Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo X.

Nel Libàn Kuttai. — Alle prese con un mago. — Ma questi sono angeli! — Tufa Boba. — La missione dell’Ennerea. — A Loia. — Una incoronazione reale. — Un caro ragazzo. — Una maga sfortunata. — Superstizioni ridicole. — Guerra civile. — Furto e restituzione. — Buoni provvedimenti di Gama. — Un matrimonio cattolico galla. — Una missione a Kobbo.

Scomparsa ogni traccia di vaiuolo, mons. Massaia pensò di fare un’escursione nella vicina regione del Libàn Kuttài dove era signore Tufa Boba, che più volte l’aveva pregato di andarlo a trovare. Toltisi Morka e altri giovani a compagni, si mise in cammino: la prima notte del viaggio si fermarono in un paese di Gama Moràs alloggiando in una capanna di proprietà del medesimo. Or mentre la sera quivi presso i giovani stavano facendo il catechismo alla gente accorsa, ecco sopraggiungere un mago che si mette a fare un baccano indiavolato. Fu pregato di tacere, che a quel modo disturbava tutti; fu come dirgli continuasse a suo bell’agio. /113/ Fu ripregato con insistenza un’altra volta; per tutta risposta fattosi più avanti andò a sedersi accanto al Massaia che stava recitando il breviario e a rintronargli nelle orecchie le sue grida. Allora il Nostro, persa la pazienza, per dare una lezione a quel petulante e peggio, gli lasciò cadere un manrovescio tale che il malcapitato senza richiedere ricevuta prese l’ambulo e via, con meraviglia della turba di pagani che era accorsa a vedere il fatto. Perchè è da sapere che costui vantavasi di intimorire il nostro missionario, e di essere un mago più potente di lui (aveva fatto spargere che il Nostro fosse anche lui un mago); ma si vide che male aveva fatto i suoi conti.

I maghi che presso quei popoli, ignoranti e superstiziosi, si credono poter tutto sono tenuti in molto onore; ve n’ha di due gradi: gli uni che, come il nostro mal arrivato, girano cercando di acquistarsi credito e scroccare regali; e gli altri che già avendo assicurata la riputazione, se ne stanno chiusi nelle loro capanne aspettando che i creduli minchioni vadano a consultarli, e, più, a regalarli. Il nostro mons. Massaia poi non avendo avuto paura di quel mago ed essendosi mostrato a leggere in quel libro era parso agli occhi di quella gente un mago di quelli di primo grado e qual cosa più.

Lasciato quel villaggio dopo aver fatto qualche buona esortazione, si ripigliò il cammino, e ossequiati per via da Kiessi-Boba si giunse verso mezzodì presso Tufa Koriciò, il quale per ristorare la comitiva fece tosto scannare un bue e recare birra e idromele in gran quantità. Costui avendo osservato come i giovani discepoli del Massaia, bevuto un primo corno di birra, non avessero ripetuto ed /114/ anche nel cibo si fossero mostrati molto parchi, ne restò sommamente meravigliato, e credendo fosse effetto di qualche medicina, pregò il Massaia gliela indicasse pe’ suoi figli e schiavi che si mostravan molto intemperanti e dissoluti. E naturalmente il Nostro gli rispose non esser quella medicina umana, ma divina, e gli venne parlando della nostra santa religione e dei sacramenti.

Lasciato Tufa-Koriciò, si avanzò verso il villaggio di Tufa-Boba, il quale lo stava ansiosamente aspettando e gli aveva preparato due capanne per lui e per la sua comitiva con tutto l’occorrente per il vitto. Questo Boba era oltremodo contento della venuta del vescovo cattolico per un suo motivo particolare, perchè sperava colla sua intercessione presso Dio di ottenere un figlio (che fino allora non n’aveva), e il Massaia, datigli avvertimenti sul ben vivere e alcune preghiere da recitare, lo mise in isperanza di conseguire la grazia desiderata, come di fatto qualche tempo dopo la conseguì. In compenso Tufa Boba mandava a dire al Massaia che sarebbesi fatto cristiano lui, la sua famiglia e tutta la sua gente; cosa che sarebbesi avverata se per mancanza di missionari non si fosse dovuto abbandonare quella missione.

Intanto quella di Ennèrea veniva prosperando, tanto che qualche tempo dopo il padre Felicissimo scriveva al Massaia che la maggior parte dei mercanti abissini eran diventati ferventi cattolici, e non solo frequentavano i Sacramenti e le istruzioni, ma ancora cercavano di far proseliti fra il popolo; e che altresì gli abitanti dei dintorni convenivano alla sede della missione per essere istruiti e battezzati. /115/ Da Asàndabo, lasciatovi il padre Hailù, monsignor Massaia ripartì per Loia, dove dimorava uno dei capi del Torba Gudrù, Negus Sciumi, che, come lo aveva tanto desiderato, così, appena lo vide comparire, gli fece le più cordiali accoglienze. Questo Negus Sciumi per essere possessore di più di due mila vaccine era già stato incoronato due volte secondo l’uso del paese: ed ecco in che consiste questa incoronazione. Scannate due vacche, si toglie quel velo morbido che involge il sacco dello stomaco, e lo si mette al collo dell’incoronato a modo di cravatta; poi, tagliate le lingue delle bestie e congiuntele a foggia di corona, le si pongono con gran solennità sul capo al medesimo; indi pranzi, baldorie, canti e grida indiavolate. Un’incoronazione molto strana, si dirà, ma, paese che vai, usanza che trovi, dice il proverbio; e per loro non è dubbio sian cose naturali queste, e, se volete, anche belle; tutti i gusti son gusti.

Presso questo Negus Sciumi monsignor Massaia trovò un caro giovanetto cristiano di nome Avietu. Ed ecco brevemente la sua storia. Alcuni anni prima era dimorato presso Negus Sciumi il celebre Antonio D’Abbadie già altrove ricordato. Or avendo egli un giorno veduto Avietu in pessime condizioni di salute gli aveva dato il battesimo. L’acqua battesimale per divina misericordia non solo ebbe sanata l’anima del fanciullo, ma anche il corpo; e Avietu crebbe sano e robusto, grato sempre al D’Abbadie che aveagli procurato tanta fortuna. Il buon Abba Dia (come là lo chiamavano), aggiungeva Avietu, nel partire mi diede tanti salutari avvisi sul modo di regolarmi, mi pose al collo un’immagine dell’aiana (SS. Vergine), dicen- /116/ domi che nei pericoli di peccare mi rivolgessi a Lei con una preghiera ch’egli mi aveva insegnato; ed altri bei ricordi mi lasciò. Ho seguitato il suo consiglio e me ne trovo molto contento. Quest’uomo tanto buono, diceva un altro in certa occasione, credevasi universalmente fosse parente di san Michele. Tale è il prestigio che esercita la virtù eziandio sull’animo dei barbari!

Durante il soggiorno del Massaia in Loia una delle mogli di Negus Sciumi cadde malata e secondo l’uso del paese venne chiamata una maga a scongiurare per lei gli spiriti maligni. Accorse anche il nostro vescovo e vedendo la maga presso il letto dell’inferma, dubitando dell’intervento diabolico, presa in mano la croce pettorale che teneva sotto la tonaca, pronunciò l’esorcismo colle parole: Christus vincit... Bastò questo perchè la maga di presente si mettesse a divincolarsi, a mandar urla gridando sarebbe ella obbligata a partirsi da quella camera se non fosse cacciato quell’abuna. Ma questi non si mosse e dopo una breve interruzione, ripresa in mano la sua croce, ripetè la solita formola. Anche qui la maga replicò la scena di prima, finchè, disperata, se ne uscì. L’ammalata però era guarita, e, dicevasi da tutti, per opera dell’abuna. I maghi e le streghe dei Galla (così in una sua lettera del 15 aprile 1853) mi rappresentano al tutto le scene diaboliche che nelle nostre storie noi riguardiamo come favole e romanzi.

E poichè parliamo un’altra volta di maghi, è qui da ricordare una delle tante corbellerie che questi fattucchieri per loro interesse danno ad intendere a quella povera gente. Una delle importanti funzioni di questi maghi che sorvegliano al /117/ buon andamenti delle case si è quella di benedire una delle tre pietre che allogansi sul focolare e di metterle colle loro mani a posto; guai però se da taluno, anche inavvertitamente, venisse smossa! ne pericolerebbe tutta la famiglia. Allora che ti fanno i nostri maghi? Fingono esser necessario placare gli spiriti con certi riti e preghiere, che durano naturalmente parecchi giorni, perchè durante questi giorni il mago viene mantenuto dalla famiglia, e dopo poi, riconsacrata la pietra, viene ancora generosamente regalato. — Poveri pagani!

Fatto un po’ di bene a Loia, mons. Massaia ritornò ad Asàndabo menandosi seco il giovane Avietu che doveva sposare la figlia di Gama Moràs.

Ma intanto venivasi preparando una grossa guerra tra Fufi, capo dei Uara-Kumbi e Gama Moràs, smanioso il primo di prendere il sopravvento sul secondo che diceva un intruso ed un usurpatore. E la guerra scoppiò in Asàndabo stesso avendo i soldati di Fufi assalito quei di Gama. Si riuscì tuttavia per allora, mercè l’intervento degli anziani, sempre ascoltati in tali contingenze, a far posare le armi e a venire a trattative in pubblico consiglio. Si radunarono pertanto i capi d’ambe le parti sotto la presidenza dell’abba Bukù in Kobbo e, discussa la questione, si convenne che, fatte alcune vicendevoli concessioni, fosse da concludere la pace. Ma questa dopo tre mesi era rotta dai partigiani di Fufi che ad ogni modo volevano cacciare dal Gudrù Gama Moràs. Al primo rumore delle armi monsignor Massaia, fatto un fardello di tutte le masserizie della casa e dei vasi sacri e caricatine due asini, mandò i suoi innanzi a prendere stanza in un luogo vicino al fiume Abbai; ma questi sgra- /118/ ziatamente diedero nelle mani dei soldati di Fufi che li ebbero spogliati di tutto, sicché tornarono dolenti al Massaia annunziando l’esito disgraziato della loro andata. E certamente con questo venivano tutti a trovarsi in ben difficile condizione; senza denari, senza vasi sacri, senza coperte, senza vettovaglie; per qualche giorno ebbero a patire veramente la fame. Ma il cielo che, se prova i suoi, non li abbandona, dispose che il partito di Gama rimanesse vincitore, sicché i missionari poterono ritornare tranquilli al Gudrù dove dal generoso Gama furono ristorati largamente dei danni sofferti.

Al nostro monsignor Massaia tra gli altri oggetti era stato tolto il burnos, specie di cappotto terminante con cappuccio, che soleva portare sulla tonaca bianca, che usano vestire i monaci abissini. Questo burnos, come chiamasi nella lingua del paese, era come un distintivo della sua persona, talché al vederlo con esso anche di lontano subito il riconoscevano per l’abuna Messias; l’aveva quindi molto caro ed anche gli faceva molto comodo servendogli di buon mantello per ripararlo dal freddo. N’ebbe però molto dispiacere della sua perdita e aveva fatto cercare se mai fosse stato possibile ritrovarlo, ma non se n’era potuto scoprire traccia. Senonchè una mattina levatosi ecco se lo vede in casa, senza sapere, nè allora, nè poi, come fosse potuto ricomparire colà, talché da tutti dicevasi esser ciò avvenuto per miracolo. Il fatto si è che, ricuperati qualche tempo dopo dai nemici gli involti degli oggetti derubati alla missione, nello scioglierli si trovò mancare il solo burnos, il che valse a confermare maggiormente l’opinione di /119/ un miracolo, e perciò si volle poi conservarlo come tale nella missione di Lagàmara.

Ritornando a Gama Moràs, questi per ingraziarsi sempre meglio l’animo dei missionarii e mostrare la sua propensione per la religione cattolica nominò capo del suo piccolo esercito un cattolico, certo Ualde Ghiorghis, e sopraintendente del mercato un altro cattolico. Di più ordinò fosse rispettata come giorno sacro la domenica e proibì si mangiasse carne macellata dai mussulmani; cosa che per quei luoghi ritiensi come una professione di fede maomettana, nè senza fondamento, accompagnandosi l’atto dell’ammazzar la bestia con certa formola sacra, diversa secondo la diversità delle religioni. Nè contento di questo, mandava alla missione le decime del mercato e per avere propizio il cielo nelle sue imprese edificò su una amena collina un santuario a S. Michele dichiarandolo patrono del regno e patrono speciale delle sue milizie, le quali prima di attaccare battaglia dovevano perciò recarsi colà a pregarlo, e poi, riuscendo vincitrici, a ringraziarlo.

Intanto vedendo monsignor Massaia come, tranquilla e ben avviata com’era la missione di Asàndabo, avrebbe potuto senza danno di questa pensare a quella di Kaffa, la cui fondazione da qualche tempo aveva decisa, ma finora non aveva ancora effettuata, giudicò che fosse giunto il momento favorevole a questo. Una cosa però premevagli di veder prima conchiusa, ed era il matrimonio di Avietu, figlio adottivo di Negus Sciumi, colla figlia di Gama Moràs: matrimonio da cui potevan ripromettersi molti vantaggi per la evangelizzazione di tutto il Gudrù, essendo entrambi gli sposi cristiani /120/ ferventi. E tanto più presto bramava vederlo conchiuso in quanto che aveva sentore che si cercava di mandarlo a monte. Ma egli tanto seppe dire e fare che il matrimonio fu stabilito, e come regalo dello sposo Negus Sciumi, padre adottivo di Avietu, spedì alla fidanzata un bel cavallo, cinquanta buoi e altrettante pecore e capre. Al giorno fissato pertanto i due sposi, ascoltata la S. Messa, si comunicarono, indi secondo il rito di S. Chiesa furono uniti in matrimonio. Dopo questa solennità religiosa venne la solennità o festa civile, secondo l’uso del paese. Come preludio della festa il padre della sposa diede un sontuoso banchetto a trecento principali del Gudrù, e quindi carne e birra a tutti indistintamente, paesani e forestieri. Finito il pranzo, gli sposi uscirono dalla capanna salutati al loro comparire da frenetiche ovazioni del popolo che s’accalcava al di fuori: un coro di cento donzelle a loro volta intonò un canto in lode della sposa. Indi si formò il corteo nuziale: l’aprivano alcuni soldati a cavallo ed altri a piedi; venivano dopo i trecento anziani sulle loro cavalcature riccamente bardate, e dietro cinquanta delle suddette fanciulle cantando. Seguivano su due superbi muli gli sposi fiancheggiati da dieci fucilieri, cinque per parte, e dietro le rimanenti cinquanta donzelle, anch’esse cantando; poi soldati e popolo. E tra il canto delle fanciulle e le grida festose del popolo e gli spari dei fucili e lo scalpitìo dei cavalli era uno spettacolo degno di essere visto. Così mossero verso Loia ricevendo sul loro passaggio, dovunque incontravan gente, liete ed entusiastiche accoglienze. Giunti alla casa di Avietu si fece la cerimonia del racco, che, sebbene tenesse del superstizioso, avendo tut- /121/ tavia un valore legale, monsignor Massaia non credette di doverla proibire. La cerimonia del racco consiste in questo: il fidanzato lega alla porta della casa della fidanzata una vacca che poi va a scannare di sua mano e col sangue di essa asperge le capanne e i circostanti recitando certa formola, dopo la quale innanzi a tutto il popolo colà congregato dichiara che quella che fino a qui era sua fidanzata d’or avanti dovrà essere riconosciuta per sua moglie. Questa in sostanza, lasciatene le parti superstiziose, fu la cerimonia che compì Avietu al suo ingresso in Loia.

Seguì l’immancabile banchetto di parecchie centinaia di invitati e per altri otto giorni consecutivi pranzi alternati in casa di Avietu e di Negus Sciumi, con il relativo consumo di carne, d’idromele e di birra, e con necessario accompagnamento di canti, di suoni e di baldorie.

Concluso quest’affare, che valse al nostro missionario un grande aumento di stima da parte della popolazione, e di affetto e di riconoscenza da parte di Gama Moràs, che così si vedeva consolidato nel suo dominio, monsignor Massaia si portò a dare una missione in Kobbo dove c’erano cristiani eretici tanto corrotti per causa di certi scandali che peggiori non erano i mussulmani medesimi. Dimorò colà alcune settimane e colle sue conversazioni e colle sue prediche e col beneficio dell’innesto del vaiuolo, aiutato altresì dallo zelante Abba Ioannes, il giovane Morka che aveva ordinato poco prima, riuscì a scemare in parte gli scandali e a fare un po’ di bene. Sapeva male a quegli abitanti di veder partire il nostro missionario; e volentieri l’avrebbero trattenuto con se, ma urgenti necessità /122/ richiamavano il Nostro ad Asàndabo. Per consolarli il buon vescovo promise quanto prima sarebbe ripassato fra loro per battezzare quelli che trovasse disposti, e che del resto, come gli fosse possibile, avrebbe mandato fra loro un sacerdote o almeno un catechista a continuare l’opera sua. Dati intanto alcuni salutari avvisi e raccomandata l’osservanza di alcune pratiche religiose, fra i ringraziamenti sinceri di quella gente si partì.