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Fregio

La donna velata con la Croce rappresenta la Religione.

Capo VII.
Entrata in Abissinia.

Memorie Vol. 1° Cap. 6.
Ottobre - dicembre 1846
Massauah, Umkullu, Gualà e altre località dell’Eritrea e del Tigrè

1. Strettezze del De Jacobis e sua profezia. — 2. Rinvio dèi giovani con lettere e denari. — 3. Gran pietà della famiglia Degoutin. — 4. Arrivo del De Jacobis. — 5. Incontro. — 6. Zelo del De Jacobis, e premure verso di noi. — 7. Nostra ammirazione per De Jacobis. — 8. Disposizioni pel viaggio. — 9. Discesa in terra ferma e scoperta del balsamo. — 10. Contratto interminabile pel viaggio. Nel testo: Umkùlla M.P. — 11. Da Umkùllu ad Arkìko. — 12. Da Arkìko alle alture del Tarànta. — 13. Arrivo sull’altipiano; profezia dei Padri Cesare e Felicissimo. — 14. Ad Hallài; primi cattolici — 15. A Tukùnda; tradizioni abissine sull’Arca del Testamento. — 16. Macello cristiano e macello mussulmano; ragazzi che mangiano carne cruda. — 17. Ragioni per cui è vietato ai cristiani il mangiar carne mussulmana. — 18. Odio dei mussulmani contro i loro apostati. — 19. A Zaquarò ed a Gualà.

Capolettera E

Eravamo impazienti di sentire dai due giovani notizie del signor De Jacobis; ma non comprendendo la lingua abissina, madama Degoutin ci faceva da interprete, o meglio da narratrice. — Questi due giovani, essa diceva, sono stati mandati più volte nel corso dell’anno dal signor De Jacobis, per farci sapere che, non avendo ricevuto da più tempo dall’Egitto né denaro, né soccorsi, né lettere, si trovava in grandi strettezze. Da parte nostra in quest’anno si è fatto quanto si è potuto per soccorrerlo; finalmente, non potendo altro, mio marito risolvette, or fa quindici giorni, di partire per l’Egitto, affin di togliere d’impiccio il Prefetto e la Missione. Rimandati questi giovani tre settimane sono, eccoli di nuovo presso di noi. Confesso che al rivederli in sulle prime mi sono inquietata; poichè non avrei potuto far nulla per ciò che venivano a chiedere: ma /52/ poichè la necessità non ha legge, ed io riguardo il signor De Jacobis come un Santo, ho detto poi: il Signore provvederà. Questa mia fiducia si accrebbe maggiormente quando intesi che il signor De Jacobis prima di partire avea detto ai due giovani: Andate tranquilli, figli miei, e vi assicuro che ritornerete con le mani piene, trovando colà più di quello che non pensate. Quindi, proseguiva Madama, rimisi nelle mani di Dio i bisogni del santo Prefetto. Quando poi stamattina ho veduto da lontano spuntare una barca, e poco dopo ho sentito che desiderava parlarmi il Governatore, ho detto fra me stessa: Con i Santi non si burla. E già questi giovani, che pel Prefetto hanno una venerazione straordinaria, a vista di ciò, cominciarono a gongolare di gioja, credendo avverate le parole del loro Padre. — Io poi ed i miei compagni restammo meravigliati in sentir tutto questo; poichè nessuna notizia era potuta giungere per via ordinaria al signor De Jacobis sul nostro arrivo e soccorso.

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2. Il signor Leroy, Prefetto dei Lazzaristi, mi aveva consegnato in Egitto una cassetta pel signor De Jacobis, contenente tremila talleri di Maria Teresa, vale a dire più di quindicimila lire. Questa cassetta, essendo sigillata, non volli aprirla: ma, presi mille talleri della nostra Missione, li consegnai ai due giovani con una lettera pel signor De Jacobis. In essa gli dava conoscenza del nostro arrivo, e lo pregava di mandarci le opportune istruzioni e sicure scorte per andare da lui in Gualà, o dove egli avesse voluto; giacché noi da quel giorno ci dichiaravamo pronti ai suoi cenni. Così la dimani Partono i due giovani: 2.11.1846
A.Rosso
i due giovani Tekla Haimanòt e Walde Ghiorghis (1) partirono contenti per Gualà, dove il Prefetto li attendeva. Questo paese era distante circa sei giorni da Massauah, e computando altri sei pel ritorno, e forse altrettanti per apparecchiare le cose del viaggio, ci toccava aspettare un bel pezzo la loro venuta.

... una cassa contenente tre mille talleri di Maria Teresa, vale a dire più di 15. mille franchi... Memorie Vol. 1° Cap. 6 p. 44

Gualà ጓልዓ Gʷalʿa, villaggio a 3 km a est di Adigrat, regione del Tigrè (la mappa del Cozzani la colloca un po’ troppo lontana, e un po’ più a Sud).
Giustino de Jacobis vi acquistò dal per 100 talleri una concessione, e nel 1845 la locale chiesa di San Giovanni fu consacrata al culto cattolico: la prima chiesa cattolica consacrata in Etiopia in età moderna. Recentemente la chiesa è stata restaurata e intitolata a San Giustino de Jacobis.

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3. Questa lunga e nojosa aspettazione ci veniva in parte addolcita dalla famiglia Degoutin, la quale lasciò terra ferma, e venne a dimorare nell’isola per tenerci compagnia ed assisterci. Non passava giorno che non ci mandasse qualche cosa da mangiare, e di ciò che potevamo avere di bisogno. Tanto la madre, quanto le due figlie che avea, erano educatissime e di una grande pietà; provavano poi una contentezza indicibile nel potere ascoltare ogni giorno più Messe. Le due figlie chiamavansi Melania e Lucietta, e per i loro angelici costumi e non comune bellezza, /53/ formavano l’ammirazione di quelle barbare spiagge. Educate in monastero, inclinavano alla vita monastica, segnatamente Melania, e certamente sarebbero state due gigli graditissimi al Signore.

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4. Approssimandosi frattanto il tempo di veder comparire qualcuno dall’Abissinia, i nostri occhi erano sempre rivolti a quella parte; e stavamo lì come chi aspetta con ansietà una buona novella. Ora, mentre passavamo i giorni in questa ansietà, ecco all’improvviso comparire il giovane Tekla, corso prima ad annunziarci che il signor De Jacobis era venuto egli stesso, e che fra poco sarebbe arrivato. Udito ciò, noi e la famiglia Degoutin fummo tosto in moto per andargli incontro, disposti anche di passare il mare. Ma giunti al lido: — Eccolo, disse Tekla, eccolo là sulla barca, che viene verso di noi. — Arrivo di De Jacobis: 26.11.1846
A.Rosso
E veramente una barca si avanzava con otto o dieci persone, uno dei quali portava un parasole di paglia, e vestiva semplice tela bianca come tutti gli altri. Di mano in mano che si avvicinava, ci sembrava il più malvestito di tutti; e se alla figura ed al colore non si fosse mostrato per un Europeo, niuno di noi avrebbe detto essere quello il Prefetto della Missione Lazzarista.

Incontro di Monsignor Massaja e del signor De Jacobis a Massauah
Incontro di Monsignor Massaja e del signor De Jacobis a Massauah.

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5. Appena sbarcati, egli il primo, e dopo di lui tutti gli altri, alla presenza di quei mussulmani, mi si gettarono ai piedi. — Passi, gli dissi io sollevandolo, per tutti gli altri; ma Ella è nostro Superiore. /54/ — Troppo giustamente, rispose, le è dovuto l’atto che facciamo; dovuto perché assai la desideravamo, dovuto ancor più al pensare che, da oltre tre secoli, niun Vescovo cattolico ha mai più calpestato questo terreno abbandonato da Dio: ed oggi comincio a sperare che sia giunta l’ora di misericordia per questi poveri meschini. — E lì ci abbracciammo con grande effusione di cuore, e con pari contento ci avviammo alla casa. Madama Degoutin e la sua famiglia, baciategli le mani, ci seguivano con non minor contento, e per quel giorno volle pensare essa al pranzo, ed a tutto ciò che poteva aver bisogno quella comitiva.

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6. Giunti a casa e preso il caffè, mentre si conversava, il signor De Jacobis mi domandò il permesso di fare una conferenza a tutti coloro che si trovavano presenti: — Poichè, diceva, bisogna profittare del breve tempo, che io mi trattengo in queste parti, per istruire i pochi neofiti che vi sono, ed amministrar loro i Sacramenti. — Il vero Apostolo non ha altro pensiero che la salute delle anime, e così faceva il De Jacobis. Indi pregò madama Degoutin di fare avvertire quelli che erano nell’isola, di radunarsi ad Umkùllu in terra ferma, dove egli si sarebbe recato, e dove i suoi allievi lo avrebbero ajutato nel santo ministero. Accomiatati poscia tutti, e rimasti soli, parlammo degli affari nostri, della morte di Gregorio e della elezione di Pio IX, cose che egli ignorava. Gli consegnai tutte le lettere, che portava per lui, ed i soccorsi mandatigli dal signor Leroy. Egli mi parlò degli ordini dati pel nostro viaggio, di cinque muli comprati per noi, e di altre cose che c’interessavano. Poi mi pregò di aver pazienza per alcuni giorni; giacché egli doveva soddisfare ai doveri del suo ministero in Massauah e luoghi vicini. De Jacobis torna a Umkùllu: 1.12.1846
A.Rosso
Di fatto, passata la notte con noi per discorrere ed informarsi delle cose di Europa, e lasciatici due dei suoi giovani per servirci, e più per farci gli involti secondo l’uso del paese, la mattina partì per Umkùllu, dove lo seguì anche madama Degoutin e la sua famiglia.

Umkùllu እምኩሉ Ǝmkullu o Monkullo, località della costa di fronte all’isola di Massauah; oggi è assorbita nell’insieme urbano di Massauah.

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7. Rimasti soli, sentivamo tutti il bisogno di esprimere a vicenda la grande impressione, che ci avea fatto la vista di quel sant’uomo. Noi già avevamo sentito molte cose intorno alla sua vita apostolica da madama Degoutin; ma ciò che vedemmo coi nostri occhi sorpassò ogni elogio. Uno esaltava la sua umiltà, un altro il suo raccoglimento, chi il suo zelo, chi questa, chi quella virtù; e tutti ringraziavamo Iddio per averci fatto trovare un tal modello di apostolo, prima di entrare nel campo del nostro apostolato. — Che Iddio benedica il nostro viaggio sino a Gualà, dissi io, e là pregheremo questo sant’uomo a farci un /55/ corso di spirituali esercizj. Che ne dite? — E tutti applaudirono la mia proposta.

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8. Mentr’egli in Umkùllu occupavasi nell’apostolico ministero, noi disponevamo il nostro bagaglio sotto la guida di Walde Ghiorghis, il quale, prendendo gli oggetti che gli presentavamo, li avvolgeva e li riduceva in piccoli e grandi involti, proporzionati o alla forza dei portatori, o ad esser caricati sulla schiena dei bovi e degli asini, secondo la diversa qualità degli oggetti. In quei paesi non si parla di carri, di vetture, di sacchi; ma di trasporti a spalla di uomini, o a dorso di animali, e quasi tutto messo dentro pelli di pecora o di capra, le quali, conciate intiere, servono a ricevere grano, butirro ed anche acqua. Frattanto incominciavano a scendere dall’Abissinia i portatori, accaparrati dal De Jacobis con i muli che dovevamo cavalcare, e dalle tribù dei paesi bassi gli asini e i bovi da carico.

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9. Il signor De Jacobis ci aspettava ad Umkùllu, dove aveva apparecchiato una bella funzione, e madama Degoutin una lauta refezione. Quindi verso l’alba del giorno stabilito per la partenza, lasciammo Massauah e ci dirigemmo a quel paese, e per la prima volta mettemmo il piede su quel continente africano, che era destinato a campo del nostro apostolato. Ivi giunti, si tenne solenne Pontificale con i paramenti sacri, che avevamo portato dall’Europa, si amministrarono parecchi Battesimi e qualche Cresima. Dopo la refezione si volle fare una gita per quelle campagne, accompagnati da alcuni giovani abissini. Girando per quelle colline, uno dei giovani, arrampicandosi su, svelse un ramoscello da un arbusto, ch’egli conosceva, e me lo portò, perché l’odorassi. Al vederlo mi sembrò simile al ramoscello del balsamo che aveva portato da Gedda. Tosto mi avvicinai alla pianta, ed osservatala attentamente, e rompendone alcuni rami, vidi che mandava un succo gommoso con lo stesso odore del balsamo: non vi era più dubbio, la pianta era la stessa, l’odore il medesimo, e quindi pel balsamo non si aveva più bisogno di ricorrere all’Arabia. Ritornati a casa, riferii al De Jacobis la scoperta; e, mettendo fuori la boccetta ed il ramoscello che io aveva portato da Gedda, se ne fece il confronto con la pianta scoperta, e trovammo ch’erano di una perfetta somiglianza. Il signor De Jacobis era al colmo della gioja, volle andare a vedere la pianta, e confrontarla sul luogo. Non essendovi alcun dubbio, ne raccolse una buona quantità con intenzione di mandarne una parte in regalo a Roma.

Il cd. “balsamo della Mecca” è una resina odorosa prodotta dalla Commiphora gileadensis, in passato denominata Commiphora opobalsamum

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Cozzani vol. 1 p. 26
Cozzani, vol. 1 p. 26

10. Eravamo già tutti pronti a partire; e, giunti i muli ed i portatori, non restava che stabilire il prezzo da dare ad essi. Affare nojosissimo è questo sulle coste africane, e da non potersi sbrigare in poche ore. Ecco /56/ la semiseria scena, cui ci toccò assistere nel fare il contratto. Posti in fila tutti gli involti, i portatori li andavano maneggiando e pesando or l’uno or l’altro, e si ritiravano dicendo, o meglio, fingendo, di non poterli portare, perché pesanti. Ritornavano una seconda, una terza ed anche una quarta volta a far la stessa operazione, e, confabulando fra di loro e col capo della carovana, si accostavano a noi chiedendo un aumento di prezzo, e minacciando di andarsene via. Noi eravamo sgomentati; ma il signor De Jacobis, che ben li conosceva, ci fe’ segno di stare zitti e di lasciar fare. Finalmente verso sera si potè conchiudere il contratto; eglino ci diedero la sicurtà, e noi destinammo due nostri giovani a prender nota dei loro nomi, numerare gli involti, ed accompagnarli lungo la via. Ciascun di noi si prese un mulo con un giovane per compagno, ed il signor De Jacobis ci consegnò il nostro letto da viaggio, cioè, una pelle conciata da stendere per terra, una coperta di doppia tela di lavoro abissino, e per capezzale un piccolo sacco con dentro le camicie per mutarci nel tempo del viaggio. Ecco il fardello del Missionario apostolico in Africa.

... Così camminano gli uomini apostolici. Memorie Vol. 1° Cap. 6 p. 47.

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Partenza da Umkùllu: 8.12.1846
A.Rosso
11. La mattina, se non erro, del 21 Novembre, celebrata la santa Messa, e fatta un po’ di colazione, lasciammo Umkùllu, bello non per altro, che per i suoi pozzi di acqua dolce, la quale ogni giorno è mandata all’isola di Massauah per quei signori, che, avendo danaro, possono comprarla; laddove l’umile gente beve quella che viene in barca da Arkìko, un po’ salmastra, ma più a buon prezzo. Giungemmo ad Arkìko verso sera, e vi passammo la notte. Questo paese, chiamato anche Dehonò, è sede del Nahib, ossia capo o regolo, che governava allora tutte le tribù nomadi di terra ferma sino alle alture dell’Abissinia. Anticamente questo regolo riceveva l’investitura dall’Imperatore d’Abissinia, a cui pagava un tributo; ma dopoché anche i Turchi stabilirono un Governatore con presidio militare in Massauah, dovette pagare pure ad esso il tributo, per mantenere la sua indipendenza; indipendenza però precaria, perché contesa dai due grossi Governi, e spesso motivo di litigi fra di loro. Noi intanto fummo costretti a fermarci la sera e la notte in Arkìko per regolare i nostri conti col detto Nahib, o meglio per pagargli un tributo e prendere da lui le guide di accompagnamento, giacché senza di esse non si potrebbe viaggiare tra quelle tribù erranti, benchè il signor De Jacobis vi fosse conosciuto, ed avesse già incominciato ad esercitare in mezzo a loro il suo ministero. Il Nahìb ci regalò un bue ed un otre di miele; regali, s’intende, che, secondo l’uso del paese, si devono contraccambiare con qualche cosa di più. La sera stessa si ammazzò il bue, del quale, presa una piccola parte /57/ per noi, il resto fu distribuito alla carovana, che contava una sessantina di persone.

Arkìko ሕርጊጎ Ḥərgigo è un centro della costa eritrea a circa 10 km a sud di Massauah. È nota anche come Däḥono, termine che nelle lingue Saho-Afar significa “elefante”, alludendo all’importanza che aveva la località nel commercio dell’avorio.

Nahib arabo نائب nāʾib amarico e tigrino ናይብ nayb è un termine amministrativo arabo e turco che significa “delegato”, “vicario”; indicava tra il XVII e il XIX secolo un governatore locale della costa eritrea. Tale carica era nelle mani di una dinastia ereditaria, appartenente al gruppo etnico Balaw, formatosi nella zona di Suakin (costa sudanese del Mar Rosso) dalla fusione di elementi arabi ed elementi del locale gruppo etnico Beǧa.

I N. godettero quasi sempre di una notevole autonomia dal governo ottomano, resistendo alle pretese di turchi e poi egiziani di esercitare un effettivo controllo sulla provincia dell’Ḥabeš (→ Abissinia). Seppero però abilmente sfruttare i rapporti con il centro amministrativo e religioso della Mecca per diffondere l’islam nelle regioni del nord, fondando confraternite (tariqa) legate al sufismo.

Dall’altra parte, i N. si opposero alle pretese dei governi tigrini ed amarici di stabilizzare la loro autorità sulle zone costiere. Sotto questo aspetto, una recente interpretazione vede nel governo dei N. il primo germe di una identità nazionale eritrea.

In età moderna N. divenne nome di famiglia dei discendenti della dinastia. Il governo coloniale italiano utilizzò il prestigio residuo di questi personaggi affidando loro alcune responsabilità amministrative.

Benché tra selvaggi e ladri, eravamo però sicuri di non essere assaliti, e assassinati, – perché avevamo la guida presa in Archeco capo paese di tutte queste tribù, e residenza del Naìb loro Re, o Superiore – La guardia presa da queste tribù medesime è risponsa[bi]le presso il Naìb di tutto quello che potrebbe occorrere – e le tribù devono rispettare questo Naìb, perché altrimenti egli chiude loro il commercio col porto di Archeco, e Massauua, dove possono esitare le loro produzioni per provedersi grano ed altro occorrente per vivere – Per avere questa guida una volta il Naìb faceva pagare somme enormi, arbitrarie alle carovane dell’Abissinia; ora dietro l’impegno del Console Francese di Massauua presso la Porta fu levata quest’angarieria, e si spera perciò che per l’avvenire il commercio dell’Abissinia con Massauua si aumenterà, e vi sarà maggior commodo anche per le corrispondenze Lettere vol. I n. 61, a Padre Venanzio Burdese, Gualà 10 febbraio 1847

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Cozzani vol. 1 p. 28
Cozzani, vol. 1 p. 28

12. La mattina, per tempissimo, partimmo da Arkìko per evitare il sole ardente che brucia ed inaridisce quella pianura; e verso le undici arrivammo ad un torrente, che scorreva fra mezzo a grossi alberi. Li si apparecchiò un pranzetto un po’ all’europea ed un po’ all’araba, cioè, con alcune vivande portate da noi dall’Europa, con carne arrostita sui carboni, e acqua mescolata col miele. Verso le tre di sera ci rimettemmo in viaggio per passare la notte vicino ad un altro torrente, dove si avrebbe trovato erba per i nostri muli. I pastori nomadi di quei luoghi ci regalarono del latte, e qualche agnello. Partiti di là, seguitando lo stesso torrente, quasi sempre fra mezzo a due montagne vulcaniche, in tre giorni arrivammo appiè del Tarànta; la gran montagna che serve di ertissima scala all’altipiano del Tigrè, regno al Nord dell’Abissinia, e governato allora dal Re Ubiè. Appiè di questa montagna passammo la quinta notte dalla nostra partenza da Umkùllu. E poichè il declivio della montagna versava a perfetto Levante, per non avere il sole sul dosso, pria di far giorno partimmo. I precipizj erano molti, e più della metà del cammino si dovette fare a piedi. A due terzi della montagna, in un ripiano coperto di verdura, ci riposammo per refocillarci e per pasturare i muli, che da due giorni non /58/ aveano trovato erba. A quell’altezza la vegetazione cominciava a presentarsi deliziosa, e molto più agli occhi nostri, che, dopo il delta dell’Egitto, avevamo sempre camminato fra campagne e paesi arsi dal sole. Di mano in mano però che si saliva, il freddo si faceva sentire sempre più intenso, tanto che il signor De Jacobis ci avvertì di metterci una seconda camicia prima di arrivare alla sommità della montagna.

Tarànta: margine roccioso che separa le alte regioni dell’Akkälä Guzay ኣከለ ጉዛይ dalle profonde valli che conducono verso il mare. Il nome non compare nei moderni repertori, ma la località è ben riconoscibile nella mappa allegata a: Cap. Antonio Cecchi, L’Abissinia settentrionale, le strade che vi conducono da Massaua, Milano Fratelli Treves Editori, 1888. La descrizione sembra corrispondere all’altopiano del Qoḥayto ቆሓይቶ .

Re Ubiè (altrove qualificato come ras, più propriamente degiasmac) ውቤ ኃይለ ማርያም Wəbe Ḫaylä Maryam. Nacque nel 1799, figlio di degiasmac Hayle Maryam Gabre signore del Semien. Nel 1831 ottenne il governatorato del Tigrè attraverso l’eliminazione di degiasmac Sabagadis. Tentò di utilizzare l’attività dei missionari, prima i protestanti anglicani, poi i cattolici italiani e francesi, per stabilire regolari rapporti con le potenze europee in modo da ricevere tecnici, artigiani e tecnologie militari. Nel 1840 riuscì a far arrivare in Etiopia Salama per ricoprire la carica da lungo tempo vacante di abuna. A questo punto ritenne di poter estendere la sua autorità su tutta l’Abissinia, entrando in conflitto con ras Ali, ma non ebbe successo e dovette accordarsi con lui. Deluso nelle sue speranze di ottenere un appoggio dalla Francia, rispose con l’espulsione dei missionari cattolici. Quando scoppiò il conflitto fra Ras Kassà e Ras Ali, U. rimase fedele al secondo; nel 1855 fu sconfitto nella battaglia di Däräsge da Kassà, che si proclamò imperatore con il nome di Teodoro. U. passò i suoi ultimi anni prigioniero nella fortezza di Magdala, dove morì nel 1859.
Il tentativo di assumere il controllo dell’Abissinia fu ripreso in seguito dal nipote Negussiè.

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Arrivo sull’altopiano, e ad Hallai: 13.12.1846
A.Rosso
13. Verso le due ripigliammo il cammino, ed in meno di un’ora giungemmo alla cima del Tarànta: ed allora per la prima volta ci fu dato contemplare in tutta la sua grandezza e maestà il vasto piano dell’Abissinia. Il P. Cesare ed il P. Felicissimo, rapiti da quel magnifico orizzonte e da quell’aria balsamica, si misero a cantare il versetto del Salmo «Hæc requies mea.» Ed il Signore pare che li abbia esauditi: poichè, di cinque Missionari che eravamo, essi due soli non rividero più l’Europa, e lasciarono la loro vita in quelle regioni, essendo morti tutti e due in Kaffa; il P. Cesare nel Febbrajo del 1860, ed il P. Felicissimo, divenuto poi Vescovo, nel Febbrajo del 1877.

Haec Requies Mea
Hæc requies mea.

Hæc requies mea in sæculum sæculi; hic habitabo, quoniam elegi eam. Psalm. 131, 14.

Salita questa famosa montagna alta circa sette mille piedi sopra il livello del mare, si vidde la prima volta il vero orizzonte Abissinese, poco presso tutto a quest’altezza – Si affacciò un piano bellissimo, si fece sentire un’arietta fresca e pura che ci ricreò – che bell’aspetto ha l’Abissinia per chi sorte dal mezzo di quelle montagnaccie! pare di entrare in un nuovo mondo – Lettere vol. I n. 61, al Padre Venanzio Burdese, Gualà 10 febbraio 1847

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14. Salita la montagna, il più era fatto. Un’ora ed alcuni minuti dopo entravamo in Hallài, primo villaggio abissino e punto di frontiera, donde le guide dateci dal Nahib di Arkìko dovevano ritornare con gli altri uomini dei paesi bassi, che ci avevano accompagnati con i loro bovi. In Hallai il signor De jacobis avea fatto un po’ di bene, e vi erano già parecchi cattolici, i quali ci ricevettero con segni di grande gioja. Fummo ospitati da un ricco cattolico, il quale teneva molto bestiame, segno di opulenza in quei paesi. Egli, appena entrati in sua casa, ci offrì un gran vaso di birra, e ne fu distribuita un corno (1) a ciascuno. Il signor De Jacobis, già accostumato a quella bevanda, se la bevette con piacere: ma noi, non ancora avvezzi, dovevamo farci violenza, non solo per la qualità della birra, tuttora in fermentazione e carica di farina e di crusca, ma anche per cagione del corno, che, sebbene lavato, ci faceva un po’ di nausea. Accortosene il De Jacobis, ci fece portare del latte in abbondanza, che bevemmo volontieri. Dopo, il padrone di casa ci regalò un bue, che subito fu ammazzato e distribuito alla carovana.

Hallai ሐላይ Ḥalay, era il primo villaggio dell’altpiano che incontravano i viaggiatori provenienti dal Mar Rosso; rappresentava anche l’estremo limite del dominio Amhara di fronte all’espansione ottomana.
Molti abitanti della zona furono convertiti al cattolicesimo dal De Jacobis, che morì nei pressi del villaggio.
Nel 1889 Menelik, con il trattato di Uccialli, riconobbe l’inclusione di H. nella colonia Eritrea.
Nel 1894 H. fu teatro di una rivolta contro il dominio coloniale; in seguito alla repressione, molti abitanti tornarono alla confessione copta.

Bicchieri
1 Bicchiere di corno. — 2 Custodia di bicchieri. — 3 Vaso per acqua. — 4 Vaso per birra. — 5 e 6 Corni per birra e idromele. — 7 Vaso per idromele. — 8 Cucchiajo di corno.
Nomi abissini: 1 Uancia. — 2 Biltt. — 3 Rukòl. — 4 e 7 Gumbò. — 5 e 6 Chent. — 8 Manca.

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15. In Hallài fu necessario trattenerci un giorno, primo per trovare e contrattare altri portatori in mancanza di quelli che erano ritornati, e questo, come si è detto, in Abissinia è un affare fastidioso e lungo; secondo perché il signor De Jacobis aveva da compiere qualche atto del /59/ sacro ministero. arrivo a Tukunda 16.12.1846
A.Rosso
Fatto tutto, il giorno appresso si partì per Tukùnda, altro villaggio più al Sud, ma sempre sui limite dell’altipiano.

Tukunda ቶኾንዳዕ Toḵondaʿ villaggio e sito archeologico dell’Eritrea, regione dell’Akkala Guzay.

Nelle tradizioni abissine vi è che l’Arca Santa del Testamento sia stata portata in Abissinia da alcuni Israeliti di stirpe sacerdotale, fuggiti al tempo della schiavitù babilonica; e che sia passata per Tukùnda, ed ivi nascosta qualche tempo prima di essere trasportata in Aksum, nel cui santuario restò per l’avvenire. Di esservi state emigrazioni israelitiche in Abissinia, o direttamente dalla Palestina, o più verisimilmente dalle colonie egiziane, ne abbiamo fondati indizj, non solamente nelle tradizioni, ma in parecchie usanze popolari e nei dialetti del Sud: ma in quanto alla storiella dell’Arca, essi raffermano, senza però darne una prova, e mostrarne il luogo dov’ella fosse stata riposta.

La tradizio[ne] dell’Arca del testamento venuta in Abissinia è pura tradizione abissina senza una base storica di qualche valore. Essa potrebbe essere vera, ed anche, se si vuole con qualche probabilità, perché nel tempo che disparve regnava la guerra e Gerusalemme si trovava in preda del pigliagio: l’Abissinia poi in quel tempo era forze l’unico paese, dove regnava il culto mosaïco, già introdotto molti secoli prima. Tuttavia [non] sarà mai un fatto storico provato con qualche fondamento. Giova sapere però, che il forestiere deve guardarsi dal contradirlo, se non vuole esporsi a qualche persecuzione. Si dice che si trova in Aksum nel santuario di questo nome, ma nessuno l’ha veduto; non solo i forestieri, ma gli stessi Vescovi abissini non sono ammessi a vederla. Alcuni suppongono che per causa della guerra, essa si trovi nascosta sotto terra. Io ho parlata con delle persone le più gravi in Abissinia, le quali credono come di fede il fatto, ma ne sanno anche essi un bel nulla. Nell’ipotesi che sia venuta sarebbe probabilissimo che sia passata a Tukunda, e che abbia dovuto rimanere qualche tempo. Memorie Vol. 1° Cap. 6 nota 1 a p. 49.

La città di Axum o Aksum አክሱም nel Tigrè ha dato il nome al primo impero etiopico, sorto intorno al IV sec. a.C., che nel periodo di massimo sviluppo arrivò a controllare una vasta regione dell’Arabia meridionale, e declinò a partire dal VII secolo circa.
A. è tuttora un grande centro religioso della chiesa nazionale etipica. Nella chiesa della Nostra Signora Maria di Sion sarebbe custodita l’Arca del Testamento.

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16. Anche a Tukùnda fummo ospitati da un cattolico, che ci ricevette con grande suo piacere, ed al solito ci regalò un bue, che rifiutammo, non avendone bisogno; accettammo invece una pecora ed una capra. Qui essendomi a caso trovato presente mentre i giovani ammazzavano la pecora, vidi una cosa che mi fece molta impressione. Alcuni poveri ragazzi, prese le budella, se le dividevano fra di loro, e tali e quali, senza neppur lavarle, spremendone con le dita solo gli escrementi, se le divoravano ancor /60/ fumanti. Poco più lungi altri giovani della nostra carovana macellavano la capra, e, domandando io perché non facessero comunanza, mi risposero che quelli, essendo mussulmani, non potevano mangiare carne macellata dai cristiani, come ad essi era proibita mangiarne della macellata dai mussulmani; ritenendosi ciò come una professione di fede.

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17. Vi fu tra di noi chi lì per lì criticò questa pratica dei cristiani abissini di non mangiar carne scannata dai mussulmani, sulla considerazione che ciò sarebbe un favorire le loro superstizioni. Ma meglio riflettendo, e studiata un po’ la pratica ed il suo religioso significato, ci fu forza conchiudere il contrario, e per più ragioni. La prima pel pericolo di scandalo che si darebbe agli altri cristiani ed ai mussulmani medesimi, a causa del significato, che in quei luoghi si dà ad una tal pratica. — Poichè, diceva io, credendo il pubblico che col mangiare carne scannata dai mussulmani, diventiamo mussulmani anche noi, ci troviamo, nello stesso caso dell’Apostolo quando scriveva «Si esca scandalizat fratrem meum, non manducabo carnem in æternum.» — Un’altra ragione che consiglia di tollerare quest’uso si è, che i cristiani di Abissinia (intendo gli eretici) essendo cristiani di pura abitudine, e solamente per alcuni atti esteriori, i quali, anziché effetti di fede e di convinzione, sono segnali di casta; se si togliesse loro la pratica di queste materiali osservanze, nulla rimarrebbe in essi di cristianesimo, e quindi più difficile sarebbe il loro ritorno alla fede. Più, se a tali cristiani si permettesse l’uso della carne mussulmana, poco per volta si assuefarebbero alle altre pratiche dell’islamismo, e divenuti mussulmani, anche solo esteriormente, non potrebbero più ritornare al cristianesimo, senza incorrere gravi pericoli, anche della vita: poichè i mussulmani sostengono la loro setta non con la persuasione, ma con la violenza; e minacciano di odio e di morte chi se ne allontana (1).

Lo stesso [argomento] muta per i mussulmani per obligargli a mangiare la carne uccisa dai Cristiani prima di essere convinti in favore della fede Cristiana, perché operando contro conscienza farebbero peccato, e noi non possiamo direttamente concorrervi. Questa ragione serve ancora per non disprezzare gli infedeli troppo direttamente, quando in buona fede fanno qualche atto superstizioso prima di conoscere la fede cristiana. Gli Apostoli quando hanno comandato ai Cristiani di astenersi dagli idolotiti erano senza dubbio [indotti da] simili ragioni estrinseche. Memorie Vol. 1° Cap. 6 pp. 50-51.

Quapropter si esca scandalizat fratrem meum, non manducabo carnem in æternum, ne fratrem meum scandalizem 1Cor. 8, 13

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18. Quando si dice (com’è voce generale) che un mussulmano fatto cristiano, non è più padrone della sua vita, non deve intendersi ch’egli da qualche decreto del Governo sia condannato a morte: ma sibbene ch’egli trovasi sempre esposto all’odio implacabile dei suoi abbandonati correligionarj. E quest’odio, che ha la sua prima origine nelle feroci istru- /61/ zioni del Corano, il quale raccomanda di sterminare gl’infedeli, è poi accresciuto mercè l’educazione. Dappoiché sin da fanciulli viene loro insegnato che gran merito si acquista il mussulmano il quale uccide cristiani, e segnatamente quei cristiani, che hanno abbandonato l’islamismo. E da ciò quelle terribili guerre, che per più secoli insanguinarono l’Oriente e l’Occidente. Da ciò ancora uno dei più grandi ostacoli per la conversione dei seguaci di Maometto. Negli ultimi viaggi principalmente, da me fatti in Oriente, mi sono accorto che questa stessa educazione mussulmana all’odio ed alla vendetta contro i loro apostati, comincia ad introdursi anche fra i Greci contro i Latini. E ciò non mi fa meraviglia; poichè è proprio di tutte le sètte, che, non potendosi sostenere con la persuasione, cerchino predominare e sopraffare con la forza e con l’inganno. In sostanza è sempre il medesimo principio tanto fra i mussulmani, quanto fra i pagani, i Greci, i Russi, i protestanti e gli stessi Abissini.

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19. Dovendo ripigliare il nostro viaggio, in Tukùnda cercammo una guida per attraversare un piccolo deserto, dove i nomadi Taltàl fanno continue scorrerie. Passato questo senza essere molestati, la sera ci fermammo in una piccola borgata presso un prete eretico, amico del De Jacobis; e proseguendo il cammino, arrivo a Zaquarò, 17.12.1846,
e a Gualà, 19.12.1846
A.Rosso
la sera seguente arrivammo a Zaquarò (1), piccola città posta in bel piano circondato da colline, e ricco di verdi praterie; ivi le nostre bestie trovarono pascolo abbondante. Anche qui fummo ospiti di un buon neofito del De Jacobis, il quale al solito ci regalò carne, latte e pane. In due giornate da Zaquarò arrivammo comodamente a Gualà, dimora ordinaria del nostro santo Prefetto (2). L’ora era tarda, e la sua numerosa famiglia recitava insieme le preghiere della sera, ed entrammo in casa mentre le terminavano col canto del Pater noster in lingua abissina ed in tono italiano. Quell’accordo di varie voci, in mezzo alle quali spiccavano graziose ed argentine quelle di piccoli ragazzi, ci sembrò un’armonia celeste, ed il nostro cuore, intenerito, si elevò a dolci e cristiane speranze.

deserto ... nomadi Taltàl
La depressione ʿAfar è una profonda spaccatura appartenente al grande compleso tettonico della Rift Valley. Il punto più basso è il Lago Assal, 155 metri sotto il livello del mare. È una delle zone più aride e calde del globo, clima reso ancora più inospitale dalle emissioni di gas vulcanici. Ha però grande interese economico a causa dei giacimenti di sale, che, tagliato in blocchetti, veniva venduto in tutta l’Africa orientale, fungendo anche da moneta.
Il popolo ʿAfar è denominato anche Adäl, Dankal/Denakil o Ṭənṭal/Ṭəlṭal.

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[Nota a pag. 52]

(1) Io mi servo di questa W settentrionale in mancanza di altro segno più adatto per rappresentare alla meglio il suono del UA aspirato dalla lingua abissina, il quale in principio di parola suona come . onde Uualde. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 58]

(1) Generalmente i bicchieri, che colà si usano, sono di corno di bue, più o meno lavorati, ma sempre poco netti e puliti. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 60]

(1) Oltre a questi motivi, altri ancora militavano in favore della suesposta tolleranza; ed io dovetti convincermi che si avea ragione il signor De Jacobis di dire che il mangiar carne scannata dai mussulmani, era una quasi professione di fede mussulmana. Poichè il cristiano abissino scanna nel nome del Padre; il mussulmano scanna dicendo: lesmillà, cioè in nome di Dio uno, giusta il formulario della propria fede. Più, tanto gli uni quanto gli altri, intendono di fare un vero sacrificio secondo la legge mosaica, ed a vantaggio si dei vivi, come dei morti, ed anche per voto. È chiaro adunque che vi entra l’idea religiosa, e quindi sembra giustificata una tale astinenza. [Torna al testo ]

[Note a pag. 61]

(1) Zaquarò è capoluogo di una piccola provincia dello stesso nome, confinante con l’Agamien, dove eravamo diretti, e dove io rimasi oltre un anno per eseguire gli ordini ricevuti da Propaganda. La provincia dell’Agamièn era la patria di † 15.2.1831
A.Rosso
Degiace Sabagadis, quello stesso che avea regnato molti anni nel Tigrè prima di Degiace Ubiè.

Zaquarò: nella mappa del Cozzani la località, non altrimenti documentata, viene collocata a poca distanza da Senafè; ma la descrizione del M. sembra indicare piuttosto quest’ultima: ሰንዓፈ Sänʿafe in tigrino, Ḥakír in lingua Saho. Importante centro agricolo e commerciale, è capoluogo della sub-regione omonima.

Agamien tigrino ዓጋመ ʿAgamä amarico ዓጋሜ ʿAgame, regione storica del Tigrè; una delle più antiche regioni di sviluppo agricolo, e uno dei centri originari della civiltà aksumita. Le lingue principali sono il tigrino, l’afar e il saho; fra le etnie, gli Irobo, di lingua Saho, sostengono che fra loro nacque Makeda, la mitica regina di Saba.
L’A. fu anche uno dei primi centri di diffusione del cristianesimo; ed alle prime età cristiane risalirebbe la fondazione del monastero di Debra Damo. Il cristianesimo rimase forte anche durante l’espansione islamica, come testimonia il monastero di Gonda Gondi, fondato nel XV secolo.
L’A. fu un terreno fertile per la diffusione del cattolicesimo da parte dei missionari lazzaristi.
La capitale Aldegràd ዓዲግራት Addigrat era un centro del mercato del sale proveniente dalla vicina depressione Afar. Divenne politicamente importante soprattutto durante il governo di Sabagadis; in seguito decadde. Ridivenne un centro amministrativo sotto dominazione italiana.

Degiace Sabagadis ደጃዝማች ሰባጋዲስ ወልዱ däǧǧazmač Säbagadis Wäldu ca. 1780/5 - 1831, di etnia Irobo, fu il governatore del Tigrè dal 1822 al 1831. Dovette per lungo tempo lottare contro altri capi locali. Intorno al 1815 controllava de facto l’intero Agamien, e con la morte del suo principale rivale, Wäldä Śəllase dell’Ǝndärta, e la sottomissione di altri capi locali, fu riconosciuto come signore di tutto il Tigrè.
Presentandosi come difensore della cristianità contro l’espansione islamica, strinse alleanze con altri capi, come ras Ubiè, e reclamò la protezione del governo inglese. Contestò la legittimità del reggente imperiale Marəyye Yäǧǧu, appartenente ad una dinastia di origine Oromo, e accusato di proteggere i mussulmani, e gli mosse guerra con il suo alleato Ubiè. Quest’ultimo però all’ultimo momento defezionò, e si alleò con Marəyye. Il 14 febbraio 1831 vi fu uno scontro campale sanguinosissimo nelle vicinanze del monastero di Debre Abbay; nonostante la morte in combattimento di Marəyye, S. fu sconfitto; si rifugiò presso il suo vecchio alleato Ubiè, che però lo consegnò agli Oromo, i quali lo uccisero per vendicare la morte del loro capo. Seguì una situazione caotica, dalla quale infine Ubiè uscì come il vero padrone del Tigrè.

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(2) Qui il signor De Jacobis avea fermato la sua ordinaria residenza, inalzando la casa della Missione accanto ad una chiesa dedicata a S. Giovanni, e fabbricata da Degiace Sabagadis. Gualà era distante circa due chilometri da Aldegràd, antica residenza di Sabagadis. Il signor De Jacobis aveva preso possesso anche della chiesa suddetta, ed egli stesso l’amministrava. Ma essendo essa di forma abissina, e adatta al rito etiopico, non prestavasi per le funzioni latine; onde nell’interno il Prefetto vi avea inalzato una cappella dove dicevamo Messa, e facevamo le nostre funzioni di rito latino. [Torna al testo ]