell’artista è ottimamente eseguita, risposi io; per tutto il resto poi, io ringrazio Iddio, che il Leone sia ancora in piedi colla sua corona in capo, (1c) e ciò non è piccola cosa. Ma non avete osservato lo scritto, egli soggiunse? In quanto allo scritto, io già l’aveva veduto due mesi prima, quando voi avete permesso di entrare nel vostro regno senza batterlo, poiché è cosa chiara che due imperatori non possono aver luogo nello stesso paese; allora fù cancellata. la questione della pace Ma non siete voi che mi /35/ avete suggerita la pace? egli aggiunse, facendomi vedere una mia lettera in cui io l’esortava ad una pace sincera. No, risposi io, non vi ho esortato alla pace, come cosa mal veduta dal vostro paese.

Fu in quella circostanza che io ho creduto di fare una mia difesa col Re Menilik. Benché la pace sia per se medesima una cosa sempre da consigliarsi e da desiderarsi, quando essa è giusta, ed io con certe riserve non avrei certamente lasciato di consigliarla; nel caso in questione però io non l’aveva consigliata. Prima di tutto, perché il Re Menilik in ciò [non] mi aveva mai domandato consiglio, ben sapendo egli meglio di me che i motori di quella pace erano gli eutichiani naturali nemici della missione cattolica, i quali, non per [p. 910] amore della pace, ma bensì per odio della fede di Devra Libanos e della fede cattolica molto vicina e simpatica di quel partito, essi la cercavano. avversione dei scioani all’impero La seconda ragione per cui io non l’aveva consigliata, era perché quella pace non era desiderata dal paese, anzi si può dire che era odiata universalmente da tutti.

Non è tanto facile esporre tutte le ragioni, per le quali i Scioani non amavano il giogo degli imperatori di Gondar, perché esse sono molte. Siccome però è questo un punto importante della storia di quei paesi io mi studierò di farlo conoscere più in breve che potrò. per la diversità della fede Dopo l’abuna Tekla hajmanot, il quale si può a buon diritto chiamare l’apostolo delle due nature in Gesù Cristo in tutta l’Etiopia, la fede di Devra Libanos sparsa per tutta l’Etiopia cristiana è sempre stata la fede dominante del regno di Scioha, e la dinastia regnante di quel paese [ne] è stata sempre la protettrice di detta fede. All’opposto l’imperatore del centro, secondo le tradizioni del paese, non essendo considerato come vero imperatore se non è stato consacrato da un Vescovo Copto eutichiano, e se non ha con se questo Vescovo; vien considerato per conseguenza come il capo naturale della setta eutichiana d’Abissinia, che noi chiamiamo col nome di partito Karra. Questo partito, benché forze in minor numero, è sempre il più forte, perché ha con se l’imperatore, ed il Vescovo. Questa è già una delle ragioni, per la quale il paese di Scioha non può avere simpatia, anzi suol nodrire un’antigenio o avversione per il Nord.

per la paura del razia Ma questa non è ancora la principale ragione di una tale avversione. Il nord dell’Abissinia cristiana, in specie la parte centrale, sede dell’impero, dopo la caduta di questo, esso è divenuto come il ballo della guerra [p. 911] civile, è divenuto il paese il più povero, ed il più infelice, dove regna il più forte, e dove non vi sono più leggi, ne proprietà particolari. Là la guerra civile quasi continua avendo tutto distrutto col pigliagio, /36/ ha costretto i contadini ad emigrare, e si trova oggi anche senza pane per mantenere i suoi soldati. Di quì quel gran bisogno dell’imperatore di sortire colla sua armata anche per vivere. Il paese di Scioa conosce tutto questo, ed ha già provato qualche anno di schiavitù dell’imperatore sotto Teodoro, come già è stato detto altrove, è cosa troppo naturale di odiarla come si odia la lucuste. perciò non ho consigliato la pace Ora conoscendo io tutto questo, e conoscendo le disposizioni e risoluzioni, nelle quali era il paese di battersi a morte prima di lasciare entrare l’armata imperiale, mai mi sarei risolto di consigliare il Re Menilik a far la pace, perché avrei creduto di tradire, non solo gli interessi spirituali della missione cattolica, ma dello stesso Re Menilik, e di tutto il paese di Scioa.

una mia diffesa Ciò detto, rispondo alla parola del Re Menilik, il quale mi diceva che io l’aveva consigliato alla pace. Quando l’armata dell’imperatore era già accampata nel centro del regno, in seguito alle trattative della regina Bafana, di Masciascià Workie, e che la pace stava per conchiudersi, allora il Re Menilik mi scrisse a Fekerie Ghemb notificandomi che la pace stava per conchiudersi. Fu allora che io ho risposto al Re Menilik congratulandomi [p. 912] con lui della pace conchiusa. la mia lettera. Dopo le congratulazioni, allora io aggiunsi in quella lettera un mio consiglio, il quale era concepito così = Posto che la pace è conchiusa, Ella non deve dimenticare la tacia di spergiuro nell’affare dei Wollo, ed in altri affari; pensi che con Dio non si burla; epperciò deve guardarsi di fare in modo che la pace sia sincera, e che non arrivino poi dei tradimenti = il mio co[n]siglio Questo è l’unico consiglio che conteneva quella mia lettera. Io aveva aggiunto un simile consiglio in seguito a molte cose che si dicevano dal publico, le quali lasciavano temere un tradimento. In ciò non ho che a lodarmi del Re Menilik, perché se egli non avesse scortato l’armata dell’imperatore sino alla sua sortita, certamente che l’imperatore Giovanni non l’avrebbe passata franca. Il Re Menilik, per la fedeltà al giuramento fatto nel trattato della sua pace fatta, ebbe a soffrire molti dispiaceri, sino al vedersi disgustata la maggior parte della cavalleria galla che si allontanò [disgustata], eppure tenne fermo, e non abbandonò l’imperatore sino alla sua sortita dal Regno, a fronte che l’imperatore stesso non abbia potuto salvare alcune Provincie dalle rappresaglie, come già sopra è stato detto.

le due cause della crisi Per finire la storia di quella crisi, dalla quale derivarono conseguenze gravissime sull’avvenire del Re Menilik, del suo regno, e della missione cattolica, debbo qui esporre le vere cause che condussero il Re Menilik alla crisi medesima di una pace inopportuna [p. 913] che fece tutto questo gran cangiamento. Prima di tutto, se il Re Menilik perdette la /37/ sua autonomia lo deve al suo timore ed alla sua mancanza di coraggio, o meglio ancora alla sua innesperienza. la guerra di Gondar
[1876]
Egli non doveva fare la sortita di Gondar e del Gogiam, ma aspettare il nemico nel suo paese, dove era forte e poteva vincerlo. La sua gran forza consistendo nell’armata dei cavalieri galla, che non è abituata a sortire verso il Nord, doveva conoscere che non sortiva se non con una metà delle sue forze. Dovette quindi prendere la circostanza che l’imperatore si trovava nel Tigrè, e che questo venendo sarebbe stato obligato a fuggire; due circostanze che fecero conoscere la sua debolezza. Di qui prese coraggio il nemico per venirlo ad assalire; prese coraggio ed aquistò un motivo giusto per l’offensiva. Questa fu la grande imprudenza da lui commessa.

le tresche politiche di Bafana
[1877]
La seconda imprudenza, forze ancora maggiore, fu quella di permettere molto tempo prima le tresche della regina Bafana coll’imperatore. Questa sua stessa moglie che voleva far regnare i suoi figli in Scioa coll’ajuto di Giovanni, fu quella che lo chiamò colle sue precedenti ambasciate di Masciascià Workie e di altri del partito eutichiano che lo desideravano. Questi furono quelli che lo fecero venire, e venuto, furono quelli che parlamentarono per la pace, e che con furberia [p. 914] con menzogne, e con inganni la maturarono contro la corrente furibonda della sua armata, che voleva battersi ad ogni costo. Ho detto con inganni e menzogne, perché da principio fecero credere al Re Menilik che l’imperatore veniva solo per visitare il Santuario di Devra Libanos, e non per conquistare il paese; ma poi gli fecero giurare la rinunzia al titolo d’imperatore, e gli fecero promettere il tributo. Tutta quella finta era per [per] tenere a bada l’armata del Re Menilik, e così ottenere una tregua, perché l’imperatore temeva molto, anzi da principio, accostandosi alle frontiere, aveva avuto parecchie disfatte parziali a misura che certi corpi d’armata si scostavano [d]ai villagi per marodare [= depredare].

un calcolo sbagliato Ora se il Re Menilik, invece di lasciarsi dominare da un patema d’animo unicamente per la qualità superiore delle armi [d]a fuoco del suo nemico, egli si fosse trovato là sulle frontiere con tutta la sua armata di 30. e più mille cavallieri, certamente che l’imperatore non si sarebbe avvicinato, ed in caso di conflitto, [con] una scarica improvvisa di sì gran numero di cavalli, in pochi minuti si sarebbe impadronito del campo nemico, e dell’imperatore medesimo. Allora avrebbe davvero realizzato il suo gran sogno dell’impero dell’Etiopia. L’esito delle battaglie dipende quasi sempre da un colpo di mano ben misurato. detagli di [ma]manovra militare Chi conosce la manovra militare dell’Abissinia da pochissimo peso alla maggiore perfezione delle armi; la ragione è, perché, da una parte non si può ottenere una scarica simultanea, e dall’altra parte non è un corpo /38/ d’armata abbastanza compatto da potersi [ri]promettere che il colpo della scarica [p. 915] arrivi a ferire un corpo di armata unita a modo europeo. In Abissinia non è un reggimento o linea di soldati che scarica [so]pra un’altra linea a distanza calcolata, ma è un semplice fuciliere [ostile] ad una persona particolare. scarica di cavalleria All’opposto una gran cavalleria ardita che si getta a gran galoppo sopra un’armata disordinata, come è per lo più l’abissina, e come la piena di un fiume che invade, e non da tempo, ne alla fuga, ne alla diffesa, e che perciò suole agire potentemente anche sopra il morale dell’armata medesima assalita. Io, benché povero frate, che posso gloriarmi di [non] aver mai sparato un fucile in vita mia, avendo veduto parecchi casi di conflitto più in piccolo tra i cavalieri ed i fucilieri, ho sempre veduto la vittoria [riservata] ai primi e non ai secondi.


(1a) Questo Masciascià Worchie è figlio di un’antico impiegato di Ras Aly. Fu educato alla corte di Teodoro, dove fece conoscenza coi prigionieri inglesi. Imparò da loro un poco di lingua europea, ed anche un poco a leggere e scrivere. È l’unico in tutta l’Abissinia che si spacia come framassone, e pretenda di far proseliti alla setta. È un’affarista misterioso. [Torna al testo ]

(1b) L’affare delle tenebre era spiegato da Masciascià Workie in due maniere. Ad alcuni [si] diceva che Giovanni temeva il mio occhio; ad altri poi soleva dire, che l’oscurità era per impedire l’onta di Menilik di vedersi seduto in terra ai piedi di Giovanni. [Torna al testo ]

(2a) Il seguente dialogo del sigillo probabilmente ha avuto luogo molto tempo dopo in Ankober. [Torna al testo ]

(1c) Il Leone del sigillo è proprio non solo dell’imperatore, ma di tutti i Re e Degiasmace che pretendono un diritto ereditario. Gli altri impiegati hanno, invece del Leone, la sola croce in mezzo. [Torna al testo ]