Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo VIII.

I paesi Galla, — Vicende di popoli. — Te Deum! — Prima Messa tra i Galla. — Ad Asàndabo. — Gama Moràs. — Un pranzo di gran penitenza. — Degiace Kassà. — Tedia Gualù. re del Goggiàm. — La fortezza di Gibellà. — Peripezie del padre Felicissimo. — Il pianto di Maquonèn. — La giornata del missionario. — Capanne abissine e galla. — Chiese abissine. — La morte di Kiggi e il gran pianto.

Sul punto di accompagnare il nostro missionario dai confini dell’Abissinia ai paesi Galla è bene dare un cenno dei popoli che successivamente abitarono quelle regioni. Gli Abissini sono di razza semitica; mescolatisi però, o per ragioni di commercio, o di schiavitù o di parentela, coi popoli confinanti di razza nera ritrassero un po’ di quella razza anche nel tipo. Le regioni al sud dell’Abbai, ora dette paesi Galla, da principio erano abitate dalla razza detta in Kaffa Mangiò, Uata fra i Galla e Uoito in Abissinia. Questi popoli vivevan da secoli padroni di queste terre, allorché un imperatore Abissino che risiedeva in Antotto nel secolo xv entrò nei /91/ loro dominii, li sottomise e vi lasciò numerose colonie abissine. Verso la metà del secolo seguente un famoso avventuriere mussulmano di nome Gragne, nativo dell’Harrar, inalberata la bandiera della rivolta, assalì l’imperatore nella sua capitale e l’obbligò a fuggire fino al nord, nel Tigrè; onde le popolazioni così spaventate corsero a rifugiarsi parte nel Guraguè e parte nell’Ennerea. Queste nuove immigrazioni, accrescendo col numero la forza e la potenza delle antiche colonie abissine colà stabilite, costrinsero la razza Mangiò a rendersi schiava di loro o ad emigrare; e allora quelli che preferirono alla servitù la libertà si dispersero nei vicini paesi e nel Kaffa.

Le orde di Gragne portarono lo scompiglio anche tra i Galla Oromo, che occupavano la parte orientale dell’Africa; onde anche questi si videro costretti a cercar rifugio verso Zanzibar o negli altipiani della regione orientale. Questi poi, inteso che Gragne era stato ucciso dai Portoghesi presso Gondar e che il sud dell’Abissinia era rimasto deserto, corsero ad occuparlo, e dirigendosi verso il sud di Ankober s’insignorirono del paese cacciandone i pochi cristiani. I quali fuggendo dinanzi ai nuovi invasori andarono a stanziarsi nelle basse valli dei Kuolla, dove per l’eccessivo calore e per l’asprezza del terreno sparso di precipizi e di burroni e irto di sassi taglienti non potevano essere molestati dalla cavalleria galla. I Galla poi a poco a poco si spinsero innanzi conquistando Ennerea, Ghera, e al nord le terre che toccano le rive dell’Abbai. Cosicché le popolazioni cristiane che abitavano i paesi superiori del fiume Ghiviè passarono nei regni di Kaffa, Meccia e Affilò.

/92/ Quanto alle qualità del suolo, i paesi galla sono fertilissimi e ogni ragione di prodotti vi farebbe a meraviglia, se fossero ben coltivati; e il clima vi è mitissimo, tra i 18 e i 22 gradi Reaumur. — Ma veniamo al nostro racconto.

Il 21 novembre 1852 la comitiva era sulle mosse: oltre una scorta d’onore v’era un certo abba Fessah, sacerdote ordinato da Salama, e convertito poi al cattolicismo dal De Iacobis, i giovani Berrù e Morka, altri cinque giovani condotti dal Beghemeder e una donna, com’è d’uso in Abissinia, per il lavoro del pane. Arrivati all’Abbai, essendo in piena, lo passarono a nuoto, cioè tutti, eccetto monsignor Massaia, che non essendo a ciò esperto postosi sopra un otre gonfio, parte con questo mezzo, parte sorretto da due nuotatori si tragittò all’altra riva.

Finalmente dopo sei lunghi anni di peregrinazioni, di stenti, di ansie e di pericoli gli era dato di calcare quella terra benedetta dei Galla, a lui sortita dal padre della Provvidenza come campo delle sue fatiche. Deposte quindi le vesti di mercante arabo, calzoni rigonfii con giacchetta stretta e berretto rosso a cono con gran nappa, indossò l’abito da monaco abissino, veste talare e gran mantello e berretto bianco: e inginocchiatosi a terra nell’entusiasmo della gioia levò a Dio un solenne Te Deum. La sua comitiva lo guardava trasecolata, stordita; il mercante arabo s’era trasformato d’un tratto in un missionario cattolico. Che più? Il signor Bartorelli non era altro che l’abuna Messias, monsignor Massaia! Ed eguale alla meraviglia era la contentezza, che avevano in mezzo di loro il padre delle loro anime, l’inviato del Papa, il loro /93/ vescovo! Licenziata la scorta d’onore, si rimisero in cammino e dopo tre ore di salita su un altipiano giunsero alla casa loro destinata, dove il vescovo celebrò la S. Messa, la prima Messa in quei luoghi barbari, e durante la quale dispensò la comunione a Berrù e a Morka, non credendo ancora di ammettervi gli altri, benché ne mostrassero estremo desiderio.

Di qui continuarono ancora il cammino, sempre su un vasto altipiano, a 2400 metri di altezza, finchè pervennero ad Asandabo, dove li aspettava Gama Moràs. Il quale li accolse molto onorevolmente: secondo lo stile galla fatto sedere sur una sedia dinnanzi alla capanna il Massaia, gli offerse del buon idromele e a’ suoi servi un corno di birra; dopo di che li accompagnò alla capanna che doveva servir loro di abitazione e li provvide largamente di cibi.

Così stabilita la sua dimora, il nostro vescovo diede tosto opera al suo apostolato. Tutti i giorni mattino e sera, a data ora, recita delle preghiere in lingua galla, e, quando gli si presentava l’occasione, un sermone sulle verità della fede; nel che, secondo la loro capacità di catechisti, aiutavanlo i giovani Berrù e Morka, siccome più istruiti. Le persone che intervenivano alle istruzioni andavano crescendo di numero, frutti preziosi di conversioni si venivan maturando; c’era veramente di che allietarsi.

Quindici giorni dopo il suo arrivo in Asandabo sopravvenne Workie-Iasu e vedendo come il medico Bartorelli si fosse trasformato nell’abuna Messias fu per ismarrire i sensi dallo stupore e non rifiniva di farne le più sperticate lodi. Qualche /94/ giorno dopo giunse in Asandabo anche il noto abba Saha, quello guarito dal mal dei rospi, ed essendo questi fratello della regina Dunghi, madre di Gama Moràs, si volle dare in suo onore e in onore dell’abuna Messias un sontuoso banchetto. Il re della mensa fu naturalmente il nostro vescovo, al quale, solo a titolo di grande onore, abba Saha e sua sorella Dunghi con quelle mani, che ogni tanto si forbivano ai capelli unti e bisunti di burro, venivano imboccando (proprio per degnazione!) certe pallottole di carne che se da una parte potevano per la grossezza soffocarlo, dall’altra per la nausea potevan farlo recere. E pure bisognava prendere anche questo per complimento! Contuttociò poteva dirsi contento della sua nuova condizione; la gente si mostrava docile a’ suoi insegnamenti e un po’ di bene si faceva.

Ma come non vi è mai in questo mondo una pace lunga, ecco di lì a non molto sentirsi rumori di guerra tra ras Aly e suo genero degiace Kassà (il futuro re Teodoro), e poco dopo la sconfitta da questo inflitta allo suocero; il che certo non era cosa rassicurante per la missione, perchè la guerra, l’invasione di quel terribile capitano sarebbesi potuta portare anche in quei confini. E infatti ecco un giorno con una mossa ardita comparire nel Libàn Kuttài (regione a levante del Gudrù) Teodoro, a cercarvi un suo nemico, Berrù-Gosciò, il quale facilmente riuscì a far prigioniero; temevasi volesse dare il sacco alla contrada, ma invece, ripassato l’Abbai, ritornò nel Goggiàm. Tanto più grande fu l’allegrezza di essere scampati a quella invasione in quanto che sapevasi come trattasse i popoli vinti; rubando gli averi, disertando il be- /95/ stiame, martoriando i ricchi e tagliando senza misericordia mani e piedi a chiunque sospettasse suo nemico. Il nostro vescovo dovette dunque riputare a singolare intervento della Provvidenza l’essere co’ suoi andato salvo da un tal flagello. Ma a rassicurarlo anche maggiormente poco dopo gli giunse la notizia che Kassà aveva abbandonato il Goggiàm e che questo era stato occupato da Tedla Gualu, suo buon conoscente ed amico.

Questo principe aveva posto il suo campo di fronte al Gudrù, a Gibellà, monte che termina in uno spianato di pochi chilometri di giro e levasi a picco da tutte le parti, salvo che da una scende men rapidamente a un altro monte più basso che lo congiunge ad altra rocca di egual forma detta di Mottarà. Tanto l’una come l’altra erano fortezze imprendibili per quei tempi in cui dagli Abissini non si conoscevano ancora i cannoni.

Una grande consolazione attendeva in Asandabo il nostro buon vescovo, l’improvvisa comparsa del padre Felicissimo da Cortemilia e del padre Hailù. Questi, cacciati dalla loro missione di Tebda Mariàm, avendo sentito che monsignor Massaia di ritorno dall’Europa era penetrato in Abissinia per la via del Sennàar e del Dembèa, erangli andati incontro, ma giunti a Gondar erano stati imprigionati per ordine di Salama; dopo due mesi d’incredibili sofferenze avendo finalmente riacquistata la libertà, eran potuti pervenire fino a lui. Quindi è facile capire quanto grande fosse la gioia reciproca nel rivedersi dopo tali e tante traversie.

Ma a compensare queste gioie venne la notizia che il padre di Maquonèn e la tribù dei pastori Zellàn erano stati trucidati da nemici invasori. /96/ Tutti ne furono estremamente afflitti; il giovane Maquonèn specialmente era inconsolabile, «Povero padre mio! andava angosciosamente esclamando; dunque non potrò più rivederti? Morto nell’eresia, dove ti trovi ora? Qual sorte sarà toccata all’anima tua? — E tu, madre mia, dove ti trovi ora? sei morta o viva? libera o schiava? quale angoscia al tuo cuore se viva e schiava! qual duro destino ti attende!». Nè meno si doleva il buon giovane sulla sorte del suo caro amico Melàk. «O Melàk, Melàk, mio caro Melàk, sei tu morto o vivo? E come potrai tu esser morto, tu che a me desti la vita...? Come te ne partisti da questo mondo senza ricevere il Kurvàn (la S. Comunione) che tanto desideravi e tanto facevi a me desiderare ed a’ tuoi? Ah tu almeno ora ti godi il Signore, ma mio padre, il povero padre mio dove sarà egli?». Eran l’amicizia, la pietà figliale, la fede che quanto più vive tanto più fortemente commoveano il suo spirito. Povero giovane! come si sente d’avergli compassione!

Intanto coll’arrivo dei sopraddetti sacerdoti si potè dare miglior assetto alla missione; la mattina celebravasi la Messa e quindi recitavansi le preghiere in comune, dopo le quali facevasi un’ora e mezza di scuola e poi ognuno attendeva ai lavori manuali. Il posto poi che si era scelto presentava molte comodità. Asandabo situata in luogo salubre ad un’altezza di 2420 metri sul livello del mare era importante centro di commercio colle provincie confinanti e col litorale, tantoché la sua popolazione che abitualmente non contava che un migliaio di abitanti, nei giorni di mercato saliva a ben cento mila; quindi ivi a maggior numero che in /97/ altro qualsiasi posto poteva estendersi l’opera dell’apostolato, «La mia entrata in questo paese (così in una sua lettera del maggio 1855), dopo sei anni di faticoso pellegrinaggio, fu il principio di gravissime non meno che consolantissime occupazioni, e non termineranno che alla mia morte, forse non lontana, perciocché mi sento indebolito assai e sopraggravato di lavoro, per mancanza di cooperatori... Io oltre le sante funzioni, debbo preparare di mia mano il mangiare, assettare la mia camera, lavare e rappezzare la mia biancheria; poi mi occorrono alquanti ritagli di tempo per parlare ai visitatori, perchè la conversazione del missionario tiene luogo di catechismo a quelli che non frequentano la chiesa». E potremmo aggiungere (come consta da una lettera di un suo confratello) che il nostro vescovo lavorava anche da muratore nell’erigere cappelle e case per la missione, «faceva insomma tutti i mestieri, eccetto quello di benestante», come argutamente si esprime in una sua lettera.

Crescendo intanto il numero dei neofiti convenne pensare a fabbricare nuove capanne; e qui non è inutile dare un cenno della loro forma. Le capanne abissine o tucul si differenziano alquanto dalle galla. Quelle sono formate da pali piantati in cerchio rivestiti di paglia e intonacati di mota sicché all’esterno paion murate. Dalla cima dei pali sopradetti poi con una sporgenza di mezzo metro si dipartono altri pali che vanno a congiungersi in alto a forma di imbuto capovolto. Le capanne dei galla sono bensì anch’esse di pali piantati in cerchio, ma in luogo di fango sono rivestite di paglia. Il tetto però è più tondeggiante e all’estre /98/ mità inferiore meno sporgente. Un’altra particolarità; nel centro hanno piantata un’antenna che s’alza a sostenere il tetto, dal quale anzi alcun poco sopravanza. Se la capanna è molto vasta, invece di un solo palo si piantano parecchi pali in giro attorno al centrale e così con tramezzi d’assi vengono a formarsi come tanti scompartimenti o camere. Tanto le une che le altre poi non hanno finestre e la luce e l’aria la ricevono dalla porta. I ricchi sogliono chiudere le loro capanne entro un recinto o steccato di legno; nel centro sorge quella destinata per loro e attorno, più piccole, quelle dei loro servi.

Le chiese hanno press’a poco la forma delle capanne, salvochè nelle più vaste attorno attorno alla parete interna gira una specie di colonnato di pali dove si raccoglie parte del popolo e nel mezzo poi v’è un cerchio chiuso da tre porte che è il Sancta Sanctorum, entro il quale il clero, invisibile al popolo, celebra le funzioni. Sul colmo del tetto della chiesa s’alza la croce (senza crocifisso però, e così sono tutte le croci) che consiste in una banda quadrata di metallo, recante, dove sarebbero la longitudinale e la trasversale, certi fori, da cui pendono legati gusci di uova di struzzo che allo spirare del vento si battagliai! fra loro. Le immagini dei santi (dipinte, giammai scolpite) che conservano nelle chiese sempre tengono velate; a maggior riverenza, dicono, ma non si vede qual riverenza, così nascoste, possano inspirare nell’animo dei fedeli.

Del resto raro è che nei bisogni ricorrano alla loro intercessione: al modo dei pagani portano invece al collo, a preservarsi dalle disgrazie, amuleti e oggetti di rame.

/99/ Piacerà l’udire altresì un cenno dei riti funebri che usano presso i popoli galla. Era morto un fratello adottivo di Gama Moràs, un certo Kiggi. Lavato il cadavere con acque aromatiche, fu deposto sopra un algà (specie di letto) e ricoperto in segno di ricchezza con molti drappi rossi. Indi a pochi passi dalla sua casa scavossi il sepolcro dando le prime zappate il fratello Gama Moràs, e quindi man mano gli altri congiunti. Il che fatto, si andò a prendere il cadavere: e qui successe una specie di contesa tra quelli che eran venuti a prenderlo e quei che erano in casa che fingevano di non volerlo a nessun modo lasciar portar via. Recatolo quindi fuori tra i pianti e le urla dei parenti e dei vicini, lo deposero nel sepolcro, come in atteggiamento di chi dorme, colla mano sinistra distesa lungo il corpo e la destra piegata sotto il mento e attorno gli collocarono varii oggetti di conterie, alcuni talleri, un piatto d’incenso e mirra in segno di ricchezza, un vaso di idromele, altri di birra, parecchie pietanze, e l’avanzo d’una polenta d’orzo (con cui la sorella per troppa pietà l’aveva soffocato), perchè svegliandosi e sentendosi appetito potesse sfamarsi, e, perchè il tutto vedesse, una lucerna spenta. Quindi, sempre tra gemiti ed urla ed esclamazioni di elogi al defunto, si venne coprendo di terra il sepolcro erigendovi sopra come una piramide di pietre e piantandovi ai lati due pali congiunti da un altro traverso da cui pendevano come trofei delle sue gloriose imprese e delle sue virtù, pelli d’animali e due caraffe bianche, quest’ultime come ricordo della sua famosa bravura quale bevitore. Così finì la funebre cerimonia; durarono ancora i pianti fino al levar del sole, e allora tutti si sparsero alle loro case.

/100/ Tali le usanze nella morte di un ricco e libero; nella morte di uno schiavo la cosa è molto più spiccia; spirato, quasi non fosse uomo, il suo cadavere viene gittato in qualche precipizio in pasto alle iene. Così era avvenuto poco prima di due servi di Kiggi. Riguardo alla morte di costoro è da sapere che venne ritenuta come opera dei genii cattivi al servizio dell’abuna Messias, il quale così vendicavasi del furto di certe tele fattogli da Kiggi e dai suoi servi. Non ci volle poco a persuaderli, nè ci riuscì che in parte, che questo, anziché ai genii cattivi doveva attribuirsi a giusto castigo di Dio per lo sfregio e il danno fatto a’ suoi ministri.