/170/

17.
Al campo imperiale di Devra-Tabor:
udienza e personalità di Joannes.

nostro arrivo al campo
[5.8.1879]
Così travagliati or dalla pioggia, or dal male, ed ora anche dalla fame, camminando a piccolissime stazioni, e con gran pena siamo finalmente arrivati a Devra Tabor, antica città, nella quale, in tempo dell’antico impero tradizionale etiopico, solevano risiedere i Ras capi del governo, e divenuta residenza degli imperatori dopo Teodoro, città che io aveva già visitato nel anno 1849. in tempo del Ras Aly nel mio viaggio al regno di Scioa, come già è stato narrato altrove. L’annunzio del nostro arrivo era già arrivato alcuni giorni prima [portato] dai [dai] messaggieri del Re Menilik coi regali, i quali [p. 151] per altra via più diretta, e con maggiore sollecitudine, erano arrivati al campo alcuni giorni prima di noi. Appena arrivati, circa il mezzo giorno, si recarono alla corte le nostre guide per recarne notizia all’imperatore. cangiamento di sorte La maggior parte della nostra carrovana indigena, argomentando dagli onori che ci prestò sempre il Re Menilik, e possiam dire tutto il regno di Scioa, si aspettavano di vederci ricevuti dall’imperatore Giovanni cogli onori consueti del loro paese, ma non tardarono ad accorgersi che la scena doveva cangiarsi in aspetto tutto di lutto per loro e per noi. nessuna risposta Le nostre guide, ossia perché non furono subito ricevute, ossia ancora più probabilmente perche non ebbero risposta, oppure se l’ebbero, era una risposta poco soddisfacente, rimasero parecchie ore senza ritornare lasciandoci in balia dei quattro venti, esposti al sole ed alla pioggia, e ciò che più era odioso, in mezzo alla più petulante ed ineducata plebe della corte, la quale con certi sarcasmi rendeva come insopportabile la mia esistenza, fisicamente e moralmente ridotta agli estremi, con fremito d[e]i quanti mi conoscevano.

Io, ammalato e stanco non aveva più forze per rimanere, ne in piedi, e neanche seduto[:] mi era perciò adagiato e corricato, come in atto di dormire sopra il nudo terreno per un tempo piovoso, quando, verso le tre di sera, cioè dopo avere aspettato circa tre ore, arrivarono alcuni /171/ una risposta poco cortese servi della corte, direi come in collera, con uno stile [p. 152] di rimprovero più che altro, cosa fate quì, disse [uno], non vi cercate un’alloggio? Seguitemi, aggiunse di cattivo umore, e fu uopo seguirlo verso i contorni del campo per cercare una casa fra gli abitanti, tutti impiegati esterni della corte, abituati a ricevere per forza i forestieri. Esiste in Abissinia un proverbio popolare che dice: quando il padrone è di cattivo umore, persino il cane della casa cerca di mordere. Era proprio davvero il caso nostro: l’imperatore Giovanni, ben conoscendo la venerazione che molti dell’Abissinia avevano per me, consigliato dall’Ecciecchè, capo di tutti i monaci abissini, il famoso mago che gli aveva predetto l’impero, ed arrivato perciò a quella dignità, nella quale possedeva il pieno prestigio sopra il suo cuore, faceva tutte quelle manovre per disonorarmi ed avvilirmi in facia al publico.

si parte in cerca di una casa Preceduti adunque da quel servo della corte, ed abbandonati da tutte le nostre guide venute dal regno di Scioa, mandate dal Re Menilik, nel fango, in certi luoghi fino a mezza gamba, abbiamo girato tutta la sera per trovare una brutta capanna da passarvi la notte, mandati sempre e rimandati, come da Erode a Pilato, da una casa all’altra. Verso notte solamente ci fecero entrare nella casa di una donna, il marito di cui era morto pochi giorni prima, per ripararci dalla pioggia, dove io fui adagiato quasi solo dentro una piccola capanna sopra un piccolo letto tessuto di canne, sul quale, per mancanza di spazio non poteva allungare le gambe, e che minaciava di rompersi ad ogni mio movimento. Io mi trovava là molto male, all’oscuro, tutto bagnato, [p. 153] senza fuoco, e senza il menomo ristoro. I miei giovani trovarono il modo di farmi una tazza di caffè, e con ciò io era disposto a passarvi colà la notte alla meglio, perche mi trovava come sfinito di forze per la malattia e pei disaggi della giornata. contro ordini imperiali Ma verso un’ora di notte, quando io mi credeva [di] poter mettere il cuore in pace per riposare tranquillo, con una pioggia dirotta eccoti arrivare una comitiva dalla corte con ordini dell’imperatore Giovanni. Sua Maestà felicita il vostro arrivo, vi manda un bove, la cena, e l’ordine imperiale di essere ricevuto in una casa da lui determinata; là siete aspettato, e dovete levarvi subito e venire là a ricevere il regalo e la comitiva. Ma la pioggia, ma il fango, ma l’oscurità, ma io sono ammalato e stanco, e vi prego di lasciarmi in pace, risposi; tutto fù inutile, perché è ordine imperiale, o per amore o per forza, bisogna alzarvi, e bisogna venire. Ho avuto bel dire e strepitare, ma non vi fù rimedio.

costretto a partire Fui preso come per forza, e posto sopra un mulacio, assistito da due manigoldi ho dovuto partire. Partito io, dovettero seguirmi i compagni, /172/ e tutta la nostra carovana. In verità la nuova casa assegnata non sarebbe stata molto lontana, ma la cattiva strada, l’oscurità, ed il contratempo mi fecero provare un vero inferno. Se fosse [stato] il caso di andare a nozze, oppure al patibolo io non ho potuto capire, per parte mia dovetti rassegnarmi anche a morire. cena e messaggio imperiale Arrivati che fummo alla casa, si trovò in verità che Sua Maestà l’imperatore [p. 154] aveva spedito la cena di uso a persone di riguardo, e che gli inviati ci aspettavano colla parola imperiale; Sua Maestà, disse l’incaricato imperiale, ha passato tutta la sera in conferenze coll’Ecciecchè [perciò] non ha potuto pensare alla vostra venuta, egli vi manda un bove e la cena, e vi fa dire che domani sarete ricevuto. Le pilole più amare sono sempre inviluppate di miele, e qualche volta anche vestite di oro per ingannare il gusto. Il messaggio dell’imperatore non mancò certamente di rallegrare i nostri di casa medesimi, ma non bastò per tranquillizzare me ed i miei compagni. Gli uomini della corte medesimi scannarono sul momento il bove regalatoci, e mentre essi lavoravano a prepararci la cena, i due miei compagni viddero l’estremo bisogno di occuparsi di me, non solo stanco, ma travagliato da gagliardissima febbre: essi mi adagiarono in un’angolo della casa, dove il terreno era un poco elevato in forma di letto, e dove, corricato, al ceremoniale della cena non vi pensai più, lasciando ad essi ogni mia rappresentanza. Quella serata, e tutta la notte seguente fu per me agitatissima, e di tutto con ho conscienza di altro, se non che di aver bevuto un mezzo corno d’idromele che mi ricreo un tantino.

si va alla corte
[6.8.1879 mattino]
L’indomani mattina, se non erro, 5. Agosto del nostro calendario latino, trovandomi un poco più calmo, Monsignore Coadjutore sul fare del giorno mi diede una forte dose di solfato di kina, quasi unico rimedio in simili circostanze, sia per me che per alcuni altri della famiglia egualmente ammalati. Ciò fatto io rimasi in letto sotto l’azione del preso rimedio, sempre agitato, e come stordito, quando verso le nove una nuova [p. 155] deputazione, e nuovi ordini della corte arrivarono a turbarci: nuovi disaggi era la chiamata di S.[ua] M.[aestà] l’imperatore Giovanni. A tale chiamata io mi trovava come nell’impossibilità di potere obbedire, ma tutti ad una voce furono d’accordo a consigliarmi di fare uno sforzo; fui preso come per forza e messo a cavallo del mulo, sopra il quale, accompagnato, e come sostenuto, ci siamo rimessi in viaggio verso il campo dell’imperatore. Arrivati con pena all’imperiale recinto fummo di botto introdotti nel gran cortile luogo di convegno generale e di sfogo per tutta la bassa corte imperiale, e dei soldati o guardie dell’interno di essa. Noi speravamo di essere introdotti in qualcheduna delle capanne che non mancavano in quel cortile, ove aspettare il momento /173/ di essere chiamati, al riparo del sole e dell’intemperie; ma tutto fù inutile: la nostra chiamata tardò più di due ore, e fummo lasciati là, come alla berlina di tutta quella turba di mondo curioso e petulante. Io, non potendo più reggermi, ne in piedi, ne seduto, inviluppato nella mia tela mi viddi costretto a corricarmi sopra la nuda terra con ammirazione quasi generali, e compassione di molti.

fummo introdotti La nostra chiamata alla corte non fù per conferire con noi, ma solo per avvilirci in facia al publico, e per farci sentire, o meglio subodorare la sentenza che già ci stava preparata di concerto dell’imperatore col capo dei monaci suddetto. Dopo qualche ora di berlina sostenuta in publica piazza, introdotti finalmente alla presenza di Sua Maestà imperiale, fu curioso [p. 156] il modo con cui fummo ricevuti: incontro coll’imperatore L’imperatore seduto sopra una specie di trono nell’estremità di fronte alla porta circa dieci mettri lontano, e noi in piedi quasi sulla porta medesima, ci domandò cosa volevamo? Siamo venuti per sentire gli ordini di vostra maestà, risposimo noi; molto bene, egli soggiunse, andate all’abitazione che vi sarà assegnata, frattanto noi penseremo a farvi partire. In ciò dire la sua facia era rivolta da una parte, perché, da quanto ci si diceva, i suoi consiglieri gli facevano credere, che io col solo sguardo avrei cangiato il suo cuore; io quindi, per assicurarlo in contrario, nel sentire le sue parole teneva la mia facia rivolta al lato opposto. (1a) Dopo ciò noi fummo consegnati ad una guida che ci fece sortire. Come io non poteva reggermi in piedi, ed era sostenuto da alcuni di casa, non mi ricordo, che siano state dette altre parole; i miei compagni vicini non aggiunsero parola. Sortiti dalla presenza del principe fummo ricondotti alla casa dove avevamo passata la notte. Così finì la famosa conferenza coll’imperatore Giovanni.

partenza dalla città imperiale
[6.8.1879]
Ritornati alla casa di dove eravamo partiti, la nuova guida, appena ci lasciò il tempo necessario, affinché la famiglia potesse gustare un poco di cibo, che sollecitò la nostra partenza per il villaggio stato destinato dall’imperatore per la nostra dimora o prigionia che possiamo chiamarla. Lasciata quella casa circa o poco dopo il mezzo giorno, lasciando il versante della collina, sopra la quale si trovava il campo imperiale, o città che si voglia chiamare, e arrivo al villaggio presa la via nord-ovest in meno di mezza ora siamo arrivati al villagio in discorso, [p. 157] e la nostra guida, o /174/ nuovo padrone, ci fece provisoriamente entrare nella casa di un prete vicina ad una Chiesa chiamata, se non erro, Devra Ennatie Mariam, cioè Santuario della mia madre Maria, mentre egli, entrato nel villagio poco discosto, e radunati i capi del medesimo, significo loro gli ordini imperiali, in virtù dei quali quel villagio era incaricato di darci una casa, e veniva dichiarato responsabile delle nostre persone non solo, ma di tutta la nostra numerosa famiglia e bestiami. In Abissinia simili questioni di forestieri e di ospitalità governativa sono per lo più questioni che non finiscono più. Trattandosi di noi poi la questione diveniva più complicata, perché non mancavano amici e nemici, epperciò [potevamo averli] pro e contro. Non è da stupirsi quindi, se quella sera la nostra questione andò molto tardi prima di conchiudersi.

la casa del prete eretico Intanto io nella casa del prete, adagiato sopra strue di legni provisoriamente e senza soccorsi, travagliato da una battaglia di febbri e di vicende dolorose, aspettando da un momento all’altro una decisione non ne poteva più. Anche la moglie del prete eretico, probabilmente iniziata di qualche mistero odioso a nostro riguardo, si aggiungeva a rendere più penosa ed insoffribile la mia situazione coi suoi sarcasmi. Il mio stato inquieto, e quello di alcuni di casa, anche ammalati senza soccorso, concorreva ad amareg[g]iare o riempire di malinconia tutti i nostri. La sera finalmente, all’inclinare del sole, arrivò la nostra guida o padrone della nostra sorte ad intimarci la partenza: esterno della casa andiamo, disse, la casa è fissata, e tutte le questioni sono terminate. Ma dove? Forze ad una casa di riposo? Pochi minuti bastarono per farci arrivare [p. 158] alla casa della nostra destinazione, ma che casa? Dal narrato fin quì risultava abbastanza chiaro che non era più il caso di un ricevimento onorifico dell’imperatore Giovanni, ma di una prigione provisoria per lasciar passare la stagione delle pioggie, per arrivare ad un’esilio. Almeno fosse stata una casa abbastanza grande e commoda per una gran famiglia di persone ammalate e stanche, ma, Dio bono! appena la viddimo e la visitarono Monsignore Coadjutore ed il P. Gonzaga, il loro cuore rabbrividì, pensando massime al mio stato di salute molto bisognoso di assistenza. Pure bisognò prenderla come era: per entrarvi bisognò passare dentro un pantano largo alcuni mettri, col fango a mezza gamba, e fui portato dai nostri giovani. (1b)

/175/ interno della medesima Appena entrato in casa, o meglio nella capanna statami destinata come mia forze ultima dimora in questo mondo, poiché il mio stato di salute, e quasi estremo deperimento vitale tutto mi lasciava temere, la prima cosa fu dare uno sguardo nell’interno della medesima: essa era tale da giudicarla insufficiente per riparare dalla pioggia e dal vento, perché piena di buchi tutto all’intorno, e nel tetto medesimo. La parte maggiore della capanna era divisa da uno steccato, perché destinata per gli animali; un’altro piccolo angolo era riservato ai due vecchj padroni di casa; a noi quindi rimaneva appena la metà della capanna. I miei due Compagni pensarono prima di tutto a me estremamente bisognoso di riposo sopra qualche miserabile letto. mio letto e quello dei compagni Nel nostro compartimento esisteva un letto all’altezza di circa un mettro e mezzo, [p. 159] fatto alla meglio come una grate di legno, poco sicura. Subito, dissero ai nostri giovani, subito cercate alcuni legni di rinforzo, affinché sia sicuro, subito erba in quantità: detto, fatto, e quando tutto fu preparato, non potendo io salirvi sopra, i miei stessi compagni mi misero sopra, e fu quello il mio letto di dolore, sopra il quale vi stetti due mesi, ed ho ricevuto anche gli ultimi sacramenti, quanto fù permesso ad un povero prigioniero. Per quella sera i poveri miei due compagni dovettero per dormire stendersi per terra sotto il mio letto medesimo in mezzo a tutti i nostri giovani, quasi ammontichiati sopra di loro, per mancanza di spazio. L’indomani per essi si ottenne il permesso di dormire sotto una nostra miserabile tenda in vicinanza della capanna stessa. Per la cena di quella sera poi nel villagio si pensò ad una miserabile cena solita, [a] darsi agli stranieri alloggiati.

[il] mio stato di salute peggiora Arrivati al luogo della nostra dimora sul principio del mese di Agosto latino, non mi è tanto facile descrivere con esattezza tutto ciò che avvenne in quel luogo sino alla nostra partenza, perché il mio stato di salute si aggravò sempre più, e per tutto il mese di Agosto sono pochissime le cose delle quali io ho potuto essere testimonio oculare, oppure di udito, essendo io arrivato ad un punto tale da non poter più farmi un criterio giusto del morbo che mi andava ogni giorno crescendo. I miei compagni poi, vedendo il mio stato molto aggravato, e conoscendo che il mio cuore soffriva al vedere le sofferenze loro, e degli altri, pensarono ad isolarmi un tantino dai movimenti della casa, circondando il mio letto da una tendina sufficiente [p. 160] per levarmi dagli occhj lo spettacolo delle loro sofferenze, e di quelle di tutta la casa che molto contribuiva al mio mall’essere. Io quindi, divenuto per più di un mese, un’essere puramente passivo, incapace di conoscere gli stessi pericoli della mia vita medesima, divenuti un gran pensiero per la casa, ed in /176/ specie per i due miei compagni, di tutto il quadro di storia avvenuta nel tempo della nostra prigione, non farò che descrivere pochissime cose conosciute poi in seguito, lasciando nell’oblivione moltissimi fatti interessanti avvenuti nella stessa casa nostra, nel paese, e nella corte medesima dell’imperatore, divenuto nostro nemico e persecutore.

disposizioni fuori di casa Dirò prima di ogni altra cosa, che la casa della nostra prigione, essendo assolutamente troppo stretta ed insufficiente per contenere tutta la nostra famiglia di circa 20. e più persone, senza contare i nostri custodi, i padroni di casa, ed alcuni bestiami indispensabili nostri e della casa di quei poveri contadini, si fecero riclami a chi di ragione, dopo i quali si ottennero alcune modificazioni e lavori. 1. Una parte della nostra famiglia fu distribuita ad alcuni [ad alcuni] vicini unitamente alla maggior parte dei nostri bestiami da viaggio. 2. I miei due compagni poterono alloggiarsi sotto una nostra tenda tutta vicina alla casa della nostra prigione. l’interno di casa 3. Dentro la casa stessa, sopra il luogo medesimo occupato dalle bestie, e tutto vicino al letto, venne costruito una specie di letto con alcuni legni sostenuti da alcuni grossi pali, [p. 161] sopra il quale vennero collocati due giovani ammalati delle febbri, anche bisognosi di assistenza al pari di me. 4. A basso a pian terreno l’andito della casa venne diviso in due, una parte rimase al nostro guardiano, e ad alcuni schiavi della casa, ed un’altra parte fu destinata per alcuni dei nostri giovani infermieri del nostro ospidaletto, per dormirvi la notte. Di giorno poi serviva di refettorio e di cucina, per [dar da] mangiare a tutta la gran famiglia nostra che soleva radunarsi mattina e sera, e per cuocere un poco di cibo. Il piccolo spazio che rimaneva sotto il mio letto, esso divenne la dispensa della nostra casa di prigione, o ospedale che si voglia chiamare, dove esistevano alcuni vasi di aqua, alcuni piatti di terra cotta, alcuni otri con un poco di grano venuto dal mercato, ed alcune marmitte nostre, parte in ferro, e parte in terra cotta. Sul mio letto medesimo, e sotto il mio capessale era la guardaroba delle mie vesti di soprapiù per cangiarmi.

liberalità di Giovanni Dopo questo detaglio riguardante il luogo della nostra prigionia il mio lettore sarà curioso di sapere come siamo stati trattati dall’imperatore Giovanni divenuto nostro padrone e persecutore nel tempo stesso. [Da] Quel Signore, di natura sua uomo severo e superbo, non solo coi suoi nemici, ma cogli stessi suoi amici, e di genio non solo diverso, anzi contrario al genio del Re Menilik, noi ci aspettavamo di essere trattati con pochissimo riguardo, e già i nostri di casa erano rassegnati a soffrire con pazienza ogni specie di cattivo trattamento. rigori di Giovanni Egli invece [p. 162] per quanto sia stato rigoroso nell’isolarci dalla popolazione, altrettanto /177/ poi fu liberale con noi nel somministrarci il [il] necessario sostentamento. Egli ben conoscendo quanto io era conosciuto ed amato nel paese, fù inesorabile nel proibirmi ogni comunicazione col popolo; appena dopo il nostro arrivo, i primi che vollero avvicinarsi, furono legati per ordine dello stesso nostro custode, e condotti ai poliziotti della corte, furono battuti publicamente. In seguito poi i miei di casa furono costretti a comprare a caro prezzo un poco più di tolleranza con replicati regali al custode medesimo: tante e tali furono le istruzioni date dall’imperatore Giovanni sopra questo punto di disciplina.

suo dorgò All’opposto, ben diversa fù con noi la generosità dello stesso imperatore in materia di vitto somministrato da lui alla casa nostra. A fronte della favolosa famina che dominava il suo campo, da trovarsi con pena una quantità di grano sufficiente per una sola giornata alla nostra famiglia al publico mercato, pure, incomminciando dal primo giorno del nostro arrivo, una volta al giorno [non] mancò mai di venire una quantità di pane per tutti sufficiente; unitamente ad una quantità di animali da macello, in materia di pecore, capre, o bovi, anche più che sufficiente; e ciò oltre ad un poco di birra ed idromele, cose considerate nel paese come signorili. In questo noi siamo obligati a confessare che [al]l’imperatore non mancò mai il rispetto dovuto alle nostre persone con un’abbondanza in tutto, sia nella quantità, che nella qualità del cibo, avuto [p. 163] riguardo agli usi, ed alla miseria dominante nel paese. la fame nell’armata Se noi siamo stati obligati molte volte a ricorrere al mercato per comprare alcuni generi a caro prezzo, per supplire a certi bisogni della nostra famiglia, non è già che non venisse il sufficiente dalla corte per noi, ma piuttosto per altre ragioni: per redimerci da certe vessazioni o violenze, noi eravamo obligati a largheggiare con tutte le persone che ci avvicinavano per ragione di officio oppure per qualche servizio materiale alla casa. In un paese dove regna la fame il pane è sempre poco, e la bilancia stessa arruginita suol divorare le proviste che si fanno, e la sinistra stessa del uomo suol rubare alla sua destra. Ciò basti per amore della verità, e per la giustificazione dell’imperatore Giovanni, il quale certamente non fece questo per piacere a Dio, supponendolo in buona fede nella persecuzione che ci faceva, epperciò vero scismatico incapace della vera carità, forze senza tutta la colpa, nel male che faceva, e meritevole della nostra compassione.

il bene senza Dio Il mio lettore stenterà [a] comprendere questa schietta mia confessione in favore dell’imperatore Giovanni, e forze sarà tentato di accusarmi di esaggerazione, se non di contraddizione. In verità per una persona abituata a correr dietro ai dettati della sola ragione, senza la guida della /178/ vera fede rivelata della Chiesa cattolica, diventa un mistero il bene che si fa da certe persone, supposte massime guidate da una certa buona fede prattica; è la schietta questione della differenza che passa tra la carità e la filantropia. la massoneria ed i protestanti I filosofi, e possiam dire [p. 164] anche i protestanti, fabbricatori di una nuova etica cristiana, cercano d’impennare le ali [al]la bella filantropia per farla salire sino al cielo, ma noi cattolici rispondiamo collo stile laconico evangelico dicendo loro che nemo ascendit in cœlum nisi qui descendit de cœlo, che può valere anche un nihil ascendit, nisi quod descendit... Ma io voglio lasciare da una parte questa gran questione, d’altronde molto chiara per i nostri cattolici, che conoscono la vita spirituale della grazia del Redentore, per non perdermi nella speculativa delle scuole. La storia genuina del nostro imperatore Giovanni, al quale debbo fare ritorno, basterà allo scopo nostro essenzialmente pratico, quando sarà da noi ben esposto e spiegato.

Giovanni ed il cattolicismo Il nostro principe abissino, benché eretico e mezzo barbaro, egli non era ne filosofo, ne tanto meno protestante, dei quali era anzi acerrimo nemico, più ancora di quanto potesse essere nemico di noi cattolici. Egli, tutto all’opposto, educato dai cristiani levantini, e privo affatto della vera istruzione cristiana, la quale sola può far conoscere la nostra civilizzazione europea, come figlia naturale della Chiesa, e puro frutto del Vangelo e della grazia di Cristo redentore, se odiava noi cattolici, ci odiava come figli della nostra civilizzazione, entrata in gran sospetto di ateismo, dopo i scandali del razionalismo protestante, e dell’ateismo massonico, passato fra noi come in sistema politico, e base della novella nostra civilizzazione, avuta in orrore dagli abissini, dai levantini loro maestri, e dagli stessi seguaci di Maometto, come un vero mostro senza testa, perché senza Dio.

[p. 165] civilizzazione abissina La poca civilizzazione abissina, figlia della civilizzazione orientale ed araba, è una civilizzazione bisantina con delle tracie asiatiche; essa ha preso alcune forme cristiane dal cristianesimo, da essa professato senza comprenderlo; la sua base è tutta teocratica; la sua scienza è tutta biblica, e gli unici suoi luoghi topici, sui quali si fonda ogni criterio sono i libri santi, uniti a poche tradizioni di alcuni Santi Padri della Chiesa orientale. Tale è l’Abissinia, e tale vuole essere, ripudiando tutto il resto come profano. tre idee in essa incarnate L’idea religiosa o religione abissina che forma la base della sua morale, è un’incarnazione dell’idea di nazione, di regno, e di religione esterna tale, che sarebbe difficile distinguere quale dei tre sia più dominante come base delle operazioni morali dell’uomo abissino, e possiamo dire anche in proporzione del levantino; e difficile poter dire se egli nel suo operare abbia l’occhio più alla sua nazione, oppure /179/ al regno, oppure all’ubbidienza dovuta a Dio nell’osservanza delle sue leggi. Di quì nasce quella gran facilità di confondere in pratica queste tre idee, e vederle primeggiare or l’una or l’altra nell’esecuzione prattica di ogni sua operazione. Nell’abissino ciò non è più un canone di scienza o di rivelazione divina che domini sopra il suo cuore, ma piuttosto una tendenza o inclinazione, nata dalla corruzione o confusioni delle idee lasciate come un deposito dal panteismo asiatico, che ancora vi regna.

Circa tre secoli sono, [1541] i Portoghesi chiamati in ajuto dall’impero abissino contro la dominazione dell’arabo Gragne, [1543] liberata la nazione abissina dalla dominazione araba, mantennero per qualche tempo un forte prestigio sopra quel paese da potervi introdurre anche il culto cattolico, il [1557] quale ha potuto [p. 166] anche fare del gran bene, ma, passati pochi lustri, il conflitto tra la fede, l’idea nazionale, e la politica tradizionale, rovinò ogni cosa. [1633] La fede fu vinta, e l’Abissinia ritornò al vomito sepellendo il cattolicismo sotto un mucchio di pregiudizii satanicamente inventati. fede abissina o greca Quante di simili crisi non si viddero in oriente, dove la pace e l’unione colla Chiesa Madre, fatta più dall’impero, che dal clero palatino, [non] fu mai costante, e certe conversioni al cattolicismo in globo ritornarono quasi sempre al vomito! La cagione di questa leggerezza nella fede è più profonda di quanto si crede da molti; si suol dire[:] fides græca nulla fides, e ciò in conversazione, in odio di quella razza dominatrice del mondo prima della romana; ma ciò si può dire anche in materia teologica, massime sul conto della nostra Abissinia. La gran ragione è, perché la vera idea della fede cristiana fra tutte le razze orientali, all’infuori di qualche eccezione, essa non è entrata [nelle intelligenze], e non è stata compresa nel suo vero tipo cristiano.

morale del re Giovanni Ma è ormai tempo di fare ritorno al nostro imperatore Giovanni. Ho detto sopra, che se egli odiava noi cattolici non ci odiava come possessori della vera fede, ma solo come professori della nostra civiltà e del nostro progresso divenuto profano ed affatto estraneo al progresso abissino, cioè alla sua nazione, ed alla sua politica, incarnata, e faciente una cosa sola colla professione esterna della fede eutichiana. Egli, tanto nel perseguitarci, quanto nell’onorarci, era affatto estraneo a Dio, ma non sortiva dal cerchio della sua politica e del suo interesse; egli intendeva con ciò unicamente di mantenere intatto l’onore della sua nazionalità, e l’interesse del suo regno in facia [p. 167] alla nazionalità europea, colla quale aveva qualche interesse puramente materiale. Il bene ed il male, di cui è questione qui, era per lui un bene o male semplicemente relativo, che io ho potuto lodare, come ho fatto sopra, senza entrare nella /180/ questione del sopranaturale del merito o demerito relativamente a Dio. morale atea massonica Ma lasciando un momento l’imperatore Giovanni, gli eretici dell’Abissinia, dell’Oriente, e gli stessi seguaci dell’arabo Profeta, non abbiamo noi oggi nella stessa nostra Europa grandi pagani, anzi in Roma medesima persone, le quali sotto pretesto dell’ultimo progresso proprio dell’epoca, arrivano al barbaro eccesso delle bombe e della dinamite contro i suoi stessi fratelli e padri, e ciò nella persuasione d’incontrare nessuna macchia di debito, oppure diritto di merito in facia a Dio che non vogliono conoscere. Ora se in Roma stessa stata sempre maestra dei popoli, siamo noi obligati a rispettare certi insegnamenti che assolvono ogni delitto, non solo contro la proprietà e contro la vita, non siamo noi qui in perfetto bujo peggiore [di quello] dell’Africa, e più barbaro perché si tratta di un paganesimo positivo maledetto da Dio e fulminato dalle censure della Chiesa? Essendo così, i nostri senza Dio, qual diritto di civilizzare i barbari potranno pretendere, maggiore di quello che i barbari possono pretendere sopra di essi?

sue conseguenze. Così terminata la questione di diritto, di merito, di debito, e di morale tra me e l’imperatore Giovanni capo della nazione abissina, io facio ritorno alla semplice storia dei fatti passati in quei paesi del mio apostolato, poiché diritto degli uomini senza Dio levata [p. 168] [tolta] l’idea di Dio Creatore, legislatore, e giudice degli uomini, cancellata dalla nostra società l’idea della Chiesa e del Papa, noi non abbiamo più nessun diritto di chiamar barbaro Giovanni, la sua Abissinia, e tutta l’Africa; in tal caso la stessa Roma, Pariggi, Londra, Berlino, e simili grandi Capitali, non hanno più altro titolo che giustifichi la loro aristocrazia e padronanza sopra i paesi barbari fuori della forza brutale della rivoluzione per armarsi alla conquista dei medesimi, e facendolo, non faranno altro che servire ai giudizii di Dio che gli conduce là a seminare l’ateismo, e l’orgoglio, quindi [per] comunicare loro la forza per venire un giorno a punirci della nostra apostasia. Il fatto dell’America, già schiava ed oggi nostra pari è già un gran fatto che prova quanto dico. La Cina che oggi già arriva a misurarsi colla Francia; le razze slave già cresciute anche esse in gran potenza, saranno tutte ministre di Dio al uopo, e poi verrà in seguito l’Africa a distruggere gli ultimi avanzi della nostra grandezza.

un’avvenire oscuro Io, ne sono, ne voglio essere profeta. Che Iddio tenga lontani da noi simili castighi! Non è gran tempo che un vecchio campione delle armate francesi mi diceva: parole di un vecchio soldato i nostri francesi della rivoluzione non sono più i francesi di Napoleone primo, ne tanto meno del Generale Bugeu conquistatori dell’Algeria per improvvisare campagne a lontane distanze per sorprendere gli arabi. Lo stesso possiamo dire della nostra giovane /181/ Italia paragonata all’Italia vecchia dei veneziani, dei genovesi, e dei pisani. Oggi la vita molle ha bisogno di strade ferrate per trasportare le loro persone, e per tirare loro dietro montagne di provviste per le loro bruttali passioni, e per soddisfare ai moltiplicati loro [p. 169] [loro] bisogni. Anticamente, avevano cuori pieni di fuoco e di energia, perché pieni di fede, e di amor patrio; avevano intelligenze più pure e principii più sodi, per i loro studj e calcoli per i piani di guerra di terra e di mare. Oggi fanno lavorare macchine, vapori, e bombe, ma queste richezze non sono personali a noi, e possono essere anche un capitale nemico contro di noi. Anticamente la moralità del soldato e del capitano organizzava le loro file con vincoli di ferro da rendergli invincibili, oggi scompare la moralità e fa delle armate aggregati di uomini a carico del Dio Stato, appena sufficienti per l’ordine interno del paese diviso in fazioni, bisognoso di cento, quando bastavano cinque. Così è, e così essendo la questione di merito e di diritto io in queste mie memorie parlerò solo di fatti al mio lettore e sarò solo storico e non giudice.

il re Giovanni e la sua conscienza L’imperatore Giovanni in facia alla sua conscienza ed al suo Dio fù con me giusto nei suoi rigori, e lo sarà anche con tutti i nostri viaggiatori nelle stravaganti loro pretenzioni d’introdurre nei suoi paesi una nuova civilizzazione al di là dei suoi calcoli, dei suoi usi, e dei suoi pretesi diritti. Tolto Dio naturale creatore e padrone, egli è padrone in casa sua, come crediamo di essere noi in casa nostra, ed ha pieno diritto di giudicarci come nemici, oppure rispettarci come amici e benefattori a suo tempo, [non] avendo da rendere conto a nessuno in facia al codice ateo del nostro progresso, il quale [non] conosce nessuna morale e nessun diritto al di là della forza brutale.


(1a) Per comprendere il fatto qui laconicamente narrato il mio lettore deve ricordarsi di quanto già è stato detto nell’incontro [6.4.1878] coll’imperatore medesimo dopo la pace col Re Menilik, avvenuto circa un’anno prima nel Regno di Scioa sulle frontiere Galla nord-ovest, prima che Giovanni lasciasse quel regno. [Torna al testo ]

(1b) La casa dei contadini nell’inverno per le gran pioggie, e per il calpestio degli animali, è sempre per lo più circondata da un pantano orribile a vedersi, e molto peggio a praticarsi, perché l’indigeno non suol fare lavori di calcolo per lo scolo dell’aqua. [Torna al testo ]