/163/

Fregio

Vicit leo de tribu Iuda
Stemma degli antichi imperatori abissini

Capo XVI.
Di nuovo nel Tigrè.

Memorie Vol. 1° Cap. 16. e Cap. 17.
Primi mesi 1850
Tigrè, Massauah

1. Passaggio del Takkazè; il mercante Agirisch. — 2. Istruzioni ai servi per eludere quel pericolo. — 3. Tagliata la barba, annerito il volto, e poveramente vestito, passo innanzi ai doganieri. — 4. Siamo richiamati; insidiose domande di Agirisch. — 5. Alloggio in casa di pastori di Abba Salâma. — 6. Incontro di un leopardo. — 7. Passaggio per una pianura in fiamme. — 8. Arrivo a Gondèt; scorrerie di Degiace Escetù. — 9. Motivi per cui l’Abissinia non può prosperare. — 10. Cause simili minacciano l’Europa. — 11. Arrivo e partenza da Kajakeur. — 12. Sorpresi dalla piena ci rifugiamo sul sicomoro. — 13. Accoglienza presso alcuni pastori. — 14. Arrivo ad Umkùllu; nuovi Missionarj. — 15. Incontro e sintomi di malattia di un mio proselito. — 16. Di nuovo a Massauah; premure verso di Stefano. — 17. Stefano fugge di casa, e viene alla cappella. — 18. Dopo lungo contrasto si confessa e si quieta. — 19. Sua morte ed onori funebri. — 20. Arrivo di Monsignor De Jacobis. — 21. Lo schiavo goggiamese. — 22. Raccolta di giovani con pretesto di pellegrinaggio. — 23. Traditi, son tutti venduti a Gedda. — 24. Nefandezze dei pellegrini mussulmani alla Mecca. — 25. Come finiscono i giovani della Kàaba. — 26. Schietta confessione del giovane Goggiamese. — 27. Causa della diminuzione delle popolazioni mussulmane.

Capolettera T

Tutto quel giorno si camminò di gran lena, e così pure ne’ giorni seguenti, di modo che presto si giunse al Takkazè. Accadendo in quel mese il maggiore abbassamento delle sue acque, lo passammo a piedi senza nessun incomodo, e ci trovammo di nuovo nel Tigrè. Mentre tragittavamo il fiume, si vedeva scendere dall’altra parte una piccola carovana di mercanti, che venivano da Adua. Incontratala, domandai loro notizie di ciò che facevasi più là; e mi risposero che alla stazione dei doganieri si trovava Agirisch, negoziante egiziano, detto volgarmente il fratello dell’Abûna, perchè faceva in gran parte il commercio per Abba Salâma. Questa /164/ notizia mi turbò non poco. Ma poichè era già quasi notte, e quei mercanti pensavano di passarla in riva al fiume, risolvetti di pernottarvi anch’io, per aver tempo almeno di riflettere a qual partito convenisse meglio appigliarmi.

Torna su ↑

2. Agirisch era un Copto pieno di astuzia e di furberia, che, lasciato l’Egitto e ritiratosi in Abissinia, vi aveva fatto fortuna. Venduto in anima e corpo ad Abba Salâma, vi era a temere che, se per poco avesse concepito qualche sospetto su di me, non avrebbe mancato di farmi legare, e condurre al suo signore. Fatta pertanto un po’ di cena, trassi in disparte i mici servi, e senza mostrare che avessi timore, per non metterli in sospetto sulla mia persona, dissi loro: — Come ce la caveremo dimani con i doganieri? Questa razza di gente, per mangiare, è pronta a commettere le azioni più vili. Quando poi vede un Frangi (1), credendo che porti seco carichi di talleri, non lo lasciano andar via così facilmente; temo quindi che ci daranno molestie. Voi dunque dovete dire che io sono un poveraccio, che parto disgustato dall’Abissinia per ritornare al mio paese: insomma pensate voi a rispondere, ed a cavarcela bene da quest’impiccio; poichè io non dirò una parola, anzi fingerò di non intendere neppure la lingua. —

Torna su ↑

3. Prima di separarmi dal P. Giusto, mi aveva accorciata la barba, e con soluzioni di nitrato di argento mi aveva fatte certe macchie in faccia, che non così facilmente sarei stato riconosciuto da chi mi avesse altra volta veduto. Le vesti poi che indossava facevano compassione; portava una camicia ed un pajo di calzoni sì sudici e stracciati, che neppure un ebreo li avrebbe comprati; e sulle spalle una tela più grossolana di quelle dei miei servi. Così acconciato, e confidando negli accordi presi con i servi, ci mettemmo in cammino, per far la salita del Takkazè. Messo quindi piede sull’altipiano, scorgemmo innanzi a noi le capanne dei doganieri; e mentre io seguitava a camminare con un servo, l’altro con l’asino si avvicinò alle capanne. Un doganiere usci ad esaminare gli otri del carico, e visto che non ci era altro che un poco di orzo da una parte, ed un po’ di farina dall’altra, e qualche arnese da cucina e da caffè, ricevette il suo sale (2), e rimandò il servo. Io, che aveva passato la /165/ notte fantasticando timori e brutti accidenti, vedendo ritornare libero il servo, trassi un gran respiro, e pieno il cuore di contentezza, affrettai il passo, quantunque, per una piaghetta al piede, camminassi zoppicando.

... un pajo di calzoni sì sudici e stracciati, che neppure un ebreo li avrebbe comprati... L’immagine non compare nelle Memorie

Torna su ↑

4. Eravamo già a circa mezzo chilometro di distanza, quando ci sentiamo richiamare da quei della dogana, ed intimare di fermarci. A dire il vero mi si rimescolò il sangue; tuttavia fattomi coraggio, dissi al servo che conduceva l’asino, di aspettare ed attenderli egli solo, mentre io con l’altro avrei continuato a camminare. Ed ecco giunge per primo Agirisch, e comincia a fargli un mondo d’interrogazioni: il servo però se la cavò benissimo. Io era un po’ distante, ma sentiva tutto; e tra le altre cose gli domandò se sapesse dove trovavasi Abba Messias? Ed il servo gli rispose di aver sentito dire che lo aspettavano a Gondar, e che il Governatore aveva ricevuto ordine da Râs Aly di mandarlo per la via di Matàmma. — E quel forestiero chi è? soggiunse additando me. —

— Puh! rispose il servo in atto di disprezzo, è un mezzo matto che non sa nemmeno parlare. — Agirisch allora crollò il capo, e se ne ritornò pei fatti suoi; ed io, contento di aver cansato quel brutto pericolo, continuai il mio viaggio.

Torna su ↑

5. Liberato da quell’inaspettato e pericoloso incontro, affrettammo ancor più il passo, e dopo mezz’ora di cammino si arrivò alla divisione delle due strade, che portano una ad Adua, e l’altra ad Amassen. Presa questa a sinistra, poco dopo ci fermammo per mangiare qualche cosa, e dare all’asinello un po’ d’orzo, perchè la sera avanti, vicino al Takkazé, non si era trovato a dargli da mangiare. Ripigliato il cammino alle due pomeridiane, verso sera si giunse ad un piccolo villaggio di pastori, dove ci fu offerto latte e pane. Mentre mangiavamo, io ascoltava attentamente i discorsi, che alcuni di essi facevano con i miei servi, e mi accorsi che eravamo proprio in casa de’ pastori di Abba Salâma. Ogni giorno vi andava da Adua un servo del Vescovo, per vedere quanto latte si mungesse sera e mattina, e poi se ne ritornava. Uno dei miei compagni era nativo di Adua, ed inteso che il servo di Salâma ritornava il giorno seguente alla città, gli disse che volentieri lo avrebbe accompagnato per rivedere i parenti, se io glielo avessi permesso. Queste parole mi misero in sospetto di qualche tranello, e risolvetti di partire più presto che potessi. Perciò rivoltomi segretamente ad un vecchio della casa, gli dissi /166/ che, avendo gran premura di partire, voleva mettermi in viaggio la notte stessa; e che se egli avesse voluto accompagnarmi fino a giorno, gli avrei dato un sale. Quel buon vecchio acconsentì. Allora ordinai ai servi di porsi subito a dormire, a fine di alzarsi per tempissimo, non restandoci che quattro giorni per giungere a Massauah. Per tener poi quel vecchio pronto ai miei cenni, lo feci dormire vicino a me: ed io mi adagiai alla meglio, se non altro per riposarmi, giacché mi era impossibile prender sonno. Quando sentii il gallo sbattere le ali, svegliai subito la guida, indi i servi, che a mala pena potevano aprire gli occhi; e senza perder tempo, e senza salutar nessuno, ci rimettemmo in cammino.

Torna su ↑

6. Partiti al chiaror della luna, dopo un tratto di strada piana, entrammo in un bosco di bambù, e camminavamo sulla cresta di una collinetta. Il sentiero era ombreggiato, e qua e là talmente coperto da queste canne, che ci si toglieva la vista della luna. Era quasi l’aurora, ed io aveva affrettato il passo più dei compagni, per recitare da solo a solo le mie preghiere: e mentre a bassa voce andava cantando le litanie della Madonna, sentii da un lato un rumore confuso, come il cammino di un animale in mezzo a folte piante. Mi rivoltai indietro, ma i compagni non comparivano. Da prima pensai che fosse una Jena, e non ne feci gran caso: ma avvicinandosi più al sentiero, mi accorsi che era un grosso leopardo. Allora tutto impaurito arrestai il piede, mi ravviluppai nella tela dalla testa in giù, lasciando un solo spiraglio ad un occhio, per vedere che cosa accadesse, e stringendo in pugno la croce, che teneva sotto le vesti, cominciai a fare benedizioni e a raccomandarmi a Dio. Anche il leopardo giunto a tre o quattro metri di distanza si fermò a guardarmi. E poichè era la prima volta che mi capitava un sì spiacevole incontro, e di notte, e tutto solo, il cuore mi batteva sì fortemente, che se fossi durato più a lungo in quel pericolo, non so che cosa sarebbe accaduto di me. Per fortuna, passati alcuni minuti, la bestia proseguì il suo cammino, scendendo dall’altra parte della collina. Poco dopo arrivarono i servi, e, parlando con essi, il cuore mi si calmò alquanto. Oggi un tale incontro non mi farebbe più impressione, poichè, moltissime volte avendo avuto occasione di veder questi animali, potei assuefarmi alla loro vista: ma allora provai un timore tale, che per quasi un anno, ogni volta che me ne ricordava, massime di notte, sentiva venirmi i brividi della paura.

Incontro di un leopardo
Incontro di un leopardo.

Torna su ↑

7. Allo spuntar del giorno la nostra guida ricevette il suo sale, e se ne ritornò; e noi, usciti da quel boschetto, entrammo in una vasta pianura coperta di erba già matura e secca, e così alta, che superava la nostra /167/ testa. I contadini, quando la campagna è secca, sogliono appiccarvi il fuoco, a fine di nettare quei terreni da’ serpenti e dagli altri animali nocivi che vi si annidano, ed anche per impedire che le imminenti piogge, facendo marcire l’erbe, sviluppino i soliti miasmi e le conseguenti febbri. Quella stessa mattina pertanto avevano da varie parti appiccato il fuoco in quella vasta campagna. Noi però vi camminammo dentro senza pericolo sino alle dieci, perchè il fuoco si era tenuto sempre lontano, e non pareva che volesse giungere presto alla nostra via: quando un’improvvisa bufera, simile a tromba marina uscita da una gola di montagne, scaricossi in quella pianura, e propagò così repentinamente quell’incendio, che ci trovammo circondati da ogni parte. Allora, spaventati, ci demmo a fuggire a tutta corsa sul nostro sentiero; ed a grande stento potemmo giungere a salvarci sul letto largo e sabbioso di un torrente. L’asinello ci seguiva correndo anch’esso, ma, avendo le gambe meno veloci di noi, soffrì qualche scottatura, ed ebbe la coda abbruciata. In mezzo a quelle fiamme vedevamo salti curiosissimi di animali, che tentavano di sfuggire al fuoco, ed alcuni anche ci seguivano da vicino senza averne punto paura. Tra gli altri un serpente, vedendosi da ogni parte investito dalle fiamme, si slanciò in aria ad un’altezza smisurata: ma la povera bestia, per quanti sforzi facesse, ricadde in quel lago di fuoco, e restò incenerita.

Torna su ↑

/168/ 8. Trovandosi dell’acqua sul letto di quel torrente, facemmo colazione: ma eravamo così stanchi, che sentivamo più il bisogno di dormire che di mangiare. Tuttavia ci fu forza rimetterci in viaggio, e verso le cinque si giunse ad un villaggio di confine della provincia di Gondèt, dove passammo la notte. Il giorno appresso in poche ore giungemmo al paese stesso di Gondèt; ed essendovi mercato, comprammo alcune provviste, e poi riposammo tutta la giornata. E mentre consultavamo sulla strada da tenere, per attraversare l’Amassen, ci venne all’orecchio, con grande nostro impiccio, che Degiace Escetù, primogenito di Ubiè, vi faceva scorrerie con i suoi soldati, unicamente per dar loro da mangiare. Le popolazioni perciò erano in fuga coi loro bestiami verso le frontiere. In tali occorrenze, tanto il popolo quanto il soldato non hanno rispetto per nessuno; si fan lecito ogni capriccio ed arbitrio; molestano chiunque incontrano, e quindi difficile e pericoloso rendono il viaggiare, principalmente ai forestieri. Inoltre lungo quelle contrade, non si trova più nulla, giacché, per timore di rappresaglie, i mercati si sospendono, i grani si nascondono, i bestiami si trafugano, i villaggi si spopolano, ed appena qualche vecchio resta a custodia delle capanne.

Torna su ↑

9. Questa è la gran piaga dell’Abissinia. Da quasi due secoli non è più la legge che la governa, ma la forza brutale di chi è riuscito a vincere, o briga di scavalcare gli altri. Non vi è più successione nelle case dei sovrani, non diritto ereditario: ma intrigo, tradimenti e contese a mano armata. Finchè dura il credito e la forza di uno, dura il suo Governo; ma non appena un altro giunge a cattivarsi la fiducia dei soldati, e può cimentarsi col Principe regnante, incomincia la guerra civile, terribile flagello, che tutto distrugge. Allora si vedono due leoni contendersi la preda; la quale intanto, finchè l’uno non superi l’altro, vien fatta a brani: e dopo la vittoria non vi sarà che una tregua apparente per quelle popolazioni, ma pace e benessere non mai: dappoichè quei Governi, non avendo finanze, nè rendite per mantenere i soldati, e nel tempo stesso avendo bisogno di essi per sostenersi, non possono fare a meno di gettarli sui popoli a rubare, od almeno a mangiare. Altrimenti quei soldati volteranno le spalle al fortunato vincitore, per darsi ad un altro, che meglio di lui darà loro mezzi per vivere. In tale stato di cose, nè il Principe può procurare il bene dei popoli, nè questi possono avere per lui stima ed affetto di figli: ma son costretti a riputarlo come un pubblico flagello.

Torna su ↑

10. E qui mi si permetta dire che simili motivi minacciano di rendere egualmente barbari molti Stati della nostra Europa. Da noi la consuetudine /169/ dei popoli di vivere sotto un Governo già costituito, ha salvati alcuni regni dall’anarchia abissina: ma non può negarsi che vi vengono spinti gradatamente, a mano a mano che si toglie l’impero alla legge, e si da alla forza brutale delle sètte. Di fatto anche in Europa son sorti e sorgono tuttogiorno nuovi pretendenti, che con diversi nomi e forme politiche sconvolgono i regni, le famiglie reali ed i popoli; e dove è loro riuscito di afferrare in mano il potere, si è veduto che han ricorso a tutte le vessazioni testé cennate. Di fatto, per sostenersi, hanno centuplicato smisuratamente gli eserciti, moltiplicato le tasse ed i debiti, e quindi apportato la miseria, il malcontento ed il disordine nella comunanza civile. Si grida dalle popolazioni contro i Re (dove ancora si conservano) e contro i Ministri: ma non sono i Re, nè i Ministri la causa del male; è il principio ed il sistema di condurre l’umano consorzio allo stato della barbarie abissina. Questo sociale disordine poi viene accresciuto dalla guerra, che si fa alla Religione, base e fondamento della famiglia e degli Stati; la quale, imponendo ai sudditi di obbedire ed esser fedeli, ed a chi comanda di governare con giustizia e carità, dà loro la norma del perfetto vivere sociale, tiene l’equilibrio nei cuori, calma le ambizioni, e, nelle sofferenze immancabili della vita, allieta gli animi con una speranza futura. Le numerose emigrazioni dei nostri popoli, per cercare altrove pane e lavoro, i continui scioperi delle classi inferiori, che giornalmente si succedono in ogni città e manifatture industriali; le innumerevoli associazioni segrete, che sorgono minacciose in ogni regno, dovrebbero farci comprendere che c’incamminiamo per l’anarchia, e piomberemo nella barbarie. Ma ritorniamo alla misera Abissinia.

In Europa l’abitudine dei popoli di vivere con un governo organizzato salva ancora per qualche tempo il paese dall’anarchia abissina, ma si corre là a gran passi; a misura che non è più la legge che governa, ma la forza brutale del più forte; le pretenzioni del popolo che tendono a mangiare senza lavorare, hanno moltiplicato in modo straordinario i pretendenti, che per dare da mangiare a tutti questi si sono moltiplicati dei quattro quinti gli impiegati e soldati, unicamente per mantenere precariamente ancora per qualche tempo l’organismo sociale in piedi moltiplicando i debiti all’infinito, debiti che non si pagheranno mai più: si grida contro i governi, si grida contro i ministri per imposte divenute impossibili, ma tutto inutile, non è il Re, non sono i ministri [i responsabili], è vizio di sistema, è malattia di società che ci conduce alla morte sociale, che è l’anarchia; come in Abissinia tutti cercheranno di fuggire lo stato della classe passiva, o emigrando, oppure passando ad un stato nominale di servizio publico.

Ora [siamo come] una macchina in cui tutti gli ordegni sono sortiti dal posto suo e si sono gettati in uno stato violento. Avete bell’inventare termini ampollosi di civiltà, di progresso, di libertà, e via dicendo, per ubbriacare i popoli e stabilire e rendere normale lo spirito di vertigine; ma badate che non sono i termini che riformano la società, ma i costumi, le azioni, le operazioni, i calcoli, e sopratutto la fede che ne è la base, la quale scopre una monarchia invisibile ed una forza che tutto move e tutto governa; quella che tiene la base delle masse al posto loro per mantenervi, ed impone alle autorità per governarle paternamente e con giustizia; quella che tiene l’equilibrio nei cuori, e calma le pretenzioni di salire più in alto; quella finalmente che apre la porta ad una speranza futura che basta per tutto compensare.

Ma una volta scomparsi tutti questi bei capitali, fino a tanto che vedrete i poveri contadini oppressi che emigra[no] o all’estero, oppure alle città centrali in cerca del piaceri materiali, sappiate che vi sovrasta un brutto avvenire. Quando le campagne vostre saranno deserte chi vi darà più del pane? dove troverete i milioni per mantenere le truppe sempre più crescenti per mantenete l’ordine interno?

Ma non è ancora qui tutto il male: Questa società montata tanto in alto con tutte queste ultime invenzioni, mentre si sta gonfiando continuamente il cuore delle masse a pretenzioni innaudite; che non arrivi poi come a quel pallone che crepò per essere montato troppo [in] alto, e che Iddio permetta di ascendere sempre, come a Simon mago per trovare la sua morte nella vergognosa caduta. Sopra dicevamo[:] chi vi darà del pane? Qui per tacere di tante classi di operaj che conducono una vita infelice, domanderemo solo[:] chi si risolverà ancora a passare la vita come bruti dentro le cave e le mine sotto terra per somministrare tanti milioni di tonnellate di carbone? I diversi scioperi di operai ci avvertono che un tale sbilancio non è impossibile.

Ora in caso di uno sbilancio sociale simile, quale ne sarà il rimedio? Un solo per non morir di fame, e non privare la società di queste colossali invenzioni; sarà quella di arrivare alla forza brutale dei Faraoni, i quali con milliaja di schiavi fabbricavano le piramidi per abbellire un sepolcro, e degli imperatori Romani, i quali col mezzo dei schiavi costruivano i muri di Roma, le terme, ed il Colosseo. Così terminerà la libertà e l’eguaglianza che tanto si predica e si vagheggia; alle antiche dinastie Cristiane e paterne sortiranno altre pagane e senza misericordia. Eccoci arrivati in Abissinia, dove abbiamo incomminciato, colla differenza che l’Abissinia non essendo montata tanto alta la caduta è più mite e meno sensibile. L’Abissinia [non] è mai arrivata a far la guerra diretta a Dio, campagna incomminciata nei nostri paesi, ed incomminciata appunto con questo calcolo, perché con Cristo in trono che ci ha liberati non si potrà mai arrivare là, dove vogliono arrivare ad ogni costo. Memorie Vol 1° Cap. 16 pp. 142-144

Torna su ↑

11. Mentre Degiace Escetù inseguiva le povere popolazioni dell’Amassen, che fuggivano coi loro bestiami verso la parte d’Occidente, noi in due giorni di forzato cammino, ci avvicinammo ai confini orientali; ed il terzo giorno si arrivò a Kajakeur, villaggio di frontiera. Quivi si prese una guida, affinchè ci conducesse per gli alpestri terreni abitati dalle tribù nomadi, e dai pastori degli Sciàho, come nel venire aveva io fatto in Arkìko. Questa guida ci portò per una discesa meno ripida di quella che avremmo dovuto fare, scendendo la Tarànta, ma assai più lunga. Fermatici un poco per riposarci, e ripreso il cammino verso mezzogiorno, alla sera entrammo in una valle stretta e profonda, dove le carovane solevano passare la notte; onde speravamo di non trovarci soli. Aspettammo sino a tardi, ma non vedendo venire nessuno, credemmo meglio ritirarci in una piccola isola di un torrente vicino, e ricoverarci all’ombra di un /170/ grosso sicomoro; su cui in caso di bisogno potevamo arrampicarci e starvi sicuri come in una fortezza (1). I servi radunarono legna per tenere il fuoco acceso tutta la notte, e mi apparecchiarono da dormire sopra un banco di sabbia; e quantunque quel letto fosse vicino all’acqua e sopra pietre ed arena, pure lo trovai delizioso. Appena si fece bujo, sentivamo i leoni mandare per quelle montagne ruggiti orribili, che l’eco di quei precipizj rendeva più spaventevoli.

Sciàho: Nel ms. sono indicati con la grafia più corrente Soho. Memorie Vol 1° Cap. 16 pp. 144

Torna su ↑

12. Mangiata la nostra misera cena, ed avendo ancora molte preghiere da recitare, dissi agli altri di porsi a dormire, e soggiunsi che, fatto prima io la mia parte di guardia, avrei poi svegliato un di loro. Mentre vegliava, pregando, aggiustando il fuoco, e lanciando di quando in quando qualche tizzone ardente in lontananza, per ispaventare le bestie feroci (2), vedeva, a brevi intervalli, riflessi di lampi, fuori dello stretto orizzonte della valle: ma non sentendone il tuono, e credendo che il temporale fosse assai lontano, non ne faceva caso. Finite le preghiere, svegliai uno dei giovani, e mi posi a dormire. Ma non aveva ancor chiusi gli occhi, che un forte tuono, benchè molto lontano, venne a destarmi e mettermi in grande apprensione: sicchè, essendomi impossibile di più oltre dormire, mi alzai e me ne stetti a sedere come a mezzo letto. E buon per noi! poichè il giovane da me svegliato, vinto dal sonno, russava saporitamente. Allora chiamai la guida, come persona più pratica dei fenomeni atmosferici di quei luoghi: e non si era ancora levato, che già io sentiva il mio letto quasi nuotar nell’acqua. Impaurito mi rivolgo a lui; ed egli, conosciuto il pericolo, gridando, ci fa montar presto sull’albero, e legando poscia al suo tronco l’asinello, salisce egli pure con tutto il nostro bagaglio. Messici appena in salvo, ecco sopraggiungere una piena sì straordinaria, che in pochi istanti riempi il fiume, copri l’isoletta e ci ridusse come in mezzo ad un lago; sicchè il povero asinello galleggiava sull’acqua con la sola testa fuori. Appresso alla piena cominciò a scaricarsi una dirotta pioggia con lampi e tuoni, che durò una gran parte della notte. Finalmente come a Dio piacque cessò, e la guida legandomi in modo sull’albero da non poter cadere, così mezzo appeso, e coperto dalla pelle, potei sonnecchiare /171/ un qualche quarto d’ora. Quanto è utile avere una persona sperimentata in quei luoghi! Senza quella buona guida, chi sa che sarebbe stato di noi in quella notte? Fortunatamente in quelle bassure faceva caldo, altrimenti il dover stare tutta la notte esposti all’acqua di sotto e di sopra, ci avrebbe certo cagionato qualche malanno. Alla mattina il tempo si rimise al bello, ed anche la corrente andava diminuendo, ma si sentiva un po’ di freddo: onde la guida, trovate qua e là delle legna, accese un buon fuoco, sviluppandolo col fregamento di due legni secchi; operazione che i nomadi sanno fare con grand’arte e speditezza.

Sorpresi dalla piena, ci rifugiamo sul sicomoro
Sorpresi dalla piena, ci rifugiamo sul sicomoro.

Torna su ↑

13. Essendo poi la piena cessata interamente, fatta colazione, ripassammo il torrente, ed a mezzogiorno la guida ci condusse da alcuni pastori, i quali ci offrirono latte in abbondanza, e ci regalarono un agnello. Non avendo altro, li compensai con metà della farina che ci restava, di cui furono molto contenti. Cercammo prendere un po’ di sonno, per rifarci della mala notte precedente; e poi ripartiti, la stessa sera ci fermammo presso altri pastori. Questi ci ricevettero con grandi segni di gioja, perchè la guida, giunta prima di noi, aveva loro annunziato che io era fratello di Abûna Jacob (Monsignor De Jacobis). Quella sera fu gran festa per la famiglia; vollero ad ogni costo ammazzare un castrato, ed apparecchiarono una buona cena, nella quale invece di vino si beveva latte. I /172/ ragazzini mi erano sempre attorno, e mi si abbandonavano con tutta confidenza, come fossi stato un loro parente. Oh come il Missionario sa mutare la natura di quei selvaggi! Sgraziatamente io non conosceva il loro dialetto, e per dir loro qualche parola di Dio, doveva servirmi di un dragomanno, ossia di un interprete: ma la mia parola in questo modo non arrivava al loro orecchio che per metà.

Torna su ↑

14. Lasciati al mattino quei buoni pastori, che vollero anche regalarci due vasi di latte a fin di beverlo per istrada, dopo cinque ore di cammino giungemmo in un altro piccolo caseggiato pastorizio, lontano appena mezza giornata da Umkùllu. Ricevemmo gli stessi affettuosi trattamenti, e ci fermammo per passarvi la notte. Là seppi l’arrivo in Massauah di un nuovo Missionario, il P. Leon des Avanchèrs, savoiardo, e la partenza dall’Europa di un altro, il P. Gabriele da Rivalta, piemontese. Tosto scrissi un biglietto al detto P. Leone, ed un pastore si prese l’incombenza di portarlo la sera stessa ad Umkùllu, dove si trovava D. Gabriele, sacerdote abissino ed allievo di Propaganda, il quale l’avrebbe fatto ricapitare a Massauah. 7.3.1850 A.Rosso Il giorno seguente partiti di buon mattino, arrivammo verso mezzogiorno ad Umkùllu, donde ci venne incontro il suddetto D. Gabriele, impaziente di vederci. Monsignor De Jacobis era assente, essendosi recato alcuni giorni prima ad Alitièna. Poco dopo giunsero il P. Leone ed alcuni altri amici da Massauah. Immagini il lettore la gran festa che si fece nel rivederci, abbracciarci, e raccontarci le vicende passate! Allora seppi †24.5.1847 A.Rosso
21.5.1847 A.Rosso
la morte del Cardinal Micara; l’elezione, a Generale dei Cappuccini, del mio Lettore Venanzio da Torino; l’ingratitudine con cui fu ripagato Pio IX da coloro, che aveva perdonati e beneficati; l’assalto al Quirinale; la fuga a Gaeta, ed il suo ritorno trionfante nella fedele città di Roma.

Torna su ↑

15. Fra gli altri amici, venuti da Massauah, eravi un certo Stefano, greco scismatico, che io prima di partire aveva catechizzato, e che sperava, per la sua buona indole, d’indurlo ad abiurare lo scisma. Questo proselito giubilava più di tutti, sentendo il mio ritorno, quasi fosse presago di quanto fra breve doveva accadergli. Esso stesso volle portarmi la cena da Massauah; e poichè avea casa anche in Umkùllu, non molto lontana da quella del signor Degoutin, avrebbe voluto che fossi andato a stare quella notte presso di lui, come ordinariamente facevano, in caso di bisogno, tutti i Missionari: ma ringraziatolo, e passata qualche ora insieme, se ne ritornò a casa. Il P. Leone intanto ripartì subito per Massauah, a fine di ricevermi là nel giorno seguente.

La notte, ad ora tarda, mentre tutti dormivano, ed io aveva appena /173/ chiusi gli occhi, sento bussare la porta, e chiamarmi con premura, come se fosse accaduta una qualche disgrazia. Domandato che cosa volessero, ci fu risposto che Stefano era ammalato e desiderava parlarmi. D. Gabriele per risparmiarmi un disturbo, e lasciarmi riposare, volle andare egli a vederlo, e lo trovò che veramente stava male. Appresso vi andai anch’io, e, veduto che il caso era grave, gli dissi che conveniva farsi trasportare immediatamente a Massauah. Il che i suoi servi fecero la mattina di buon’ora.

Torna su ↑

16. Celebrata la Messa, partii anch’io per Massauah, e vi giunsi in meno di mezz’ora. Tralascio di descrivere le accoglienze affettuose fattemi da tutti quegli amici e conoscenti, dopo tanto tempo di separazione. Fui assediato da continue visite tutto il giorno; le lettere poi d’Europa e di Aden, che trovai, mi tennero occupato in maniera, che non potei andare a visitare il povero Stefano. Dissi a Fra Pasquale di andarlo a vedere: ma egli giustamente mi fece osservare che quello non era più luogo da bazzicarvi noi: dappoichè Stefano, essendo divenuto Agente Consolare inglese, e procuratore di Abba Salâma, la sua casa era sempre piena di Abissini, mandati dal Vescovo eretico; i quali naturalmente, dopo tutto quello che erasi fatto contro di me dal loro padrone, non potevano guardarci di buon occhio. Per questo motivo mandai invece un servo.

Torna su ↑

17. La mattina seguente vennero ad ascoltare la mia Messa molte persone, tra cui il signor Degoutin con la famiglia; il quale, nella mia assenza, dal Governo francese era stato tolto di uffizio, e surrogato con un altro Viceconsole. Fra le persone che stavano nella cappella, mi accorsi che vi era anche Stefano, e dai gemiti, che interrottamente mandava, conobbi che il poveretto stava molto male. Finita la Messa, scoppiò in dirotto pianto, dicendo che non voleva morire da eretico, che desiderava confessarsi e rientrare nella cattolica religione. Gli promisi che avrei appagato il suo desiderio; intanto per chiudere la bocca ai maligni, gli dissi ch’era conveniente tornarsene a casa, e dopo aver fatta la preparazione, mi avesse pure mandato a chiamare, che sarei subito andato. Così fece, ma non fu ascoltato dai suoi. Passò tutta la giornata agitato, e la notte peggio ancora: ad ogni momento, temendo di morire, si levava da letto, smaniando e dicendo che voleva ad ogni costo venire a confessarsi. Allora quei di casa furono costretti a chiamarmi. Ma Fra Pasquale, dubitando di qualche tranello da parte della gente di Salâma, volle accompagnarmi armato di pistola.

Torna su ↑

18. Giunto vicino a casa sua, sentii gente che tumultuava, e domandato /174/ che cosa fosse, mi fu risposto che Stefano sulla porta si dibatteva per venire da me. Invano cercavano trattenerlo coll’assicurarlo di avermi fatto chiamare; egli, non credendovi, gridava ch’era una menzogna, un tradimento, un volerlo perdere eternamente. Accorsa gente, chi lo compativa, e chi lo chiamava pazzo. In mezzo a quel contrasto giunsi io, ed appena mi vide, corse verso di me, e mi si gettò ai piedi piangendo; laonde, commosso anch’io, lo rialzai, lo presi per mano e lo introdussi in casa. I mussulmani, che non comprendono le vie della grazia, e quanto possa in un’anima, che si vede vicina all’altra vita, il desiderio di unirsi a Dio, mercè la Confessione, alla vista di quel subitaneo cambiamento, credettero che io avessi fatto un miracolo. Ma poveri ciechi! Il vero miracolo fu la sua conversione, frutto della misericordia di Dio, e dei buoni semi gettati nel suo cuore. Di fatto, allontanatasi tutta quella gente, si confessò con veri sentimenti di compunzione e di pietà; e dopo averlo assicurato che noi non lo avremmo abbandonato più, si quietò, e restò in una calma e tranquillità ch’edificava.

Massaia en Éthiopie

Massaia en Éthiopie
Esquisse del l’Éthiopie et de quelques pays voisins

Torna su ↑

19. D’allora in poi gli fummo sempre accanto. Il P. Leone nella stessa giornata gli amministrò l’Estrema Unzione, e gli diede la benedizione papale; e la notte seguente, dopo breve agonia, 11.3.1850 A.Rosso il povero Stefano spirò tranquillamente fra le sue braccia. Poco dopo arrivò in quel porto la Vittoria, nave da guerra inglese; ed il Capitano, sentita la morte dell’Agente Consolare della sua nazione, venne da me per saperne le disposizioni; e dopo aver sentiti tutti i particolari della morte, si conchiuse di fargli una conveniente sepoltura. E poichè i cristiani, morti in Massauah, venivano seppelliti in una isoletta a parte, il Capitano mandò tutto l’equipaggio della Vittoria con le loro lancie e palischermi ornati di bandiere per l’accompagnamento. Il P. Leone e Fra Pasquale in abiti di chiesa, e con croce inalberata precedevano, recitando le solite preghiere; e quando il cadavere dall’isola fu portato nella barca, si sparò un colpo di cannone. Giunto finalmente al cimitero, fu deposto nel sepolcro, ed i soldati gli fecero una salva di onore. Così finì il mio Stefano; ed io ringraziai il Signore di avermi fatto arrivare in tempo a Massauah per salvarlo. Uscito il cadavere di casa, si apposero alla porta i sigilli dal rappresentante del nuovo Agente Consolare francese, signor Bisson, per garantire gl’interessi dei parenti, del Consolato inglese e del vescovo Salâma.

Monsieur Busson Capitano della Granouille, bastimento mercantile dell’Armatore Regis di Marsilia, rappresentante del nuovo console Francese, appena sortita il cadavere dalla casa, mise il sigillo alla casa, perche Stefano era un negoziante avente beni proprii, quindi era agente consolare inglese lasciato dal Signor Plauden andato in Abissinia, poscia era anche Procuratore di Abba Salama. Memorie Vol. 1° Cap. 17 p. 149

Torna su ↑

20. Giunto ad Umkùllu, io aveva subito scritto a Monsignore De Jacobis, dicendogli che, essendo tornato dall’Abissinia, e dovendo ripartire per Aden, e quindi per Roma, desiderava prima di abboccarmi con lui. Egli /176/ non pose tempo in mezzo a venire: ma ci volevano almeno dieci giorni per giungere a Massauah, e questo ritardo m’impedì di partire col ritorno della nave inglese. Ma mi fu di molto maggior vantaggio, come vedremo, l’arrivo d’un legno mercantile dall’isola Maurizio, venuto per caricar muli. Frattanto giunse Monsignor De Jacobis da Alitièna, ed abbracciatici con quell’affetto fraterno, che scambievolmente ci portavamo, mi raccontò le sue dolorose vicende. Poichè Abba Salâma, riuscito vittorioso contro di me, non arrestò lì la persecuzione, ma esilio del De Jacobis: 9.10.1848 A.Rosso fece bere anche a lui il calice dell’amarezza, specialmente in Gualà e nei suoi dintorni. Ma di ciò diremo altrove; piuttosto voglio qui raccontare un triste episodio, che appartiene ai costumi della turpe razza mussulmana.

Torna su ↑

21. Mentre io stava aspettando il ritorno di Monsignor De Jacobis, giunse da Gedda a Massauah un giovane goggiamese, figliuolo di una schiava di Degiace Gosciò; il quale giovane, fatto schiavo mussulmano a tradimento, era stato condotto da un mercante alla Mecca, per farne quel turpe traffico che or ora diremo. Poscia liberatosi da quella vita obbrobriosa, veniva rimandato dal Console francese di Gedda, signor Fresnel, con una lettera di raccomandazione a Monsignor De Jacobis, affinchè lo facesse rimpatriare. In assenza di Monsignore toccò a me riceverlo, e mandarlo con persone sicure nel Goggiàm. La sua schiavitù accadde l’anno del mio primo arrivo a Massauah, e ne racconto l’origine e le vicende come mi furono narrate da lui medesimo, e da altre persone degne di fede.

Torna su ↑

22. Sul principio del 1846 un prete eretico abissino girò parecchi paesi del Beghemèder e del Goggiàm, raccogliendo giovani di ambo i sessi, per condurli al pellegrinaggio di Gerusalemme: ed allestita una numerosa carovana, si avviò per Massauah, dove giunse in pochi giorni. Non trovandosi, diceva egli, barche pronte per quel viaggio, dovettero fermarsi in quel porto per qualche settimana. Una mattina finalmente il prete dà l’avviso della partenza, dicendo che la barca era pronta con tutte le provviste, e li condusse al mare. Quando tutti erano imbarcati, egli, adducendo il pretesto di aver dimenticato qualcosa, ritornò nell’isola, promettendo che presto li avrebbe raggiunti. Ma quei poveri giovani ebbero un beli’aspettare; il loro capo non comparve più. Il Capitano verso sera levò l’ancora; ed ai giovani, che con timida voce se ne richiamavano, rispose che faceva quella mossa per cambiar posto, non per partire. Intanto continuò a navigare, sicchè a poco a poco la nave andava allontanandosi dal porto.

Torna su ↑

23. Da principio il Capitano moveva lento, per dare ad intendere che /177/ aspettava il loro capo: ma fattasi notte, e vedutosi tanto discosto dal porto, che le grida di quei disgraziati non avrebbero potuto giungere alla riva, disse loro chiaro e tondo, che già erano divenuti tutti suoi schiavi; che il loro capo non era punto un prete, ma un mercante mussulmano, il quale li aveva condotti a Massauah per venderli; e che di fatto erano stati venduti, e da lui comprati. Quindi stessero queti, se non volevano assaggiare la frusta. Che potevano fare quei poverini in mezzo al mare? A chi ricorrere per ajuto? Fu giocoforza rassegnarsi alla loro irreparabile sventura! Giunti a Gedda, furono venduti tutti, e dispersi qua e là. Il nostro Goggiamese fu comprato da un pellegrino venuto dalle Indie, il quale per alcuni giorni lo trattò bene, promettendogli anche di adottarselo per figlio; ma poi, giunto alla Mecca, lo regalò alla Kàaba (1). Ivi, unito ad una turba di oltre trecento giovani, quasi tutti abissini cristiani, e già divenuti fanatici mussulmani, fu istruito anch’egli nell’islamismo; e non tardò ad apprenderne i turpi sentimenti e luridi costumi.

Torna su ↑

24. Ma perchè si tengono là questi sventurati ragazzi? Io vorrei tacere: ma affinchè si conosca quanto immondo e mostruoso sia l’islamismo, e come meriterebbe di essere distrutto dalla faccia della terra, anche a nome della civiltà sociale, ne voglio palesare il segreto. Maometto comanda a tutti i mussulmani il pellegrinaggio della Mecca, almeno una volta in vita loro, e comanda pure di astenersi da ogni commercio matrimoniale dalla partenza sino al ritorno. Ora, essi hanno interpretato che, se in tal tempo e comandata loro quell’astinenza, non s’intende con ciò proibito di trattare con uomini; poichè di questo il Corano non fa menzione. Quindi s’introdusse il turpe costume che ogni pellegrino, andando alla Mecca, porti seco un giovane che più gli aggrada, abusandone vituperosamente. E questa mostruosità non solo praticavasi anticamente, ma anche ai nostri giorni, essendo riputata come un dovere religioso. Inoltre le persone, massime facoltose, giunte alla Mecca, volendo andare a visitare il sepolcro di Maometto a Medina, mediante una somma che pagano al santuario, si prendono dalla Kàaba una guida che li accompagni in quel viaggio; /178/ e questa guida è sempre uno di quei giovani che son là conservati, e destinati per quel tratto di pellegrinaggio a seguire i pellegrini, ed esser vittima delle loro brutali nefandezze.

Torna su ↑

25. Questi giovani, chiamati Santoni, dopo dieci o dodici anni di tal miserabile vita, non cercati più da nessuno, si adoprano con ogni premura per riacquistare la loro libertà, e spesso se la fanno comprare da qualche ricco pellegrino. Ed usciti di là, si spargono per i paesi mussulmani facendo i Fakiri, ossia i predicanti del Corano. Non tutti però giungono a compiere quell’obbrobrioso tirocinio, che molti in quel luogo si ammalano, o per istanchezza organica, o per contratti morbi. In questo caso son cacciati via, ed abbandonati alla loro sventura; come accadde al nostro Goggiamese.

Torna su ↑

26. Cacciato dalla Kàaba, perchè ammalato, si trascinò alla meglio sino a Gedda, dove, dopo avere bussato a parecchie porte, si raccomandò al Console francese; il quale mosso a compassione, lo tenne là circa un anno, e lo guarì del suo male. Ritornato in salute, e riconosciuto dai mussulmani per un Santone, volevano ricondurlo alla Mecca. Allora il signor Fresnel lo fece imbarcare e trasportare a Massauah, come poc’anzi ho detto. Io, in quei pochi giorni, mi adoprai per convertirlo al cattolicismo: ma in fine egli mi confessò schiettamente che per lui ciò era impossibile. — Io nacqui, diceva, e fui allevato cristiano, e desidero ancora di tornare cristiano, benchè ormai conosca che il cristianesimo del mio paese non potrà rendermi veramente buono, e salvare l’anima mia. Vorrei farmi cattolico; ma una gran difficoltà me lo impedisce, ed è il brutto vizio che ho contratto dai mussulmani. Quando fui allontanato dal mio paese, era giovinetto, e seguiva come piccolo soldato, Degiace Gosciò, da me tenuto ed amato come padre: e benchè in quell’età fossi già pieno di malizia e dato ai vizj, tuttavia era tutt’altro di quello che ora sono. Ma dopo essere stato condotto alla Mecca, unito ai mussulmani della Kàaba, ed accostumato al loro brutale vizio, dispero assolutamente di potermi correggere. E qualora voi voleste prendermi in casa vostra, vi pregherei a non farlo, tanto mi sento dominato dalla mussulmana passione. —

In questo passo col termine santone il M. sembra indicare lo حاجّ Ḥāǧǧ, colui che ha compiuto il pellegrinaggio حجّ Ḥaǧǧ alla Mecca.
In altri contesti, lo stesso termine sembra indicare il maestro di una confraternita sufi (in altre zone dell’Africa chiamato marabutto مَربوط marbūṭ), spesso considerato un taumaturgo e venerato anche dopo la morte con pellegrinaggi rituali alla sua tomba.
Più in generale, il M. usa il termine in senso sprezzante per indicare una qualunque autorità religiosa islamica.

Torna su ↑

27. Questa schietta confessione, e molti altri fatti che vidi e sentii, e che onestamente non si possono raccontare, furono per me come la scoperta di un nuovo orizzonte nel mondo islamitico. E questa scoperta mi diede la chiave, per ispiegare il segreto della continua diminuzione delle popolazioni mussulmane. Corrotto il senso naturale dell’uomo, si perverte l’intelletto ed il cuore, si sconvolge e si sfibra l’organismo, e si /179/ diviene inetti all’umana generazione. Ed ecco il motivo per cui l’Oriente, un tempo centro di potenti imperi, seminato di fiorenti città, abitato da milioni di popoli, insomma il più popolato del mondo, oggi non presenta che squallidi deserti, e qua e là agglomerazioni di più squallidi viventi. E questa desolante solitudine si mantiene, non ostante le numerose immigrazioni europee, e le continue asportazioni in quelle regioni di schiavi africani. Secondo certi calcoli, nel 1850 passarono dalla parte del Sennàar e della costa africana orientale, più di ventimila schiavi per l’impero mussulmano. Certamente questo traffico ora è diminuito: ma pure sino al 1878, il solo regno di Scioa ne dava ogni anno circa duemila. Aggiungo inoltre che questa stessa causa ritrae potentemente il mussulmano dall’abbracciare il cristianesimo. Governato da una legge, che non solo favorisce e contenta le sue brutali passioni, ma le consacra eziandio come pratiche religiose, il suo cuore non può sollevarsi all’ideale sublime del cristianesimo, e quindi è impossibile che le sue azioni si uniformino ai puri insegnamenti del Vangelo. Nel lungo corso del mio apostolico ministero sul continente africano, appena posso contare di aver guadagnato alla fede di Gesù Cristo dieci mussulmani!

Chiusa

Galla tipo Somali

Torna su ↑

[Note a pag. 164]

(1) Nome, che si dà per disprezzo dagli Arabi e dai mussulmani ad un Europeo, e nella loro lingua significa un uomo senza fede e senza religione! L’Abissino, incontrando un Europeo, crede di trovare in lui la sorgente dei tesori, ed è anche persuaso ch’egli possa magicamente fare scaturire denari a sua volontà. [Torna al testo ]

(2) Pezzo di sal gemma lungo un palmo e largo quattro dita, di forma obliqua nelle due estremità e del peso di circa una libbra. Si cava da un lago salato nel Tigrè, e ridotto a questa forma, ha valore di /165/ moneta, e serve pel piccolo commercio. Vicino alla miniera con un tallero se ne hanno più di cento; in Gondar da cinquanta a sessanta; in Kaffa poi, a causa della distanza, da sei a dieci, e molto più piccoli; perchè, passando da una persona all’altra, vengono a poco a poco raschiati, per condire le vivande. [Torna al testo ]

[Note a pag. 170]

(1) Il sicomoro è della specie del fico, ed ha legno e frutto quasi simili ad esso; le fronde nella forma esterna si assomigliano più al celso moro, onde fu chiamato ficus morus, da cui sicomoro. Comincia a vegetare in Egitto, ed a mano a mano che si va verso la zona torrida, prende maggiore sviluppo; sicchè in Abissinia sono di straordinaria grandezza. [Torna al testo ]

(2) Le bestie feroci hanno gran timore del fuoco e mai vi si accostano: perciò quei popoli, dovendo dormire all’aperto ed in luoghi infestati da simili animali, sogliono accendere grandi fuochi, per tenerli lontani e riposare sicuri. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 177]

(1) I mercanti mussulmani che vengono dalle Indie e dall’Africa Orientale sogliono regalare a questo santuario un giovane schiavo, che per lo più è cristiano abissino, comprato sui mercati della costa o del Sudan. Il santuario desidera meglio schiavi cristiani abissini, perchè li ha come tanti trofei conquistati dall’islamismo; inoltre li gradisce più per la loro bellezza, superiore a quella degli Arabi, per la vivacità delle loro passioni materiali, e sopratutto perchè convertiti all’islamismo, ne divengono i più fanatici propagatori. Nelle tradizioni maomettane si parla di un futuro impero mussulmano in Abissinia; e questa speranza aggiunge valore a quei giovani schiavi.

Nel ms. a questa nota ne seguono altre due, sul medesimo argomento:

Questo precetto del Corano gelosamente osservato dai pellegrini musulmani, fa sentire naturalmente il bisogno di un compenso nelle loro passioni materiali. Se il Corano fosse un codice morale, almeno nella sostanza, e circa i precetti naturali, non mancherebbe di mettere un freno ad altri disordini peggiori che nascono da se per la natura corrotta del uomo. Ma tutto all’opposto il corano è un codice affatto vuoto nella morale, anche la più essenziale; anzi tutto all’opposto, nelle stesse sue pochissime cerimonie esterne della cognita purificazione comandata sei volte al giorno, è un vero culto religiosa della proprio sensualità, ed un’eccitazione quasi diretta agli sfoghi della medesima, come non stenta a persuadersene chiunque ha viaggiato fra i musulmani. Memorie Vol 1° Cap. 17 nota 2a a p. 151

Quel giovane era figlio di una schiava di Degiace Gosciò; come figlio di schiava era probabilissimamente figlio naturale del padrone; con tutto ciò, come figlio di schiava, se il padrone non ha dichiarato libera la sua madre, e publicamente riconosciuto il figlio, egli non lascia di essere schiavo di casa, secondo gli usi del paese. In questo caso però, tanto il figlio che la madre possono essere sicuri di non essere venduti ai mercanti. Il rubarizio di questo giovane è succeduto nel tempo in cui dimorava Arnou d’Abbadie, detto in Abissinia Ras Michele, [dimorava] in casa di Degiace Gosciò; il giovane in discorso mi parlò molto di lui. Memorie Vol 1° Cap. 17 nota a p. 151

[Torna al testo ]