/39/

4.
Rientro a Gilogov. A Liccè:
Rivelazioni su Joannes e udienza reale.

continua l’intinerario Ciò detto in risposta alla questione della pace sollevata dallo stesso Re Menilik, dopo la separazione delle due armate, riprendo a descrivere l’itinerario di questo ultimo colla sua armata, la quale fece un giro di tre giorni al sud-ovest per schivare i paesi stati saccheggiati dall’armata imperiale, e per schivare lo stesso Santuario di Devra Libanos stato lasciato in gran disordine e quasi deserto per la fuga dei monaci. L’armata del nostro Re dopo tre giorni di viaggio, che lascio di descrivere, parte per brevità, e parte anche, perché non mi ricordo dei nomi di tutti i paesi, per i quali passò la nostra armata dopo i confini est di Tirrà sopra mentovati, per arrivare la sera del terzo giorno sopra le rive del grosso torrente, che discende alla stessa città del santuario sopradetto, dove è stato fatto il campo, ed abbiamo passata la notte, ed il giorno seguente. brutte notizie e bugie Non la finirei se io quì volessi tutti descrivere i fatti [p. 916] i detti, i complimenti pro e contro che io ho veduto, sentito, e ricevuto in tutto quel viaggio; per averne un’idea adeguata bisognerebbe avere un’idea di quanto si e sparso contro di noi e della missione cattolica dal partito eutichiano trionfante; secondo il linguagio di alcuni io era convinto e confesso come propagatore di false dottrine; secondo altri io per salvarmi mi era dichiarato Karra eutichiano; all’opposto una gran parte aveva publicato che io era stato battuto, incatenato e portato via dall’imperatore. A misura che l’eco di simili notizie ritornava al campo, vedendomi sano e salvo come era andato, erano esclamazioni, pianti, condoglianze, oppure trilli di consolazione. un’applicazione a proposito Oggi mentre scrivo pensando a tutte quelle vicende e confrontandole con quelle che sto vedendo, sentendo, e leggendo in certi giornali d’iniquità, un sentimento irresistibile mi obliga ad esclamare, maledetta la razza degli apostati! siano pure essi chiamati semplicemente scismatici, oppure eretici di qualsiasi setta, siano anche liberali, progressisti, o massoni di qualunque colore, essi sono sempre i peggiori coniati [d]alla medesima fabrica sa- /40/ tanica la cui divisa è la bugia e la calunnia senza vergogna. Il pagano di primo getto, dove regna ancora un poco di buona fede, esso è sempre un poco migliore [di altri pagani civili], sia nell’amore alla verità, sia nell’amore e compassione, e sia nell’educazione, come Pilato ed i Pontefici o Farisei, quello nel pudore e nell’educazione supera questi ultimi ipocriti della Sinagoga.

nostro congedo dal re
[a Hobarre: 12.4.1878]
Nello stesso giorno di fermata sulla riva del torrente che discende nel basso di Devra Libanos il Re Menilik stava occupato nel sbrigare molti affari rimasti in ritardo per causa del viaggio, io col mio compagno P. Gonzaga, [siamo] andati dal Re, per [ottenere il consenso di] ritornare [p. 917] alle nostre case: andate, disse il Re, e parleremo poi più commodamente in Liccèe, dove ci vedremo, e ricevuto l’accompagnamento e le proviste di viaggio siamo partiti dal campo. Abbiamo camminato due giorni fra le popolazioni galla pagani, nelle case dei quali abbiamo pernottato, ricevendo le consuete dimostrazioni di affetto. zelo indiscreto dei galla La sera del secondo giorno, essendo noi accampati per passarvi la notte in un piccolo villagio, vedete, dicevano alcuni galla, ai nostri, tutta questa gran pianura calpestata dai cavalli, qui stava radunata una gran quantità di cavalli; la nostra cavalleria aspettò tre giorni, mentre nei piani di Angololà [12.2-11.3.1878] l’imperatore Giovanni col Re Menilik stavano trattando la pace cogli amara di Gondar (1a); i nostri speravano che la questione della pace non sarebbe stata che una finzione del nostro Re, e tutti stavamo pronti per volare sopra i nemici, ma pur troppo la pace fu una verità; quando ci arrivò la notizia, tutta l’armata indispettita si disperse alle loro case: come erano furiosi quei galla contro il Re e contro la pace fatta!

L’indomani partiti di buon mattino, a misura che ci avvicinavamo verso la provincia di Haman, dove abbondavano i nostri conoscenti ed amici, sono indescrivibili le dimostrazioni di gioja al vederci ricomparire sani e salvi. nostro arrivo a Gilogov
[13.4.1878]
Ma ciò che mi intenerì di più e mi fece piangere di consolazione fù la sera quando ci siamo avvicinati [p. 918] alla nostra casa di Gilogov, di dove eravamo partiti circa 15. giorni prima: là, dopo una crisi di pianto e di desolazione in seguito alle più strane notizie sparse contro di noi, fu una vera crisi [di felicità] dei nostri cuori. Fu allora che ho conosciuto la brutta crisi passata; tutti quei nostri figli e proseliti pareva che non sapessero più parlare, parlavano per loro i cuori ingros- /41/ sati e le lacrime di consolazione; basti il dire che essi già avevano fatto i loro calcoli di non più vederci per sempre. Appena arrivati, ebbimo tempo a ricevere le visite dei nostri vicini e dar sfogo alle congratulazioni e dimostrazioni d’affetto di quella piccola popolazione già mezzo conquistata alla grazia di Cristo, che, sul fare della notte, dalla casa Govana (1b) Ozzoro Ayelescì (Madama Govana) ci spediva la cena accompagnata da alcuni vasi di birra e di idromele: bene arrivati, ci faceva dire la buona signora, domani mattina ci vedremo.

visita di madama Govana Difatti l’indomani quella buona signora, divenuta per quella casa della missione una vera madre e tutrice mentre noi stavamo facendo la preghiera del mattino, essa già arrivava a tempo per sentire il solito catechismo; donna di poche parole ma di un cuore immenso prese posto alla preghiera al suo solito, quando poteva venire, e non volle che [alcuna] persona si alzasse per cedere il luogo alla nostra gran signora madre dei poveri. Finita che fù la preghiera, e congedato il mondo, essa avrebbe avuto un mare di cose da dire, ma nelle circostanze di grandi crisi, come suol accedere, una certa indigestione [causata] al cuore impedisce la parola, e rimette agli occhj l’eloquente espressione. Madama Govana [p. 919] allora fece venire il suo piccolo Gabriele, l’undicesimo frutto del suo ventre, penultimo sforzo della sua fecondità, ottenuto da Dio con voto alla Beatissima vergine, dopo otto anni di sterilità, in compenso del suo primogenito Abdì, [† inizio dic. 1871] morto nel primo anno del mio ingresso a Gilogov (1c) Io sono rimasto alcuni giorni in Gilogov, sia per riposarmi, e sia ancora per fare un poco di visita pastorale in quella missione. Dopo sono partito per Liccèe, dove il Re mi aveva detto di aspettarlo.

ato Waldeghiorghis, e sue rivelazioni Arrivato a Liccee alcuni giorni prima del Re fui ricevuto là da Ato Waldeghiorghis Madebiet della casa reale, grande amico della missione, di cui già molto si è parlato fin dai primi anni del nostro arrivo in Scioa. Questo signore era rimasto custode della città di Liccè mentre si /42/ [4.2.1878-9.3.1878] trattava la pace tra Menilik e l’imperatore. Quest’ultimo si trovava accampato tra Liccèe e Devra Bran, mentre Menilik si trovava accampato verso Angololà più al Sud. Ato Waldeghiorghis era incaricato dal Re di pensare alla casa dell’imperatore, e fare in modo che il mercato di Liccèe fosse sempre fornito di grani per il suo campo. Per questo suo incarico Ato Walde Ghiorghis trovò il mezzo di entrare nella più intima relazione coll’imperatore Giovanni, e conoscere molti secreti di tutte le manovre, e degli intrighi che ebbero luogo in quel tempo per far cadere il Re Menilik nella rete della pace. Io trovandomi molto stretto in amicizia con questo, e che in certe circostanze aveva potuto salvarlo dalla disgrazia del Re per il passato, [p. 920] e farlo rimettere nel suo impiego di Madebiet (1d) Ato Walde Ghiorghis perciò ha potuto svelarmi molte cose sentite dalla bocca medesima dell’imperatore Giovanni.

A dire il vero fù allora che io ho finito per [per] persuadermi che la nostra povera missione era entrata in un’epoca tutta nuova, epoca di prova, la quale non avrebbe tardato a diventare epoca di persecuzione anche in Scioha. Fra le moltissime altre cose sentite da Ato WaldeGhiorghis, le quali mi fecero conoscere come gli eutichiani si erano organizzati in ordine di battaglia contro la missione cattolica, un giorno, mi raccontò l’amico suddetto, l’imperatore Giovanni partitosi dal suo campo (2a), accompagnato da poche persone, venne con me a vedere la città di Liccèe [(3a)]; arrivato quì, io lo condussi a vedere tutti gli interni recinti del Re Menilik, vidde tutto, lodò molte cose, e biasimò molte altre cose, e quando fu stanco di vedere, seduto sopra un letto abbandonato, e fatto allontanare un tantino i suoi fidi che lo accompagnavano: tu mi hai fatto vedere tutta l’abitazione del Re, mi disse, ma mi hai nascosto una cosa la più interessante per me, ed è la casa di Abba Messias, e la sua Chiesa, dove egli diceva la Messa, ordinava i preti, e dove veniva secretemante lo stesso Re Menilik. In verità, risposi io, io non vi ho fatto vedere tutto ciò che voi dite, perché [p. 921] io ignoro che esista una Chiesa di abba Messias, dove si facevano dei preti, e dove si diceva la Messa, e dove il Re vi veniva; esiste quì la sua casa, la quale è una delle più miserabili case che farebbero disonore al Re Mini- /43/ lik; essa non è nell’interno della casa di Menilik, ma fuori nel Medde biet, e tutta vicina alla mia casa ed alle scuderie: non l’ho fatta vedere, perché è un luogo mal proprio, ed io avrei avuto l’aria di condurre Vostra Maestà in casa mia: essa è in un luogo tutto separato, dove non vi entrava il publico.

visita la mia casa Al sentire questo, continuò Ato Walde Ghiorghis, io avrei creduto che l’imperatore Giovanni avrebbe rinunziato di vedere la casa, invece no, andiamo a vederla, disse, e fatto restare indietro gli altri, siamo passati per la via secreta del granajo, siamo entrati nel madebiet, dove visitò la gran casa del pane, e poscia la scuderia, e passato avanti alla mia casa, senza cercare di entrarvi, entrò direttamente nella sua casa, dove volle leggere tutti gli scritti sul muro fatti dai giovani (1e) Letto che ebbe, sortiti per la piccola porta entrammo nel piccolo cortile e domandò conto delle piccola capanna della preghiera. L’ho aperta, questa, dissi, è la capanna dove Abba Messias fa le sue preghiere; si contentò di vederla dalla porta, e poi ridendo abbiamo ripresa la via per la quale eravamo entrati, e sorti dicendo: molte bugie, molte bugie. Così terminata la visita, se ne ritornò al suo campo; strada facendo [disse]: domani voglio visitare Devra Bran, e voi mi guiderete come oggi.

[p. 922] visita Devra-bran (1f1) [27.2.1878]
Questa nota 1[f] è indicata due volte M.P.
L’indomani di buon mattino mi sono recato al campo dell’imperatore, e con lui sono andato alla Chiesa di Devra Bran [(1f2)], dove vi sono i ruderi dell’antica città di Hajlù Malacot Padre del Re Menilik, e [figlio] del gran Re Selaselassie suo avo, è sempre Ato Walde Ghiorghis che parla. L’imperatore Giovanni volle sapere tutti i più minuti detagli dell’antica città di Devra Bran [ott. 1855] stata distrutta da Teodoro, ma era una questione molto difficile; perché tutto quello spazio era ridotto a campi coltivati, seminati di qua e di là di alcuni ruderi di case antiche. Devra Bran è un bellissimo luogo situato sul bordo del precipizio che guarda la bassa provincia detta Tegulet all’ovest; al sud occupava tutta la discesa che conduce al fiume Beressa, ed all’Est un’immenso piano inclinato, con dolci sollevamenti o collinette, parte coltivato, e parte [a] prati o pascoli publici: al nord esisteva la città di Liccee lontana circa tre kilo- /44/ metri. Come Liccèe non aveva Chiesa, i morti di quella città andavano [sepolti] tutti alla Chiesa di Devra Bran, epperciò al nord di detta chiesa esisteva un’immenso cimitero, il quale riceveva ogni anno un’milliajo di cadaveri.

terreno di Devra-bran
[acquistato: 11.12.1876]
Quando l’imperatore ebbe veduto tutto: ma questa è tutta la città di Devra Bran, disse l’imperatore,? dunque tutto questo appartiene ad Abba Messias? No, rispose Walde Ghiorghis, allora questi, comprese la questione, e gli fece vedere una piccola prateria attingua [p. 923] a levante, e lontana dalla Chiesa e dalle case[:] ecco là la proprietà di Abba Messias; quando è venuta in Scioha la Società geografica, Abba Messias ha ceduto al Re Lit Marefià e ricevette in cambio questo pezzo di terreno per pascolare le bestie delle due case di Gilogov, e di Fekeriè ghemb, e gli ho raccontato tutta la questione passata in Lit Marefià, e del terreno di Devra Bran, mi diceva ato Walde[ghior]ghis. Quando l’imperatore ebbe sentito tutta questa leggenda, ma come tutto il paese di Scioha grida contro il Re Menilik per aver dato ad Abba Messias l’antica città di suo Padre, disse l’imperatore? ah, gian-noi, (maestà) disse atto Walde Ghiorghis, nessuno del paese si lagna di questo, perché il paese da molto tempo aveva già dimenticato Devra Bran distrutto da tanto tempo; piuttosto qualcheduno che desidera questo terreno parlerà per invidia, sperando di ottenerlo.

il frammassone Masciascià Ho voluto riferire tutta questa storia raccontatami da Ato Walde Ghiorghis, perché essa spiega molti misteri, fra gli altri quello del mio ricevimento fattomi dall’imperatore nella tenda oscura. Quel certo Framassone Masciascià Workie, che [che] allora era il mio introduttore; più tardi quel medesimo fu il possessore del terreno suddetto dopo che io l’ho rinunziato. carattere di Masciascià Workie Questo stesso Masciascià Workie, anche [p. 924] dopo la pace cornuta tra Menilik e Giovanni, continuò sempre la sua missione di persecutore della missione cattolica, egli aveva due case, una alla corte di Giovanni, e un’altra alla corte del Re Menilik, e faceva di procuratore a tutti [e] due, trattando gli interessi dei medesimi, ma in modo che il profitto non mancasse di entrare nella propria sua borsa. Questo uomo sarebbe stato un grande affarista anche per i nostri paesi governati dalla rivoluzione; egli si che avrebbe saputo trattare con sommo rigore la causa dei re e degli imperatori contro le pretenzioni della Chiesa, e del Papa, e dopo avrebbe trovato la maniera meno grossolana di trattare la causa dei poveri popoli oppressi contro i governi, creando delle montagne per la richezza della Chiesa e dei poveri, ma montagne di carta legale con tutte le formalità; è questo, come ognun sa, un debito publico molto facile [d]a pagarsi, anche senza l’aspetto di /45/ una bancarotta formale. Ma è ormai tempo di lasciare Ato Walde Ghiorghis, perché, arrivo del fre
[24.4.1878]
mentre noi stavamo parlando di tutte le vicende suddette arrivò il nostro Re Menilik.

Infatti, appena arrivato, e preso un poco di riposo, sapendo che io l’aspettava, non tardò di mandarmi a chiamare. Dopo la partenza dell’imperatore Giovanni, non aveva avuto la commodità di parlare con me da solo; le poche volte che ci siamo trovati in strada, essendo rimasti ancora alcuni della corte imperiale presso di lui schivò sempre certi discorsi di stretta confidenza. conferenza con lui Prima ancora di arrivare in Liccèe, [p. 925] essendo tutti partiti, egli sentiva il bisogno di parlare da solo con me, e spiegarsi in molte cose passate. Fatti partire alcuni dei suoi più intimi, che ancora rimanevano, allora si mise a parlare un poco più liberamente, e così incomminciò la conversazione: Ati Joannes, disse, non è un uomo cattivo, ma è una persona per se molto buona; ma egli non è sempre libero; egli ha tutto un sistema di corte che deve seguire, e non può cangiare. Io, volendo aprire [al re] la strada a spiegarsi ancor più liberamente, arriva ad Ati Joannes, ciò che arriva anche a Lei, risposi io francamente, forze che V.[ostra] M.[aestà] è sempre libero di dire, e di fare come vuole? Il Re o imperatore in tutti i paesi del mondo non dice più io se non in tre sole cose, nel mangiare, nel bere, e nel dormire, ma in tutto il rimanente, quando sopratutto si tratta di affari, usa [di] dire noi, perché il Re o imperatore, come tale, non è più una persona sola, ma rappresenta sempre un consiglio, anzi un sistema di regno, che non può sempre variare a sua volontà, senza far violenza ad una corrente che lo spinge, lo porta, e direi quasi lo strascina come uno schiavo incatenato. Tutti credono che il Re sia padrone, ma in verità nessuno è più schiavo di un Re; sono rarissimi i Re che sanno mantenersi superiori alla corrente della propria corte.

Eviva la facia di Teodoro, rispose il Re, egli [non] si lasciava governare da nessuno, ciò che voleva era quello, e nessuno osava contrastare e contradire. una mia risposta al re Altro disordine, risposi io; motivo per cui anche Teodoro si è perduto: [p. 926] Contrastare è proprio dei briganti di corte, i quali fanno partito per obligare il Re ad entrare nelle proprie file, e nei proprii piani, ed è questione di fatti che equivalgono ad una guerra sorda contro lo stesso Re, e questo è ciò che è cattivo. Contradire poi semplicemente è proprio dei consiglieri pacifici, i quali cercano solo al Re [di] far conoscere la verità, lasciando poi a lui tutta la libertà d’azione. Ora l’imperatore Teodoro, per [non] volere sentire nessuno, egli [non] ebbe nessun vero amico che gli facesse conoscere i suoi passi falsi che lo condussero alla perdizione. Tutta la sapienza del principe sta nel distin- /46/ guere frà i suoi cortigiani quello che briga da quello che consiglia; chi briga è una vero nemico domestico, che dolcemente va dominato ed allontanato; quello che consiglia all’opposto è un vero amico degno della sua confidenza, esso è come l’angelo che lo dirigge. Per un principe che abbia giudizio e retto senso, e molto facile distinguere il lupo dal cane, il nibio dalla colomba. Esaù si manifestava dal pelo, e Giacobbe dalla voce.

mie vane speranze Io sperava che il Re al sentire questa mia conferenza avrebbe fatto qualche nuova sortita che mi avesse aperte un poco l’orizzonte avvenire, e che mi desse motivo di parlare con vantaggio, ad ogni caso che occorresse prendere qualche misura preventiva. Molte cose si dicevano dal publico sul proposito di alcuni discorsi che si supponevano fatti tra l’imperatore ed il Re Menilik sull’avvenire della missione; il P. Luigi Gonzaga mio compagno non era tranquillo, ed Ato Walde Ghiorghis medesimo nelle ultime conferenze tenute con me accusava di aver sentito qualche cosa relativamente all’antica città di Devra Bran [p. 927] ed al terreno che il Re ci aveva dato in quel luogo. Io sperava quindi che il Re si spiegasse chiaro, ma tutto fu inutile, proteste del te Menilik egli tenne fermo nel sostenere, che l’imperatore Giovanni, non entrò affatto in simili detagli; che egli anzi fu molto spiacente per l’affare di Devra Libanos, già narrato a suo luogo. regali da farsi ad ati Joannes Che anzi bisognava pensare al regalo che io gli aveva promesso, e che conveniva tenerlo preparato per il momento che egli sarebbe partito alla volta del campo imperiale, perché contava di portarglielo egli medesimo. Il nostro discorso quindi si raggirò sul particolare di detto regalo: cosa pensate di mandare all’imperatore Giovanni? disse il Re.

decisioni in proposito Voi [che siete] Re, e ricco in denari ed in regali curiosi venuti dall’Europa, gli porterete qualche milliajo di talleri, ed alcuni arnesi di gran lusso venutovi ultimamente dall’Italia, ma io povero missionario penso [di] mandargli alcuni oggetti religiosi. Voi conoscete [richiesto da Menelik: 5.4.1868;
esposto: 10.4.1868]
il famoso crocifisso venutomi alcuni anni sono, e stato esposto in Ankober nella Chiesa di Medeani Alem nel Venerdì Santo di quell’anno, e che sta esposto nella Cappella di Fekeriè ghemb. [Per di] Più voi conoscete la croce di ottone dorato arrivatami poco fa alta circa un mettro col suo piede. Voi mi direte fra i due quale sarà meglio spedire. Oltre a ciò voi conoscete il volume di cento imagini grandi e colorite della grandezza di circa un mezzo mettro, rappresentante i fatti principali della Sacra Scrittura, si dell’antico, che [del] nuovo [p. 928] Testamento; questi, dissi io, sarebbero i due regali che io penso [di] mandare ad Ati Joannes, quando V.[ostra] M.[aestà] penserà [di] partire per il campo dell’imperatore /47/ Giovanni a portare [per] la prima volta i convenuti tributi. Il Re Menilik approvò il mio progetto; in quanto al gran crocifisso stato esposto nel Venerdì Santo in Ankober, disse, io non [lo] credo conveniente per timore che non sollevi qualche questione inopportuna (1g), meglio perciò la croce dorata, la quale, è abbastanza bella ed imponente; bellissimo poi [è] il volume delle imagini, certo che farà ottima impressione; non sarebbe bene, continuava egli, aggiungere il famoso calice [10.11.1872] statovi spedito dar Re Vittorio Emmanuele? In quanto a quest’ultimo, risposi io, assolutamente no, perché è già stato consacrato e posto in uso. (2b)

chiusa del colloquio A questa mia negativa il Re Menilik non aggiunse più parola, e fu convenuto che il mio regalo consistesse solo nei due oggetti sumentovari, cioè la croce dorata, ed il volume delle imagini. Voi, disse il re, preparerete una bella lettera, ed io sarò glorioso di esser[ne] il portatore di tutto, convinto di potervi portare nel ritorno una risposta che vi assicuri della pace ed amicizia coll’imperatore Giovanni. Quando si avvicinerà la mia partenza io vi avvertirò, e venuto quì aggiusteremo ogni cosa. Vedendo che il Re Menilik non si spiegava più chiaro sul proposito di alcuni nostri timori futuri, un consiglio di mia madre io ho risoluto di seppelire tutte le dicerie [p. 929] e lasciar dire, tanto più che il Re non aveva cangiato il suo modo di trattare e sembrava dar [a] conoscere di essere perfettamente tranquillo a nostro riguardo, memore di un detto di mia madre, non grattar troppo, figlio mio, ad ogni solletico, perche le unghie sono velenose e potrebbero sollevare delle piaghe, e ciò massime agli occhj. Benché il mio cuore non fosse tranquillo, pure ho risoluto di dissimulare ogni cosa e fingere di esserlo, anche quando alcuni dei miei più intimi mi consigliavano l’opposto appoggiati sempre a fatti e detti, qualche volta di persone di gran rispetto. Congedatomi quindi dal Re io me ne sono ritornato a Fekerie Ghemb, per continuato [continuare] là il mio apostolato, e le operazioni del monastero, che là io stava facendo.


(1a) Gli amara di Gondar, sono chiamati i cristiani dell’armata imperiale. In Scioha i cristiani dai popoli galla sono invece chiamati Sidama. [Torna al testo ]

(1b) Ozzoro letteralmente vuole dire Signora; in alcuni paesi cristiani si dice di tutte le signore, ma in alcuni paesi si dice solo di signore di grandi famiglie. Ayeliscì è [il] suo nome proprio e personale. Madama in abissino significherebbe padrona, e si dice in lingua [locale] Emmaviet. Govana è il nome proprio del suo marito, e non si dice in tutti i casi, ma solo nel caso appellativo, e da quei di casa. [Torna al testo ]

(1c) Il piccolo Gabriele soleva chiamarsi da molti nei contorni[:] il figlio del miracolo, perché ottenuto per grazia della Madonna da [una] donna già passata [d’età]. Dopo di lui ebbe ancora una sorella, la quale era la duodecima nata dalla stessa Signora Ayelescì; cosa straordinaria in quei paesi, dove la donna è molto precoce, ma suole invecchiare più presto. [Torna al testo ]

(1d) Madebiet significa in lingua nostra[:] casa della tavola. L’impiego di Madebiet equivale al nostro titolo di economo della mensa, oggi frà noi usato solamente nelle case vescovili. [Torna al testo ]

(2a) Il Campo dell’imperatore era lontano al più due kilometri dalla città di Liccèe, verso Devra Bran. [Torna al testo ]

(3a) Il nome proprio di Liccèe io ho usato di scriverlo in questo modo per far capire la vera pronunzia; ma alcuni scrivano semplicemente Licè, altri, massime francesi scrivono Litcè, La questione è [di] far conoscere il c forte, e l’e ultimo un poco lungo. [Torna al testo ]

(1e) Da una parte della casa stava scritto l’alfabeto latino in caratteri di stampa. Dall’altra parte della casa vi erano molte sentenze scritturali in lingua etiopica ed amarica; vi erano pure due croci latine, una in piedi e l’altra rovesciata: la prima di nostro Signore, la seconda di S. Pietro. [Torna al testo ]

(1f) [fondata da Zara Iacob: 1434-1468] Devra bran vuol dire[:] Santuario della Luce, [eretto] in seguito ad un sopposto miracolo antico, quando l’imperatore fuggendo il conquistatore Gragne, ritirandosi da Antotto si era stabilito in quel luogo, dove era comparsa una luce miracolosa. In lingua sacra barehan significa luce; per sincope invece di barehan oggi da noi si dice bran. [Torna al testo ]

(1g) Non solo gli abissini, ma i levantini stessi hanno, qualche pregiudizio in proposito del crocifisso sculto, ed anche di altre sculture; alcuni spiegano che [ciò] sia [per] l’antica proibizione mosaïca; altri l’attribuiscono ad un residuo degli iconoclasti; il certo si è che in abissinia ed in oriente si vede il crocifisso dipinto e mai sculto. Diverso poi è il caso degli eutichiani, dei quali si può sospettare più in là. [Torna al testo ]

(2b) Il Calice regalatomi dal Re Vittorio, era un gran calice in argento, molto alto, di lavoro squisito, con tre angeli quasi massicci sul piede. Fu questo l’unico regalo ricevuto dal Re Vittorio. [Torna al testo ]