Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

/101/

Capo IX.

Quel che si faceva ad Asàndabo. — Un pontificale fra i barbari. — Mitra e pastorale. — Il buon abba Gallèt. — Ambasceria ad abba Baghibo. — Studi linguistici. — Riscatto di due schiave. — Un pranzo galla. — Ad Ameliè. — Tre libri famosi. — L’innesto del vaiuolo. — Provvedimenti per le missioni. — Esilio del padre Giusto. — Sua morte a Kartum.

Nel maggio 1853 essendo sopravvenuto da Baso (provincia posta a settentrione del Gudrù) il padre Cesare, si potè dar mano a un assetto anche migliore della missione. Aveasi già una cappella di paglia, ma, oltreché poco decorosa, essendo anche insufficiente a contenere tutti i fedeli, si pensò di fabbricarne una di pietra; e tutto insieme architetto e muratore, aiutato dal padre Cesare e da alcuni giovani, fu lo stesso monsignor Massaia. Ed ecco l’orario della giornata. Al mattino dopo la Messa si recitavano le preghiere, indi si faceva un po’ di catechismo e un breve sermoncino sui doveri religiosi e domestici; seguivano, dopo la colazione, la scuola di latino agli aspiranti al Sacerdozio e i la- /102/ vori manuali per gli altri fino al mezzodì (1). Nel pomeriggio lezioni di lingua etiopica od amarica, date dal padre Hailù, per gli uni, lavori manuali per gli altri, fino a notte; quindi preghiera pubblica, catechismo, ed in fine cena. La domenica si celebravano due Messe; la seconda con spiegazione del vangelo, ed in fine recitavasi la corona di espiazione, formata da cinque decine di Gloria con un Pater ed Ave per ogni decina; detta d’espiazione, perchè rivolta a riparare, la prima decina le bestemmie dei pagani, la seconda quelle dei mussulmani, la terza quelle degli Ebrei, la quarta quelle degli eretici e in fine, l’ultima, quelle dei cattivi cristiani. La sera recita del rosario, istruzione famigliare ed un’altra volta la corona d’espiazione. E così si chiudeva la giornata religiosa. Non si dava la benedizione col Santissimo per non destare l’ammirazione della gente, non usando questo fra di loro e anche perchè fra di loro le specie del Sacramento non si devono mai esporre alla vista del popolo, anzi il Sacramento non deve conservarsi neppure un giorno per l’altro.

La missione dava buoni frutti, parecchi insistevano per essere battezzati e alcuni per ricevere la cresima, sicché mons. Massaia stimò di doverli contentare; e, perchè la cosa avesse del solenne, scelse il giorno della Pentecoste in cui deliberò di tener /103/ pontificale. Tenere pontificale! ma e i paramenti occorrenti? A questi alla meglio si provvide. Mancavano però il pastorale e la mitra. Ma che credete? anche a questo si potè rimediare. Presa una bella canna, la si vestì di una stoffa rossa, le si aggiunse in capo una specie di croce, ed ecco il pastorale bello e formato. Per la mitra si tolse una pelle, la si tagliò in quella forma, la si spalmò di amido, la si rivestì di panno rosso, ed ecco anche questa in ordine. La festa si celebrò con la maggior pompa possibile fra la meraviglia di quella gente che non aveva mai visto cosa tanto nuova e solenne. Vi furono parecchi battesimi, fra cui quello della madre di Gama Moràs, la regina Dunghi, e del figlio di Gama, Gosciò, che prese il nome di Gabriele e che doveva poi succedere al padre nel principato.

Quello della Pentecoste doveva essere un giorno proprio di tutta letizia, poichè, appena finita la funzione, ecco giungere due messaggeri con tre asini carichi di grano, di miele e di burro. Venivano dal centro dei paesi Galla, da Lagàmara; ed era abba Gallèt che li mandava fare in questo modo ossequio ai missionari e a pregarli nello stesso tempo si degnassero venire presso di lui, che aveva loro da comunicare tante cose. Questo abba Gallèt era un cristiano eretico; in buona fede, come si poteva argomentare da’ suoi costumi intemerati e dalla fama di uomo giusto e caritatevole che godeva presso il popolo. Ormai vicino alla vecchiaia una cosa l’angustiava, il dover morire in un paese dove non c’era nè chiesa nè prete cattolico, Ma da due anni incirca a questa parte aveva deposto questa afflizione e ogni tanto lo si sentiva dire: il mio prete è vicino e sarà un vero prete; oh quanto mi tarda /104/ che qui giunga! Donde in lui questo cambiamento e sì ferma persuasione? Non è dato di saperlo: il fatto però si è che la sua previsione stava per avverarsi.

Ma intanto che cosa ebbe deciso da parte sua monsignor Massaia? Fece rispondere per i messaggeri ad abba Gallèt che, appena passata la stagione delle pioggie, avrebbegli mandato un sacerdote per consolazione di lui e per il bene di quel popolo.

Qualche tempo dopo giunse alla missione un’altra gradita ambasciata: il re d’Ennèrea, abba Baghibo, mentre regalava i missionari di un carico di caffè, li pregava volessero andarsi a stabilire nella sua città, che li avrebbe accolti con ogni onore. E giunta la stagione propizia, secondo le promesse fatte, mons. Massaia spedì a Lagàmara il padre Hailù, che potè confortare coi sacramenti quel vecchio venerando, e alcuni messaggeri ad abba Baghibo con l’incarico di presentargli un regalo, un manto reale,ricamato dal suddetto padre; ma questi nel percorso, furono derubati, cosicché arrivarono a mani vuote. Abba Baghibo però li accolse con egual cortesia e nel congedarli fece loro altri regali per la missione, cioè un carico di caffè, uno di burro, un terzo di miele, un quarto di tele, e altri oggetti, e, quel che valeva anche meglio, li fornì di lettere di raccomandazione per tutti i luoghi per cui dovean passare. Insieme abba Baghibo mandava a sollecitare mons. Massaia gli spedisse i missionari chiesti; onde egli per soddisfare al desiderio di Baghibo e insieme al proprio, rimasto solo col padre Hailù in Asandabo, il 3 novembre 1853 spedì il padre Felicissimo e il padre Cesare nell’Ennèrea, donde a tempo opportuno o /105/ uno dei due o entrambi sarebbersi avviati al regno di Kaffa, distante da Asandabo due settimane di viaggio. I regni di Gemma, Ennèrea, Goma, Ghera, Kaffa, alcuni già incontrati e altri che incontreremo nel corso di questa storia, si trovano tutti successivamente, l’uno dopo l’altro, avanzando dal Gudrù verso mezzogiorno.

Il nostro vescovo intanto attendeva a coltivare la sua missione e pensando quanto gli sarebbe giovato il poter fermare in lingua galla gli elementi della fede venne studiando il modo come avrebbe potuto scrivere quella lingua che fin qui non era ancora stata scritta, e finalmente dopo molti sforzi vi riuscì servendosi dell’alfabeto latino. Un’opera molto caritatevole gli occorse qualche tempo dopo di fare. Una mattina mentre stava celebrando Messa fu avvertito da Morka che fuori due donne gli si raccomandavano volesse riscattarle dalla schiavitù, che altrimenti male sarebbe stato per loro. Veramente il nostro, come suol accadere ai missionari, si trovava molto a corto di danaro, ma considerando il caso miserando di quelle due creature credette di doversi abbandonare alla Provvidenza e le comperò. Sborsata pertanto ai mercanti la somma convenuta, quelle povere donne si furono tolte a quell’obbrobrioso servaggio; non è a dire con quale loro contentezza. Una di esse singolarmente prese ad esclamare: padre mio buono, voi mi avete tolta dall’inferno; m’avete strappata dagli artigli del demonio; Iddio vi rimeriti! Oggi mi credeva perduta ed invece mi trovo inaspettatamente salva. Spirano appunto oggi sette anni dacché il vescovo Salama mi disse: ti assolvo da’ tuoi peccati passati, presenti e futuri (anche futuri! ma per quella buona /106/ lana di vescovo eretico valeva lo stesso) fino a sette anni. Oggi ho ritrovato un altro abuna che mi rimette le colpe. La poverina aveva veramente buona intenzione e difatti perseverò nel bene; non così la sua compagna che dopo qualche tempo mons. Massaia credette conveniente di rimandare ai suoi parenti.

Benché il nostro vescovo si trovasse abbastanza ascoltato, tuttavia non è da tacere che aveva però qualche nemico, specialmente nei maghi del paese che per l’opera dei missionari cattolici venivano ad essere esautorati. Ne si contentavan di covar essi soli nel cuore l’astio contro i missionarii, ma si adopravano a far proseliti. Per ovviare dunque a questo guaio e cattivarsi l’animo della popolazione mons. Massaia pensò di far approvare dal consiglio dei Gadà, o capi del popolo, la sua missione e per disporveli imbandì loro un gran banchetto. Raccolte pertanto molte fronde di ghisciò e di thadio e fabbricata con esse e rispettivamente con orzo fermentato e con miele ed acqua gran quantità di birra e di idromele (24 vasi contenenti ciascuno tre brente) e ammazzati due buoi, al giorno fissato verso notte in un vasto capannone ebbe luogo il pranzo d’onore, a cui sedettero tutti i capi o gadà delle tribù del Torba Gudrù, il presidente dei gadà o l’abba Bukù, come si chiama, e Gama Moràs, questi due l’uno a destra e l’altro a sinistra di monsignor Massaia. A questo effetto la regina Dunghi aveagli mandato tutti gli attrezzi necessari al banchetto, 20 canestri di paglia per il pane, un centinaio di corni per la birra e l’idromele, 20 bicchieri e caraffe di vetro per le persone più autorevoli, 30 piatti di terra cotta per il brodo e per il lesso, /107/ altri piccoli piatti pel sale e pel pepe e 50 coltelli: inoltre un servo per ogni due commensali. Da tavola serviva il suolo e da sedie fastelli di erba fresca con sopravi stese 50 pelli di bue (il sedile riservato alle persone nobili). Venuta l’ora, si accesero le fiaccole (straccetti di tela incerata) e seduti i convitati l’Abba Buku col cerimoniale solito nelle grandi adunanze disse: Kotu (vieni); a cui i convitati risposero: dufe (venuto). — Undema Torba Gudrù girato? (È venuto tutto il Torba Gudrù?). E tutti in coro: dufe (venuto). Aperto così solennemente il pranzo, si diede principio alla manovra delle ganasce. Fu dapprima servita la birra, che per essere la prima essendo molto densa e come una poltiglia scusò l’antipasto; quindi brodo con pezzetti di carne brondò o carne magra cruda, in fine carne arrosto; non molte pietanze, ma per compenso abbondanti. E frattanto tra una portata e l’altra era un affaccendarsi di servi nell’apprestare nuovo idromele e nuova birra che veniva tracannata con quella stessa avidità e prestezza con cui era divorata la carne. Dopo parecchie ore finito il pranzo e fatto un po’ di tregua a quel baccano indiavolato sorse dapprima l’abba Bukù e quindi Gama Moràs a far l’elogio dei missionarii chiamandoli ministri di pace, di ordine e di carità; da considerarsi perciò come loro fratelli e degni di essere in tutti i modi protetti, favoriti ed aiutati. A cui tutti in coro risposero: Haitau, haitau (così sia, così sia).

Il giorno dopo mons. Massaia diede un secondo pranzo, più modesto, ai capi famiglia e un altro ai servi e ai poveri del paese: e qui nuovi elogi alla missione ed al suo capo. Insomma fu questa una bella tattica per amicarsi quel popolo; giacché il /108/ Galla che una volta sia stato a pranzo da una persona le si affeziona come amico e le si mantiene costante. E poichè siamo in sul parlare di pranzi è ancora da notare come quel tal signore Saha così felicemente guarito dei rospi dal nostro medico Bartorelli volle invitarlo a casa sua in Ameliè a un banchetto; e perchè la cosa avesse più dell’onorevole invitò pure tutti i principali del luogo a tenergli compagnia. Nel villaggio, o meglio presso le capanne (che villaggi propriamente detti non ve n’hanno fra i Galla, vivendo la popolazione dispersa), presso le capanne di abba Saha dimorò monsignor Massaia parecchi giorni entro una capanna che lo stesso abba Saha gli aveva fornita ed arredata di tutto punto; all’uso galla s’intende, cioè di una pentola, di alcuni piatti, di un forno (due pezzi mobili di terra cotta), di un fastello di paglia e di una pelle concia stesavi sopra ad uso di letto, di una tavola, di una sedia, e s’altro c’entra.

Durante questa sua dimora che cercò di mettere a profitto per quei poveretti venne in cognizione per opera del fratello di abba Saha, un uomo molto istruito (s’intende sempre al modo galla), venne in cognizione di una tradizione che corre in quei paesi: che anticamente caddero dal cielo tre libri, dove c’era racchiusa ogni sorta di notizie. Di questi libri il primo se lo presero i cristiani, il secondo i mussulmani, il terzo, ch’era destinato per gli Oromo (così si chiaman da sè i Galla, siccome discendenti di Orma), fu divorato da una vacca; ma fra gli Oromo, diceva colui, vi sono dei sapienti tanto bravi che sanno leggere il libro nella pelle della vacca e conoscono così ogni cosa. E così veramente tra loro si fa, quando occorre sapere cosa /109/ d’importanza; si uccide una vacca e nella pelle del ventre, ossia nel peritoneo, quei valenti maghi, gli Oghessa, ti scoprono ogni cosa (cioè tuttociò che loro interessa di dire). Quando poi non riescono a decifrar bene la prima scrittura, ammazzano una seconda vacca; e si intende che la miglior parte della bestia ammazzata spetta a loro: chi li ha richiesti dell’oracolo viene a titolo d’onore cinto al collo a guisa di cravatta, del peritoneo. Quanta ignoranza! quanta superstizione! Poveri pagani così gabbati da quei ciurmatori!

Eran tre settimane che mons. Massaia si trovava in Ameliè allorché uno de’ suoi giovani cadde ammalato di vaiuolo; in tutta fretta lo fece caricare sur una barella e, mancando un quarto portatore, data mano egli stesso, lo trasportò con altri tre notte tempo fra le tenebre e attraverso i campi sparsi di pietre e di spine fino ad Asandabo, trovando con dolorosa sua sorpresa anche là altri della famiglia colpiti dallo stesso morbo. Questa malattia, che, quando non uccide, lascia cieco o storpio chi ne è colpito, mise lo spavento in tutta la popolazione d’Asandabo e allontanò la gente dalle case dei missionarii, sicché questi si trovarono, a breve andare, anche in pericolo di morir di fame. Ma quello che pareva sul principio dovesse tornar funesto alla missione riuscì poi molto utile; poichè messosi il dottor Bartorelli a inoculare il vaiuolo, ad eccezione di due o tre, tutti li ebbe salvati; il che non è a dire quanta stima gli accattasse.

Va ricordato qui che il nostro dottor Bartorelli fece in tale occasione una scoperta d’importanza grandissima. Fino allora in quei paesi inutilmente s’era tentata l’inoculazione del vaiuolo col pus re- /110/ cato d’Europa o tolto dalle vacche indigene; sempre era fallita la prova. Pensò il nostro se gli venisse fatto di conseguire il desiderato effetto ricavando il pus dallo stesso individuo colpito di vaiuolo; e la prova gli riuscì splendidamente. E anche vedendo come a quest’opera dell’inoculazione non bene gli servisse la lancetta solita se ne preparò una da sè con un grosso spillo d’imballaggio, che meglio non poteva fargli all’uopo.

In mezzo a questa dura prova dell’epidemia venne a consolarlo un’ambasciata da parte di abba Baghibo che gli recava in dono un bel carico di miele e gli annunziava come i suoi missionari fossero altamente stimati dal re e dalla popolazione e la loro chiesa frequentata altresì dagli eretici. Gli faceva dire ancora abba Baghibo come avesse scritto al re di Kaffa che presto sarebbero giunti nel suo regno dei missionarii cattolici. Queste notizie, dopo lungo pensare, lo indussero a risolversi di lasciare un missionario in Ennerea e di mandarne due in Kaffa, siccome in luogo più distante e perciò più bisognoso. Ma come trovare i soggetti senza allontanare dalla missione di Asandabo il padre Hailù Michele, che d’altra parte era tanto necessario per l’insegnamento a lui stesso della lingua etiopica? Giacche è qui da notare che questo padre, nativo di Gondar e che dapprima chiamavasi Abebaiù, era stato scrivano del famoso Antonio d’Abbadie. Gli scrivani o defteri sono reputati i più istruiti fra gli Abissini.

Considerata bene ogni cosa, stabilì di ordinare sacerdoti il giovane Morka che ritenne il nome primitivo di Giovanni e il giovane Hailù di Saint, che prese il nome di abba Iacob. Occorrendogli poi an- /111/ cora un soggetto scrisse al padre Giusto, che si trovava tuttavia in Betlièm tutto intento ai suoi studi della lingua gheez, che lo raggiungesse in Asandabo. Ma questi adducendo dei pretesti non volle ubbidire; se non che se n’ebbe ben presto a pentire. Per ordine di Salama incatenato e spogliato fu costretto ad uscire dai confini dell’Abissinia per Matamma, donde scalzo e quasi nudo, vivendo di poche gallette di dura avute dai beduini, giunse stremato di forze e affranto dai patimenti a Kartùm. Di qui recossi a Roma, donde, pentito della disubbidienza fatta al suo vescovo, ripigliò la via d’Egitto e per il corso del Nilo, mosse verso Asandabo; ma giunto a Kartùm veniva colto dalle febbri e vi soccombeva improvvisamente nel mese di ottobre del 1856.

(1) Non avendo orologi il nostro Massaia si serviva di mezzi originali per conoscere le ore. Se di giorno e col cielo sereno abbassava perpendicolarmente a terra un dito e dall’inclinazione dell’ombra giudicava con molta approssimazione dell’ora. Così allo stesso scopo servivangli il corso del sole e delle stelle, il canto del gallo e di alcuni uccelli e persino l’uscita dalle loro tane degli scoiattoli e di altri animali. [Torna al testo ]