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Capo II. Religione e politica
1. Partenza pel Piemonte. — 2. Un doloroso ricordo. — 3. Al mio paese. — 4. Ringraziamenti e congedo. — 5. Breve dimora a Torino. — 6. A Lione ed a Parigi. — 7. Notizie sull’Abissinia; proposta di una missione politica. — 8. D. Daniele Comboni a Parigi e la Missione dell’Africa Centrale. — 9. Visita all’Imperatrice ed al Principe Imperiale. — 10. Napoleone III ed i mussulmani. — 11. La mia grammatica ed i caratteri etiopici. — 12. I caratteri etiopici della tipografia di propaganda.
Terminate le funzioni di chiesa, pregai alcuni colleghi di far le mie scuse alla Magistratura, se non interveniva a quel solenne pranzo; poichè, dovendo recarmi in Piemonte, ed essendo venuti a prendermi alcuni amici e compatrioti, i quali ripartivano nella stessa giornata, era costretto allontanarmi da Marsiglia insieme con essi. partenza per Genova 6.6.1864 A.Rosso Di fatto messici sulla strada ferrata, ci avviammo a Nizza; donde la diligenza, in una notte di cammino, ci condusse a Genova. In questa città trovai il segretario di Monsignor Modesto Contratto, Cappuccino e Vescovo di Acqui, venuto espressamente per ricevermi e condurmi dal suo Prelato. Non minore desiderio aveva io di rivedere ed abbracciare quel mio caro confratello: ma, avendo promesso di trovarmi presto in Asti, dove mi aspettavano alquante persone del mio paese nativo, scrissi a Monsignore un’affettuosa lettera, con la quale lo ringraziava del gentile invito, e gli offriva le mie scuse. Per lo stesso motivo non potei trattenermi neppure un giorno in Genova; e con mio grande dispiacere dovetti lasciar da parte molte visite ad amici e benefattori, che da tanti anni non aveva /20/ veduti. Cosicchè, rimessomi sulla strada ferrata verso sera, giunsi di notte in Asti, alla cui stazione trovai il Canonico Polledro con molti altri sacerdoti della città.
Modesto (Luigi Eugenio) Contratto, O.F.M. Cap. vescovo di Acqui 1836 - 1868.
2. Avendo tutti desiderio di sentire la mia Messa, la mattina seguente fui invitato a celebrarla nella cattedrale, che quel buon clero, per fare onore al Missionario diocesano, aveva addobbato come nei giorni di festa. E la funzione riuscì alquanto solenne, sia per l’intervento di una gran parte del clero, e per il gran concorso della popolazione, sia per la scelta musica, che dal principio alla fine della Messa suonò dolci e sacre armonie. In tutto quel tempo però un doloroso ricordo amareggiava il mio cuore. L’immaginazione facevami vedere presente il catafalco, che in quella chiesa, Funerali di Guglielmo Massaja, Canonico della Cattedrale di Asti: 3.5.1833 A.Rosso nel giorno 3 Maggio 1832, era stato inalzato al defunto mio fratello maggiore Guglielmo Massaja, allora Curato della cattedrale. Egli per me era stato un secondo padre, e con amore di padre avevami avviato all’acquisto della pietà e della vera scienza; laonde mi era sì caro, che non poteva ricordarlo senza sentirmi inumidire gli occhi. Io aveva assistito al suo funerale, e dopo quel giorno di amaro lutto, allontanatomi da Asti, non aveva più visto né la cattedrale, né la città, né i numerosi amici. E dopo trentatre anni di assenza quanti cambiamenti da per tutto! Dei molti amici, che aveva lasciati, soli cinque vivevano, già vecchi e carichi di acciacchi; sicchè giunto colà, mi trovai come in paese nuovo e quasi quale un forestiero. A mezzogiorno vi fu pranzo solenne, con invito di molti ecclesiastici e di ragguardevoli secolari.
Come io non aveva più veduto da quel giorno di lutto, ne quella Chiesa, ne quella Città, ne tutti quegli amici, l’idea era in me tutta viva, eppure passarono 33. anni, e frà 25. amici di allora, appena tre esistevano ancora, divenuti tutti vecchi; era per me un vero sogno, di quelli che si riproducono nel uomo tutti i giorni, quando si mette davvero a contemplare il passato, benché in modo meno sensibile, quando non vi è stata una parentesi di assenza così lunga. Memorie Vol. 4° cap. 23 p. 200.
3. Levata la mensa, partii subito pel mio paese, donde erano venuti a prendermi alquanti ecclesiastici e secolari. Il clero d’Asti volle accompagnarmi sino alla porta della città, dove messomi in carrozza, mi avviai con i miei compaesani alla volta di Piovà. Nulla dico delle dimostrazioni di onore, con cui la popolazione del mio paese nativo mi accolse: quelle lunghe scampanate, quelle musiche, quegli spari mostravano quanto le povere mie fatiche sulta terra africana fossero apprezzate da tutti, e quanto Piovà fosse contenta di aver dato i natali al Missionario dei Galla. Ma anche qua, dopo circa mezzo secolo di assenza, tutto mi appariva nuovo; persone, strade, fabbricati e la stessa mia casa non mi sembravano più quali avevali visti e lasciati nei miei anni giovanili. Degli antichi miei compagni poi, con i quali andava a scuola e mi trastullava, ne trovai ben pochi, e tutti talmente invecchiati, che stentava a riconoscerli e rammentarne le prime fattezze. Ed io? Io era divenuto vecchio come loro, e forse un tipo mezzo europeo e mezzo africano. Non ho mai usato di /22/ portar meco lo specchio, e dal 1850 non aveva più visto la mia effigie riprodotta su quella lastra piombata. Giunto nel Novembre del 1863 a Massauah, e trovato nella nostra casa di Umkùllu un grande specchio, mi vi accostai; e vedendo la mia bionda barba mutata tutta in bianco, e la mia faccia solcata di rughe senili: «Apparecchiati alla morte, esclamai, Fr. Guglielmo; poichè la tua vita ha corso di gran galoppo.»
4. Messo piede adunque nel mio paese, circondato da quella immensa folla, mi recai pria di tutto alla chiesa principale. Oh! non nascondo che quel sacro tempio, che per la sua grandezza e proporzione artistica potrebbe adornare anche una città, mi fece una gradevole impressione; e più d’ogni altra cosa, il maestoso campanile, che elevasi sopra il Sancta Sanctorum, e l’armonioso concento delle sue campane, che da tanti anni non aveva più udito. Adorato il Santissimo Sacramento e ringraziato Dio, che, dopo un sì lungo tempo e grandi pericoli, mi conduceva a rivedere quelle sacre mura, dove aveva ricevuto il Battesimo, salii sul pulpito. Rivolsi per primo alla popolazione affettuose parole in rendimento di grazie per le dimostrazioni d’onore, che mi aveva date; e poscia, prendendo occasione dal non trovare fra quella gente né i miei genitori, né tanti miei parenti, amici, compagni e conoscenti, feci un discorso sulle vanità del mondo e sulla necessità di volgere gli affetti del cuore a Dio, e di lavorare per la sua gloria. In fine conclusi con invitare la popolazione ad una Messa funebre, che la mattina seguente avrei celebrato per tutti i defunti miei compaesani. Mi fermai in Piovà tre giorni, ricevendo da tutti le più sincere ed affettuose dimostrazioni di stima e di onore; ed io mi sforzai ricambiare tante amorevoli gentilezze con fare qualche bene all’anima loro, sia nel confessionario, sia dal pulpito, sia nelle private conversazioni. Data finalmente nel terzo giorno la benedizione papale, mi congedai da tutti, e la mattina appresso partii per Torino.
Dopo le tre pomeridiane siamo arrivati al mio paese nativo, detto Piovà, piccolo villagio di circa mille abitanti.
Non parlo della scampanate, musiche, ed altre publiche dimostrazioni, colle quali i miei compaesani vollero onorare il mio arrivo, e voglio riferire solamente le mie impressioni. Dopo quasi mezzo secolo dacché io non aveva più veduto il mio paese nativo, io confesso di essermi trovato come un vero straniero in paese mio; e nella stessa mia casa dove sono nato e cresciuto. Io mi sono trovato là in facia ad una generazione tutta nuova; quei pochi stessi, poco più di uno sopra cento, i quali nella mia fanciulezza si divertivano con me, erano divenuti vecchj, e non gli conobbi più. Col passare degli anni la facoltà imaginativa può cangiare come semplice concetto ideale, ma l’impressione materiale rimasta nella fantasia nostra, quella conserva sempre la sua forma contratta dall’antica abitudine; per questa ragione la nostra imaginazione prova una certa nuova impressione al vederla cangiata d’aspetto dopo molti anni. Ciò accade non solo nelle persone, oppure negli oggetti esterni trasformati dopo lungo tempo, ma in noi stessi, e sopra la propria nostra persona. Io non ho mai avuto l’uso di portare lo specchio con me, e sono rimasto senza vedermi nello specchio dal 1850. sino al 1863. Quando nel mio arrivo in Massawah mi sono veduto per la prima volta in un gran specchio della Procura in Umkullu, tal quale sono venuto dall’interno, al vedere la mia barba rossa divenuta tutta bianca, e la mia figura tutta solcata da rughe senili, avrei rinnegata la mia identità contro le proteste del mio senso intimo parlante.
Se io riferisco queste mie impressioni non è già per convincere di una verità che ognuno può con tutta facilità sperimentar[la] in se medesimo senza bisogno di tanta filosofia, colla sola riflessione e meditazione sopra la storia passata. Sarebbe piutosto il caso d’avvertire semplicemente di un’illusione o inganno al quale andiamo tutti soggetti per una specie d’incanto del senso, o attaccamento alla vita presente, per cui quasi naturalmente cerca di nascondersi la nostra defettibilità. È questa una debolezza nostra comune, la quale cresce al crescere al crescere della nostra età invece di raffreddarsi. Ciò che si dice delle diverse fasi della nostra vita transitoria e passeggiera, si può dire in proporzione dell’idea del mondo presente, il quale passa come un umbra, e ci nasconde il veloce suo corso sino a tanto che ci scappa dalle mani, e manca sotto i piedi; motivo per cui cresce il nostro attacco al medesimo, e si mostra sempre più tenace, anche nello stesso momento di tradirci. Io ho assistito molte anime nel loro passaggio all’eternità, e posso assicurare d’aver trovato sempre maggior difficoltà di rassegnazione nel vecchio che nel giovane; che Iddio mi liberi da un simile inganno!
Ritornando ora al mio ingresso nel paese di mia nascita; in mezzo ad una folla di mondo tutto nuovo io fui condotto alla Chiesa; mi parve questa una bellissima Chiesa, degna di una città, quando ho potuto paragonarla a molte altre vedute nei miei viaggi; maestoso il suo campanile, ma ancora più bello il suo concerto di campane. In essa, ringraziato Iddio di avervi ricevuto il S. battesimo, e di esservi ritornato dopo molti anni e pericoli, sono salito in Pulpito per ringraziare i miei compaesani delle loro onorificenze; ma, dove sono i miei genitori, i miei parenti, i miei amici, i miei compagni, ai quali io professava debiti di ogni genere da soddisfare? Nel senso sovra esposto, ho fatto un discorso sopra la vanità del mondo; ho conchiuso con un’invito per l’indomani ad una gran Messa per i morti miei compaesani. Ho passato tre giorni di ministero, sia al pulpito, sia al confessionale, pendente il quale ho avuto molte consolazioni. Lascio tutte le altre solennità e cerimonie estranee al mercato di un Prete missionario; in riconoscenza ho impertito la benedizione Papale a tutto quel popolo concorso, e dopo tre giorni sono partito per Torino. Memorie Vol. 4° cap. 23 pp. 200-202.
I genitori: Giovanni Massaja † 29.3.1853; Domenica Maria Bertorello † 2.4.1837 A.Rosso
5. Ho già detto nel primo volume di queste Memorie che quando il Signore per voce dei Superiori chiamommi all’apostolato fra i barbari mi trovava a Torino Lettore e Definitore di quella provincia religiosa cappuccina. E ritornandovi dopo circa diciannove anni, benchè tanti amici e conoscenti fossero già passati all’eterna vita, tuttavia molti ancora vivevano, ed aspettavamo con amorosa ansietà. Ricevuto alla stazionane dai miei confratelli tra cui l’antico mio discepolo P. David da Pinerolo ed Canonico Ortalda, cotanto benemerito delle Missioni, e da altri ecclesiastici e secolari, presi alloggio in casa della pia contesa di Piazzo.
Prima di far parte della famiglia religiosa di Torino, io aveva dimorato /23/ più di otto anni come Lettore di filosofia e di teologia nel nostro convento di Testona, in quel di Moncalieri: e Casa Savoja passando una buona parte dell’anno in quel castello reale, io aveva avuto occasione di stringere amicizia con parecchie persone della Corte, e di trattare confidenzialmente con i due principi Vittorio Emanuele e Ferdinando. Giunto a Torino, Vittorio Emanuele era Re di quasi tutta l’Italia, ed il piccolo, ma florido e pacifico Piemonte, fattosi rifugio di tutti gl’innovatori politici della penisola, era divenuto centro, donde partivano le operazioni dei nuovi mestoni. Trovai che la politica, abbandonati i savj e severi principj, che avevano reso forte e rispettata la monarchia, si era data ciecamente a seguire le pazze aspirazioni degl’innovatori interni ed esterni; e dopo aver tutto trasformato, erasi volta brutalmente contro la Chiesa, facendo man bassa di ogni suo diritto, dei suoi beni, e sinanco delle più sacre e ragguardevoli persone. Insomma vidi che ciò che ai miei tempi sarebbe stato mostruoso a solamente pensarlo, era ormai un’orribile e lagrimevole realtà. Per la qual cosa, afflitto e disgustato di sì brutte novità, quantunque i miei amici avessero tutto disposto per un abboccamento col Re, e questi, che allora trovavasi alla Veneria Reale, avesse manifestato il desiderio ed il piacere di vedermi, una mattina, senza dir nulla a nessuno, lasciai Torino, e presi la via di Susa, diretto a Lione, dove mi chiamavano affari importanti del mio ministero.
Il Massaja dal 1836 al 1846 fu assistente spirituale dei figli di Carlo Alberto, Vittorio Emanuele (1820-1878, re di Sardegna dal 1849, d’Italia dal 1861) e Ferdinando (1822-1855, dal 1831 duca di Genova).
6. Uscito dal Piemonte con tutto intero il mio codino, ed attraversato il Moncenisio, giunsi a Lione il 4 Luglio del 1864, accolto dai miei confratelli e da alcuni amici. Riposatomi alquanto, ripresi con maggior lena i lavori della grammatica e del catechismo amarico-galla, con la speranza di terminarli presto e consegnarli alla stampa. Nel tempo stesso ripigliai le trattative con i Superiori dei Cappuccini francesi per l’impianto del collegio galla in quella provincia religiosa, e per i nuovi Missionari, che dovevano venir meco in Africa. Compiva allora il quarto triennio di Provincialato il Padre Lorenzo d’Aosta, e dovendosi presto radunare il Capitolo per l’elezione dei nuovi Superiori, rimettemmo ogni decisione a quel tempo.
Lasciato Lione e giunto a Parigi, il P. Domenico recossi a Marsiglia per prendere i due giovani galla, destinati a ricevere in altro convento l’istruzione e l’educazione necessaria. E condottili da me, partimmo per Versailles, dove trovavasi il noviziato dei Cappuccini di Francia. Consegnatili a quel P. Maestro, affinchè li ammettesse fra i suoi alunni, ritornai a Parigi, promettendo ai due cari giovani di rivederli ogni settimana; poichè, /24/ quantunque avessero già imparato un po’ di francese, tuttavia desideravano confessarsi e sentire qualche spirituale conferenza nella propria lingua.
Frattanto, mentre attendeva ai miei lavori, occupavano pure delle commissioni datemi da Teodoro, lasciate sospese nella mia antecedente visita a quella città; e più volte mi abboccai con i Ministri del Governo francese su tale soggetto.
7. In quei giorni giunse a Parigi il signor Le Jan, che io aveva lasciato a Massauah; e venuto a trovarmi il giorno appresso al suo arrivo, per primo parlammo delle gravi questioni che agitavano la povera Abissinia. Quanto a Teodoro, mi riferì che i pretendenti ed i capi delle diverse Provincie trovavano ogni giorno maggior favore nelle popolazioni, e che da lì a poco il vero dominio del terribile Imperatore non si sarebbe ristretto che sulle provincie centrali. Diceva che Waxum Govesiè, riconquistato il Tigrè, avanzavasi verso il Sud, e che anche lo Scioa stava per rendersi interamente indipendente. Soggiungeva inoltre che i dissapori tra l’Imperatore e gl’Inglesi, anzichè cessare, maggiormente inasprivansi, e che temevasi una completa rottura.
Trovandomi un giorno al Ministero degli affari stranieri, e parlando di quelle gravi questioni, il Ministro mi disse: — Ella, quale amico di Teodoro, potrebbe rendere un grande servizio a lui ed anche al Governo inglese, accettando la missione di paciere; poichè nessuno meglio di lei, che conosce sì bene l’Abissinia ed il suo Imperatore, sarebbe adatto a questo caritatevole uffizio. Se acconsente, ne parlerò all’Ambasciatore inglese, e mi tengo certo che il suo Governo, non solo le appresterebbe tutto ciò che a tale importante spedizione si richiede, ma le resterebbe grato e riconoscente. —
— Quanto a me, risposi, trattandosi di far del bene, non avrei difficoltà di prestare la debole opera mia, qualora il Santo Padre acconsentisse e me ne desse il permesso. Scelto però ad una tal missione, non vi anderei con veste diplomatica di una Potenza secolare, con titoli, con seguito, con armi e con quel lusso, onde sogliono farsi accompagnare gl’inviati politici; bensì come semplice Missionario, col bastone in mano, secondochè son solito viaggiare per le regioni africane. Altrimenti troverei da per tutto ostacoli e disturbi, e scapiterei nella riputazione di uomo apostolico, quale quei popoli ormai mi tengono e rispettano. Attraversando l’Abissinia in questa semplice maniera, giunto al campo di Teodoro, mi getterò ai suoi piedi, offrendo anche me stesso in ostaggio per coloro che tiene prigionieri; e scongiurandolo in nome di Dio a non esporre l’Abissinia e sé /25/ stesso ai pericoli ed alle tristi conseguenze della guerra, segnatamente con una Potenza europea, spero riuscire a persuaderlo. In questo modo solamente potrei accettare ed imprendere la proposta missione con la speranza di un felice esito, e senza detrimento della mia sacra condizione di apostolo cattolico. —
Sentendo queste franche dichiarazioni: — Avete ragione, rispose il Ministro; ed ecco perché in ogni impresa voi Missionari riuscite a meraviglia; laddove noi consumiamo denaro ed uomini, e bene spesso raccogliamo disinganni, e restiamo colle beffe e col danno. — Dopo questo abboccamento non si parlò più della proposta, e fui lasciato in pace.
Nel corso dell’anno 1865. [1864 A. Rosso], mentre io col Dottore La Garde eravamo in viaggio per l’Egitto e per l’Europa, in Abissinia si svilupparono due questioni gravissime per la diplomazia di quel paese, e per il regno di Teodoro. Per una parte Waxum Goveziè, del quale già si è parlato, sortì dagli Azzobu Galla, e si impadronì del Tigrè, facendo prigioni tutti gli impiegati di Teodoro che ricusarono di passare al suo servizio. Il Principe Goxà, il quale, al nostro passaggio, governava l’Enderta ed il Tempien, con sua madre Ozzoro Salassie, furono legati e messi in prigione sopra la fortezza di cui già si parlò. Waxum Goveziè diventò padrone non solo di tutto il Tigrè, ma ancora del Tempien, dell’Enderta, e degli Agau, cioè tutto il nord del fiume Takaziè, lasciando all’imperatore Teodoro solamente la parte sud di questo fiume medesimo. Anche dalla parte del sud Menilik, quasi nello stesso tempo, fuggito da Magdala, passò i Wollo, e coll’aiuto di questi poté vincere Betzabèe, che regnava nello Scioha, ed impadronirsi del medesimo. Il regno di Teodoro perciò si diminuì dei due terzi, non rimanendogli più altro che il Beghemeder, il Dembea, il Semien, ed il Volkaït.
Per altra parte poi l’imperatore Teodoro sollevò la questione cogli inglesi, la quale, più tardi, lo rovinò, e fu causa della sua morte. La questione ebbe principio dal Signor Stern visitatore delle missioni protestanti stabiliti a Genga, le quali in quel tempo erano protette inglesi. Da quanto mi riferivano alcune lettere di abissini, furono sequestrate alcune lettere e corrispondenze del Signor Stern al Vescovo Salama, da compromettere non solo il Signor Stern, ma anche gli altri missionarii protestanti di Genga. Per questa ragione l’imperatore Teodoro maltrattò non solo Stern, ma tutti i missionarii suddetti protetti inglesi. Trovandosi in Abissinia allora il Signor Cameron console inglese di Massawah e dell’Abissinia, di necessità dovette trattare forze troppo calorosamente la causa di quei suoi protetti, e la questione dei protetti diventò questione del governo inglese, massime dopo che il console Cameron fu maltrattato, e messo in prigione. Parlarono di questa questione tutti i giornali d’Europa, e ne parlarono anche troppo, ciascheduno guidato da diverse passioni diplomatiche, chi pro, chi contro, in modo da compromettere anche l’onore della nazione inglese molto delicata in questo genere, come ognun sa. Anticamente tutte le questioni internazionali si trattavano diplomaticamente nei soli gabinetti politici, e si potevano più economicamente finire senza spargimento di sangue e con molto minori spese. Oggi, epoca dei giornali, non sono più i re, non sono i ministri, e possiam dire neanche, ne le camere, ne il vero popolo tranquillo, ma pochi oziosi e viziosi nei caffè, nelle betole, nelle piazze sollevano le questioni, e gli altri pagano colla borza e col sangue, ed intanto nulla si fa, e nulla si conchiude.
La povera Abissinia da più di un secolo distrutta dalla guerra civile, e morta di fame per la cessazione del loro governo paterno, all’umbra del quale aveva passato dei secoli in pace, e nell’abbondanza di pane: vengano gli inglesi, vengano i francesi, vengano gli italiani, oppure gli spagnoli, per noi tutto è eguale, diceva il vero popolo amico della pace e del lavoro, purché si faciano cessare questo stato di violenza e di distruzione; in cui neanche più possiamo lavorare i nostri campi per mangiarci in pace un poco di pane. Vennero difatti gli inglesi, portati non da spirito di conquista, ma unicamente dall’onore nazionale per liberare i loro confratelli; la campagna inglese fù bellissima ed avrebbe bastata per guarire l’Abissinia per sempre; si può dire che gli abissinesi neanche si mossero alla difesa, tanto era il piacere di vederla una volta finita. Ma il cieco giornalismo dell’Europa, quello stesso giornalismo che aveva sollevato l’amor proprio inglese alla guerra contro l’Abissinia, fattosi organo della gelosia nazionale dei diversi governi nostri, obligò la vittoriosa Inghilterra ad abbandonare il campo, lasciando la povera Abissinia in piena guerra civile.
Nel momento in cui scrivo la povera Abissinia distrutta dalla guerra civile nella sua parte del Nord, sede dell’antico impero, non trovando più pane in paese suo, ha portato le sue armi dalla parte del Sud contro i poveri galla disarmati, i quali erano la richezza di tutto quell’alto piano etiopico, e la distruzione è già arrivata a toccare le frontiere di Kafa; ancora qualche anno, l’intiero alto piano sarà tutto distrutto. Se la spedizione inglese avesse stabilito una semplice posizione sulle frontiere, una gran parte delle richezze di quel paese sarebbero corse sotto la sua bandiera per la sola speranza di trovarne sicurezza; l’Inghilterra colla sua vittoria sopra Teodoro, divenuta padrona, il solo suo prestigio senza guerre col tempo avrebbe guadagnato il prestigio sopra tutto quel paese, il quale, se non avrebbe dato a Lei gran denaro, avrebbe dato prodotti, e sopratutto avrebbe dato buoni soldati. Il paese poi guadagnando la sua tranquillità in poco tempo sarebbe divenuto abbastanza ricco coi suoi soli prodotti. Ora tutto ciò è stato perduto dall’Abissinia, ed dall’Inghilterra per la gelosia sollevata dal giornalismo. Se io scrivo ciò non è una mia esaggerazione mia, ma è una verità; io era là ed ho veduto coi miei occhj, ed ho sentito colle mie orecchie ciò che passava colà.
Mentre tutta l’Europa era in agitazione diplomatica sul conto dell’Abissinia trovandomi io in Parigi per i miei lavori ho dovuto visitare l’imperatore Napoleone III. per domandargli la grazia di poter fare imprimere la mia grammatica amarico-galla alla Stamperia imperiale, dove solamente si trovavano i caratteri etiopici che occorrevano per la medesima, ed ero soventi chiamato al ministero degli esteri, sia per leggere le lettere in lingua abissina che venivano dall’imperatore Teodoro, il quale trovandosi in collisione coll’Inghilterra non lasciava di coltivare la Francia per assicurarsi un sufficiente contrappeso diplomatico. Monsieur Fauger primo uffiziale del gabinetto degli esteri nella sessione orientale, era in relazione intima con me, sopra gli affari allora correnti dell’Abissinia; ho potuto perciò tutto conoscere come la pensavano in Francia rapporto alla vertenza anglo-abissina; tanto più che l’imperatore Teodoro medesimo, avendomi particolarmente conosciuto, ed in certo modo confidando anche in me a questo riguardo, non lasciava di scrivermi.
La Francia aveva sempre esercitato una certa specie di protettorato in Abissinia, epperciò non vedeva certamente volontieri che l’Inghilterra portasse le sue armi in quel paese, e lavorava piuttosto nel senso della pace trà l’Inghilterra e Teodoro. Anche l’Inghilterra avrebbe molto volontieri lasciata una simile guerra, la quale non avrebbe mancato di costargli una bella somma oltre al pericolo di perdere uomini in una guerra da essa considerata di un’avvenire dubbio, e poco interessante; ma per una parte i prigionieri colle loro lettere gridavano pietà, e per l’altra l’opinione publica sollevata dal giornalismo l’incalzava. Anche Teodoro per parte sua aveva spedito in Inghilterra il Signor Flat missionario Protestante domandando alcuni regali per rilasciare i prigionieri; tutto fù accordato per liberarsi da quella guerra, come si vedrà in seguito, essendo questa una parte troppo interessante di queste mie memorie, come questione naturalmente connessa, colle mie operazioni di quell’epoca. Per ora basti il dire che tutto fu inutile.
Per ora basti il dire, che l’Inghilterra aveva già spedito all’imperatore Teodoro il Signor Rassan di origine armeno, e suo impiegato in Aden Secondo dopo il Governatore, per trattare la pace, ma la sua spedizione non fu fortunata, perché quel Signore, accompagnato da Servi, appena arrivato al campo di Teodoro, invece di essere trattato come inviato di una potenza rispettabile d’Europa, non tardò ad essere anche egli maltrattato, e messo in prigione per aggiungere un numero di più alla gravità della questione; il povero inviato dopo pochi giorni, caduto in disgrazia, vidde gli stessi suoi proprii Servi meglio trattati di lui, perché l’abissino anche grande non ha una giusta idea del rispetto dovuto ad un’inviato di riguardo, come non ha una giusta idea delle potenze europee, e del diritto delle genti che le governa. Trovandomi un giorno al ministero degli esteri in Parigi, e parlando academicamente di questo affare collo stesso ministro egli mi disse, Ella più di tutti potrebbe far buon’uffizio a questo riguardo come amico di Teodoro; se Ella fosse disposta ad acettare l’incarico, io ne parlerei all’ambasciatore inglese, e farebbe un vero servizio: io sono certo che il governo inglese, non solo ne sarebbe grato, ma somministrerebbe abundantemente tutto il necessario per la spedizione.
Qui non è il caso di una proposta officiale, risposi io, ma nel caso che fosse tale io non potrei acettare un simile incarico senza un permesso del santo padre il Papa, da cui dipendo; quando anche il S. Padre lo permettesse, oppure che me lo comandasse, io non potrei andare come inviato di un governo qualunque, con titoli, accompagnamenti, e paghe senza abbassare l’idea che il paese ha concepito di me, come uomo di Chiesa, e semplice missionario; io come sono venuto armato del mio solo bastone, facendo anche un poco di apostolato strada facendo, secondo che le circostanze lo permetteranno, in nomine Domini io me ne anderò con tutta semplicità e secretezza. Arrivato che sarò al campo di Teodoro farò tutti i miei sforzi per entrare da Lui, ed entrato mi getterò ai suoi piedi pregandolo di rilasciare tutti i prigionieri per l’amore di Cristo, e per il bene suo e di tutta l’Abissinia, costituendomi io come prigioniero in luogo loro. In questo senso e non in altro io potrei eseguire il supposto mandato con qualche speranza di esito, e senza degradarmi in facia a tutto quel paese in modo di potere continuare la mia operazione apostolica. Quando il ministro francese sentì questa mia risposta fece un’atto di ammirazione, ed osservò silenzio. Così finì la nostra conversazione, e fui lasciato in pace. Memorie Vol. 4° cap. 24 pp. 204-207.
8. Mentre io trovavami a Parigi, giunse D. Daniele Comboni, personaggio ormai caro ad ogni Italiano, e compianto dalla comunanza civile e dalla Chiesa.
Ho parlato altrove della Missione dell’Africa Centrale, ed i miei lettori conoscono già quel che io pensava rispetto ad essa. Dopo circa sedici anni di stentata vita, e dopo avere stancato le forze di varie Congregazioni religiose, trovavasi quasi abbandonata e deserta. Rinunziata dai Gesuiti nel 1851, ed affidata ai Tedeschi, aveva visto cadere vittima di quell’insalubre clima l’un dopo l’altro i suoi nuovi operai. Accettata poscia dall’Istituto Mazza di Verona, anche gli apostoli, che questo vi mandò, ad eccezione di D. Giovanni Beltrame e del Comboni, pagarono con la vita i generosi sforzi del loro zelo. Per la qual cosa furono costretti cedere le armi ai Padri Riformati, e ritirarsi dalla nobile ma micidiale lotta. Ed anche quei zelanti Padri ebbero a soffrire gravi perdite nel Fiume Bianco ed a Kartum; cosicchè nel 1864 quella Missione riputavasi quasi abbandonata.
Il Comboni, a cui le difficoltà trovate in quelle regioni avevano accresciuto maggiormente il coraggio, presentò alla Sacra Congregazione di Propaganda un suo disegno sulla detta Missione con nuovi e più pratici regolamenti. Era allora Prefetto della Propaganda il Cardinal Barnabò, il quale, accogliendo benevolmente le proposte dell’ardito Missionario, lo mandò a Parigi; affinchè si abboccasse con me (che già conosceva quei paesi), sentisse i mici consigli, e maturasse meglio la difficile impresa. E di fatto, presentatomisi con lettera di raccomandazione del suddetto Cardinale, tosto stringemmo fraterna amicizia; e, preso alloggio nella medesima casa, che io abitava, passammo sei mesi insieme, facendomi egli da compagno e da segretario.
Di questo venerando sacerdote, pieno di zelo, di fervore e di virtù, non posso parlar che bene. Arricchito dal Signore di doni naturali e di pre- /26/ clare doti, era nato per divenire un modello di Missionario. Robustezza di salute, energia non comune e volontà di ferro spingevamo a grandi imprese. Adorno di dottrina superiore alla mia, e di un’eloquenza tutta particolare, cattivavasi ben presto la stima e l’animo di tutti. Dopo il mio ritorno in Africa fu eletto Vescovo e Vicario Apostolico della Missione dell’Africa Centrale, e tosto si diede alle grandi operazioni, che già nella mente aveva maturate; e per l’Alto Egitto, nel Sennàar, sui confini del Kordofan cominciò a dar prova del suo zelo apostolico, e ad avviare quelle ardite imprese, che egli solo comprendeva ed avrebbe saputo compiere, se fosse vissuto lungo tempo. Ma vinto dal micidiale clima di Kartum, vi restò vittima, come tanti altri Europei, lasciando in quella Missione un vuoto, che il suo successore stenterà non poco a riempiere.
9. Pagato questo meritato tributo ad uno dei più illustri campioni del moderno apostolato, e che verso di me ebbe affetto, non solo di amico sincero, ma di figlio devotissimo, ricordo in queste pagine la visita che insieme facemmo alla famiglia imperiale di Francia.
Rammentano i miei lettori che una delle faccende, che io doveva trattare a Parigi, era quella di ottenere dall’Imperatore che, accanto alla chiesa di S. Anna (posseduta dalla Francia), si permettesse di costruire un ospizio per gli Abissini, che recavansi a Gerusalemme. Ora, per conseguire con maggiore facilità l’intento, prima di chiedere quel favore all’Imperatore, risolvetti parlare all’Imperatrice Eugenia, donna pia ed affezionata alle Missioni. Domandata pertanto una particolare udienza, mi vi recai col sacerdote Comboni ed accompagnato dall’Abate Guerin, Curato della Maddalena. Esposto il motivo della nostra visita, e perorata caldamente la causa dei poveri pellegrini etiopi, quella pia donna (degna di miglior sorte), non solo prese a cuore la caritatevole proposta, ma ci promise che ne avrebbe parlato all’Imperatore, e che essa ci sarebbe stata larga di ogni agevolezza. Poscia visitammo il Principe imperiale, futura speranza della Francia napoleonica.
10. Napoleone III in quei giorni erasi recato in Algeria; e visitata quella colonia, dopo due settimane, ritornò a Parigi. Contento di quel viaggio, non parlava d’altro che delle cortesie ricevute da quei barbari mussulmani; e dando loro ogni sorta di elogi, soggiungeva: — Ora comprendo perché il Sultano di Costantinopoli con pochi soldati e lievi spese governa un impero più vasto della Francia: laddove noi con un milione di soldati a stento riusciamo a mantener l’ordine. — Queste lodi, e punto assennati giudizj a favore dei mussulmani, avevano irritato non /27/ poco il pubblico francese, non solo cattolico, ma liberale; ed i giornali, chi più chi meno apertamente, parlavano in modo non tanto favorevole a Sua Maestà imperiale.
Avendo io domandata un’udienza per pregarlo di permettere che la mia grammatica amarico-galla fosse stampata nella tipografia imperiale, ed essendomi stata concessa, mi vi recai col sacerdote Comboni. Introdotti nel gran salone delle udienze pubbliche delle Tuileries, trovammo l’Imperatore circondato da molti Grandi della Corte e da parecchi illustri personaggi, andati ad offrirgli le loro congratulazioni pel felice viaggio. Napoleone, trattenendosi ora con questo ed ora con quello, parlava sempre delle cortesie ed accoglienze ricevute in Algeria. Rivolto poscia a me: — Voi già, mi disse, siete mezzo africano, e conoscete bene quanto i mussulmani sicno docili e trattabili. — E continuando a parlare benevolmente degli Arabi, non lasciava di metterli in confronto, punto lusinghiero, con i nostri popoli inciviliti. Giunto il momento opportuno: — Maestà, gli dissi, dopo che il padrone ha domato il cavallo con la briglia, e l’asino col bastone, non ha più paura che ricalcitrino. Ella inoltre non ignora che le nostre popolazioni prima dei nuovi tempi erano più buone e più docili dei domati mussulmani, e che sotto il paterno reggimento dei /28/ nostri Governi cristiani osservavano le leggi e operavano dirittamente, senza esservi costretti dalla forza di numerosi eserciti. Sono le moderne dottrine, a mio avviso, che hanno guastato il nostro popolo, proclamandolo sovrano, ed eccitandolo a difendere i proprj diritti, anzichè ad osservare i proprj doveri. Laonde se esso alza la testa, e ad ogni pie sospinto ricalcitra, non fa altro che seguire gl’insegnamenti ricevuti, e la via che gli fu tracciata. —
Di questa risposta l’Imperatore non sembrò contento, ma non mostrassi offeso, né lasciò di trattarmi cortesemente. Mi chiese poscia se desiderava qualche favore; ed espostogli il principale motivo della mia visita, dichiarò che con piacere acconsentiva si stampasse la grammatica nella imperiale tipografia.
In quei giorni quella mia franca risposta fu il soggetto delle conversazioni di molti Parigini, e parecchie persone ragguardevoli vennero ad esternarmi la loro approvazione. Gli stessi giornali ne parlavano saggiamente; e, per quanto i riguardi verso il potente Sovrano, e la cortigianeria il permettevano, tutti mi diedero ragione. Napoleone III per quella conquista aveva speso molti milioni, sacrificate parecchie vittime; poteva dunque parlare di essa diversamente?
11. Il lavoro della mia grammatica era già abbastanza avanti, ed avendo dato l’Imperatore l’ordine alla tipografìa di eseguirne la stampa, consegnai la parte del manoscritto, che aveva compito. Quanto ai caratteri, la tipografia ne aveva acquistato recentemente di nuovi, coniati sotto la direzione del mio amico Antonio d’Abbadie; e sotto questo rispetto io era certo che il lavoro sarebbe riuscito perfetto. Poichè quei tipi, coniati sulla forma della scrittura popolare abissina, erano migliori di quelli che usavano le tipografie d’Inghilterra, di Germania e della stessa Propaganda. Le compagnie bibliche inglesi, per istampare libri abissini, vollero dare a quei caratteri linee più rette e curve più regolari di quelle che usano gli scrittori del paese; ma questa innovazione, scostando notevolmente i caratteri dalla vera forma etiopica, li rese poco intelligibili e punto graditi agli indigeni. Da un lato un tal nuovo metodo sarebbe stato molto utile agli Europei, che avessero voluto imparare quella lingua; ed io, seguendolo, tanto nel leggere quanto nello scrivere, ben presto e facilmente mi resi padrone di essa. Ma confesso che la mia scrittura parve a tutti assai difettosa, che i medesimi calligrafi indigeni stentavano a leggerla, e che molti non riuscivano a capire ciò che io volessi dire; talmente che quella gente la chiamava scrittura frangi.
/29/ I libri poi delle compagnie bibliche inglesi, non solo non erano letti dagli Abissini, per le variazioni da esse introdotte nei caratteri, ma perché si offrivano stampati. Gli Abissini, come in gran parte gli Orientali, non danno alcun’autorità ai libri stampati, e sotto il rispetto religioso fanno più conto di uno stracciato ed indigesto manoscritto, che del più bello ed ordinato volume a stampa. Cosicchè, nelle dispute sulla religione, è inutile mostrare e provare agli Abissini una verità con la Bibbia portata dai protestanti; vi rispondono che quelle pagine non hanno alcun valore, e che non meritano credito. E lo stesso pregiudizio trovasi nei mussulmani rispetto al Corano stampato, ed in molti Orientali, segnatamente eretici, rispetto alla Sacra Scrittura ed alle opere dei Santi Padri, uscite dalle nostre tipografie.
12. Mi sarebbe stato più caro stampare quel mio lavoro nella tipografia della Propaganda: ma, non avendo essa caratteri perfetti? della lingua amarica, fui costretto rivolgermi altrove. I tipi ch’essa possiede, quanto alla forma, si assomigliano agli etiopici, e sono migliori di quelli delle compagnie bibliche inglesi; ma, fusi con aste sottili, non hanno corpo, e non si leggono volentieri dagl’indigeni. Probabilmente i modelli furono dati da qualche dotto abissino, o da Missionarj, che ne conoscevano bene la forma: ma, copiati quei modelli con penne temperate a modo europeo, cioè con punta aguzza, le aste delle lettere riuscirono fine, e non come soglionsi scrivere dai calligrafi abissini.
Monsignor Biancheri, volendo impiantare una piccola stamperia a Massauah per servizio e comodo della Missione lazzarista, domandò alla tipografia imperiale di Francia i tipi; ed avutine una certa quantità di quelli fusi sotto la direzione del signor D’Abbadie, potè servirsene con utile e vantaggio della Missione e della cristianità abissina. Trovandomi a Parigi mi venne in mente di chiederne anch’io una provvista per la tipografia di Propaganda, e l’Imperatore, facendo buon viso alla mia preghiera, rispose che avrebbe appagato quel desiderio. Avendo poi dovuto fare parecchi viaggi per la Francia, e non sentendomi in quei pochi giorni che mi fermava a Parigi, di rivolgere altre richieste alle persone della Corte, lasciai la Metropoli, senza aver nulla ottenuto. Ne parlai poscia all’Eminentissimo Cardinal Prefetto, affinchè insistesse presso la Corte imperiale, qualora tardasse a concedere quanto mi era stato promesso; ma non se ne diede pensiero. Finalmente, partito io per l’Africa, non occupandosi più nessuno della faccenda, la tipografia di Propaganda restò con i caratteri antichi.
La detta tipografia inoltre, assumendo la stampa della mia grammatica, /30/ avrebbe dovuto sostenere una non lieve spesa per far fondere i caratteri della lingua galla; poichè, abbracciando quel lavoro le due lingue, amarica e galla, richiedevansi i tipi dell’una e dell’altra. Ho detto altrove che fra i Galla non trovai segno di lingua scritta, e che, dopo tante prove, fui costretto, per la scrittura, servirmi delle nostre lettere latine, con alcuni segni però sulle lettere medesime, che n’esprimessero meglio la forza ed il valore. Ora, una tale spesa, se sarebbe tornata grave alla tipografia di Propaganda, a quella imperiale fu leggiera e facile. Di fatto, commessane tosto la fusione ed una casa di Francia, secondo i modelli dati da me e e dal signor D’Abbadie, si ebbero tutti i caratteri che occorrevano. Tuttavia, richiedendosi non poco tempo per formare quei nuovi tipi, la pubblicazione della grammatica ritardò a comparire più di quanto io prevedeva. E se il caro amico D’Abbadie non si fosse occupato del mio lavoro con quell’amore e premura, che ciascuno mette in un’opera propria, non so quando quel volume avrebbe veduto la luce.
Il M. fin dal suo arrivo ad Alessandria d’Egitto nel 1846 si era occupato di lingua galla, servendosi di un non meglio precisato “dizionarietto” – non è chiaro se si tratta di un volume preesistente, o di un primo abbozzo della Grammatica che ora viene pubblicata:
In Cairo a forza di brigare ci riuscì di raccogliere qualche cosa sulla lingua Gallas, che attualmente stiamo studiando – già abbiamo un piccolo dizionarietto, con una piccola gramatica, con l'andar del tempo la compiremo. Lettere vol. I n. 45, a Monsignore Giovanni Brunelli, Suez 15 settembre 1846