Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo XI.

Festose accoglienze in Kobbo. — Ricevimento trionfale a Loia. — Due giovani modelli. — Il viatico dei poveri e il viatico dei ricchi. — Cioma. — Il lago verde. — A Gombò. — Fatiche d’un vescovo medico. — A Giarri e a Gobbo; fatiche e consolazioni. — In via verso Lagàmara. — Vicende della guerra fra Lagàmara e Celia.

Abbiamo accennato di sopra al proposito del nostro missionario di portare anche ad altri popoli la cognizione del vangelo. Congedatosi pertanto da Gama Moràs, ai primi di settembre 1855 accompagnato da alcuni cattolici il Massaia moveva da Asàndabo alla volta della sua nuova missione di Lagàmara. Desiderando però di rivedere i villaggi di Kobbo e di Loia, dove un poco di bene aveva già operato col disporre parecchi alla conversione, deliberò di fare nell’andata una breve sosta in entrambi. A Kobbo fu ricevuto con le più entusiastiche dimostrazioni di stima; Kisti Duki, uno dei principali del luogo che dal Massaia era stato guarito da grave malattia, gli andò incontro con un /124/ numeroso seguito di schiavi e di famigliari, e con abbondanti regali di latte, idromele e birra. Assegnatagli quindi una capanna pel suo uso, gli mandò quella sera stessa un grosso bue e fino a che rimanesse colà ordinò ai suoi dipendenti gli recassero ogni giorno quindici pani e due grossi corni di latte.

Fatto quivi un po’ di bene, amministrato il battesimo a molti bambini d’ambo i sessi e a qualche adulto, e anche rimediato a qualche scandalo, il nostro missionario volse i passi verso Loia. Incredibile fu la gioia onde venne accolto in questo villaggio; il buon Aviètu e Negus Sciumi fra le grida d’esultanza della popolazione e al suono dei pifferi e al rullo dei tamburi su cavalli fastosamente bardati gli mossero incontro. Introdottolo in casa, la prima cosa Avietu per esprimergli la propria contentezza volle lavargli i piedi e baciarglieli; il che fece con tale visibile affetto che il buon missionario ne restò veramente intenerito. Oltre a due buoi, mandò poi ancora a regalarlo di altre cose e in tutti i giorni che rimase in Loia, sempre vi fu e per parte di Avietu e di Sciumi banchetto sontuoso e grande invito dei maggiorenti del luogo in suo onore. Ma più che queste dimostrazioni di stima e di affetto rallegrò il suo cuore il bene spirituale che potè ottenere in quel villaggio. Le istruzioni erano sempre molto frequentate e con visibile gioia ascoltate, sicché molti poterono essere preparati al santo battesimo, fra i quali vanno specialmente ricordati un giovane ed una giovane di puri costumi che Avietu e sua moglie s’avevano educati e che riguardavan come loro fratello e sorella.

Perchè avesse a destare sul popolo una salutare impressione avea disposto il nostro vescovo la fun- /125/ zione del battesimo si facesse colla maggior solennità possibile. Con due specie di ali fatte di cartone attaccate ai fianchi seguiti da una lunga processione i due giovani mossero dalla loro casa alla volta della cappella sulla cui soglia furono incontrati dal nostro missionario che ve li introdusse. Fu quindi loro amministrato il santo battesimo, in cui fu loro imposto, ad uno il nome di Angelo ed all’altra di Angela; e con felice pensiero, vanto parevano assomigliarli nella candidezza dei costumi. Avietu e sua moglie vollero a titolo d’onore esserne i padrini e insieme con loro ricevere la Santa Comunione. Fu una funzione addirittura commoventissima, che strappava davvero le lacrime per la consolazione. Come si vede, era questo un campo la cui coltura prometteva abbondanti frutti, ma era giocoforza per allora lasciarlo e portarsi altrove.

Intanto la moglie di Avietu aveva pensato a provvedere al Massaia e alla sua comitiva il necessario viatico, giacché in paesi barbari non è da sperare di trovare nel cammino osterie, botteghe o altro. Quando si tratta di gente meschina, il viatico è presto preparato, una certa quantità di ceci abbrustoliti entro un otre; ecco tutto; ma quando si tratta di signori la faccenda corre diversa; allora ci vogliono i corni pel latte, per la birra e per l’idromele; ci vuole un selicià (otre) ripieno di buon bessò, impasto di orzo tostato con acqua melata che preso denso può servire di pietanza e, diluito con acqua, anche di bevanda rinfrescante; ci vuole un altro selicià ripieno di pasta di linseme abbrustolito, intriso nel miele, che anch’essa secondo la dose dell’acqua può servire di pietanza o di bevanda. Ci vuole infine lo scirò o farina di /126/ fave tostate, mescolate con carne sminuzzata, e poi salame di bue e biscotti di farina (1) di frumento impastata con burro e miele. Come si vede, una buona e ghiotta provvista per barbari. Tale press’a poco aveva disposto il buon Avietu fosse il viatico per la nostra comitiva.

A tutto questo avrebbe ancora voluto aggiungere una buona cavalcatura per monsignor Massaia, ma essendo questi uso a viaggiare col caval di San Francesco, a piedi scalzi, e col suo famoso bastone alla mano, non fu possibile fargliela accettare. Così disposta ogni cosa, il nostro missionario uscì da Loia fra il rincrescimento grande di quella popolazione che avrebbe desiderato trattenerlo presso di sè. A titolo di onore vollero accompagnarlo per lungo tratto Negus Sciumi, e Gama Moràs che da Asàndabo era venuto apposta a Loia per salutare ancora una volta il suo buon amico abba Messias. Non occorre dire che Avietu era nel seguito d’onore, egli anzi col suo servo Angelo, quando gli altri si furono allontanati, volle ad ogni costo scor- /12/ tarlo per un altro buon tratto fino alle frontiere del Gudrù. Or in quest’andata avvenne un fatto commovente che va narrato. Monsignor Massaia avendo osservato che il caro Angelo era tutto rannuvolato in faccia, ne lo richiese del motivo. Ah padre, gli disse questi, e come poss’io non esser triste pensando che voi ve n’andate ed io dovrò tornare in Loia, dove tanti pericoli di perdermi mi aspettano? Ah se io potessi venire con voi! Se è così, gli rispose il missionario, domandane il permesso al tuo padrone, che io per me sono disposto a riceverti nella mia famiglia. Allora gettatosi ai piedi di Avietu e affettuosamente stringendoglieli, ah padron mio, esclamò, padron mio caro, voi mi rendereste davvero felice, quando mi concedeste di seguire il nostro missionario. Troppo bene io sto con voi sì, ma di vivere in quel paese, in mezzo a quei pericoli che voi sapete, proprio non me la sento; il mio desiderio sarebbe di poter un giorno diventare prete, ne altra via ci vedo che mettermi nella famiglia dell’abuna Messias. Allora Avietu, quand’è così, rispose, sia fatto come desideri, e se prete diventerai possa tu assistermi nel mio passaggio all’eternità. Dire qual fosse la gioia di Angelo non è possibile, pareagli di trovarsi nell’anticamera del Paradiso.

Frattanto camminando eran giunti a Cioma, villaggio che sorge sull’estremo lembo meridionale dell’altipiano del Gudrù, e che guarda da quella parte una magnifica vallata traversata da un fiume dello stesso nome che dopo alcune pittoresche cascate, a un certo punto forma un curiosissimo lago tutto ricoperto alla superficie di verdissima erbetta. Vi abitava una popolazione di buoni pastori, la /128/ quale, come seppe dell’arrivo dell’abuna Messias, del famoso prete medico, subito corse a lui per essere vaccinata; cosa che il buon missionario fece a ben 130 persone con sua grande consolazione, ma altresì con sua grande fatica, sì da rimanerne spossato.

Ma ormai conveniva ripigliare il viaggio. A mezzanotte pertanto, svegliati i servi ed Avietu, si partì; giunti per una discesa di cento metri in riva al lago verde di sopra nominato, colla prestezza propria di quei selvaggi si tagliarono alcuni alberi di grosso fusto, e, scavatine i tronchi, si furono così alla meglio formate parecchie zattere nelle quali entrati passarono alla sponda opposta.

A questo punto Avietu si separò dal nostro missionario; con quale dispiacere e rincrescimento di entrambi è facile capire dall’intenso reciproco affetto. Entrati in Gombò furono tosto alle capanne loro assegnate da uno dei principali del paese, e qui ancora essendo pervenuta la fama della prodigiosa valentìa del missionario nel curare il vaiuolo fu tosto un accorrere di molte persone per ricevere da lui, commessi dicevano, la medicina portentosa. E il nostro missionario per la sua carità trasformatosi in medico, attese per otto giorni continui a inoculare il vaiuolo.

Il curioso si fu che dapprima i fanciulli alla vista del Massaia, non avendo mai vista faccia di bianco, di europeo, scappavano via come dalla presenza di un mostro; una giovane poi più ardita per tutto complimento gli sputò in faccia; ma poscia, svanito questo primo timore, venivano a lui sicuri; anzi, sparsasi la voce nei vicini paesi, anche da questi trassero persone a ricevere l’innesto del va- /129/ iuolo. E il nostro vescovo ne godeva, perchè così aveva agio di esercitare la carità verso quei poveretti e col beneficio materiale apprestare loro un beneficio spirituale molto maggiore, parlando loro della nostra santa religione; e parecchi bambini ebbe così battezzati e anche qualche adulto e molti poi disposti favorevolmente al vangelo.

Bisogna dire però ad onore di quei barbari, in ciò degni di essere imitati da molti popoli civili, che si mostrarono molto grati del beneficio ricevuto; perocché, come il nostro apostolo si fu in sul partire, vollero tutti presentargli i loro regali, i più ricchi di un bue, e gli altri chi di una capra, chi di una pecora, o di galline, o di burro o di pane, o di sali (sali, sia qui detto una volta per sempre, sono pezzi di sale che presso quei popoli valgono come presso noi la moneta spicciola). Nè a ciò contenti vollero in corpo accompagnarlo fin su una montagna di frontiera dove l’abba Bukù a nome della popolazione lo dichiarò suo particolare amico e benefattore.

A Giarri, dove arrivarono dopo alcune ore di discesa, le stesse festevoli accoglienze da parte della popolazione, che a sua volta volle anch’essa godere del beneficio dell’innesto del vaiuolo. E ancora qui alla partenza del nostro missionario si rinnovarono le stesse offerte di buoi, pecore, burro; nè questo solo, ma si volle ancora imbandire in suo onore un sontuoso banchetto a cui presero parte tutti gli anziani del paese. E quasi non sapessero che fare di più per esprimergli la loro riconoscenza, molti, un dopo l’altro, presero a fare gli elogi del missionario, finchè, per conchiudere, levossi l’abba Bukù, il quale pronunziò gravemente queste pa- /130/ role: senti, o Giarri, questo uomo ci è stato inviato da Dio, e persino il suo sputo è d’oro. (Per capire questa frase occorre notare che nell’innestare il vaiuolo soleva il nostro inumidire colla saliva lo siero, ed essi ingenuamente credevano che ciò avesse molta virtù). Egli vuole lasciarci, nè noi vogliamo impedirlo, ma il luogo di sua residenza non essendo lontano da noi, noi saremo sempre presti ai suoi cenni, come ai cenni di un padre. Da oggi in poi i suoi amici saranno amici nostri, e i nemici suoi nostri nemici.

Questa fermata a Giarri non era stata inutile per le anime; cinquanta bambini s’eran battezzati e molto favorevolmente s’eran disposti gli adulti a ricevere una prossima volta la fede. Pure quei di Giarri vollero a titolo d’onore e d’affetto accompagnare l’abuna Messias; uomini, donne e fanciulli, lieti insieme e dolenti. Commovente poi oltre ogni dire fu la separazione; gli si gettarono a’ ginocchi, e quali baciandogli i piedi, quali le mani, gli esprimevano insieme la loro gratitudine pei benefici ricevuti e il rincrescimento di vederlo partire, nè lo lasciaron finchè non si ebber fatto promettere che sarebbe fra non molto ritornato fra loro. Già s’era dilungato di un pezzo e ancora gli gridavan dietro: negavi gala (arrivi bene); a cui egli rispondeva intenerito: negavi taa (statevi bene).

Man mano che i nostri s’avanzavano nella pianura vedevano più lussureggiante farsi la vegetazione e più chiaramente delinearsi all’orizzonte cime frastagliate di monti che presentavano un aspetto incantevole. Mentre pascevan l’occhio in quella magnifica prospettiva, ecco giungere ai loro orecchi, ripercosso dall’eco dei monti, un suono /131/ confuso, che a misura che tiravan innanzi sentivano farsi più distinto. Era la popolazione di Gobbo che anch’essa, non volendo parer da meno delle altre, veniva trionfalmente incontro ad abba Messias. Anche qui le stesse operazioni dell’innesto del vaiuolo, e nel contempo le stesse istruzioni religiose, gli stessi regali, le stesse allegrie, e accompagnamenti d’onore nella sua partenza.

Nel tragitto da Gobbo a Lagàmara s’abbatterono in un albero feticcio, un grosso sicomoro che portava fra i suoi rami madornali lunghi da 10 a 15 metri cassette ripiene di carne, miele, grano; che il tronco aveva vestito di nastri a diversi colori, e più giù verso terra era intorno intorno spalmato di burro; tutto questo per opera di quella povera gente superstiziosa. Giacche è qui da notare che (come il nostro scrive in una lettera dell’8 dicembre 1858) «ciascuna famiglia possiede un albero che è come il suo Dio tutelare e a cui, chi il crederebbe! dà uno di quei nomi che sono oggetto della nostra cristiana venerazione, Dio, la S. Vergine, S. Michele, ecc., e questi adorano e credono presenti in quegli alberi. Sono altre piante a cui danno il nome di abbo, antica divinità abissiniana, ed altre ch’essi credono possedute dal demonio o dal serpente tentatore. Alcuno fra questi alberi è divenuto celebre santuario, a cui vengono in pellegrinaggio da lontanissimi luoghi». Tornando al nostro racconto, si vedeva che si era fra pagani o paganeggianti. Tuttavia l’accoglienza non fu meno cordiale e clamorosa, l’ingresso nel paese men solenne. Precedevano cinquanta giovani a cavallo, seguiti da altre persone, pure a cavallo; quindi il nostro missionario circondato dai maggiorenti di /132/ Lagàmara, e dietro una gran turba danzando, cantando, suonando, mandando grida di gioia; in Lagàmara non s’era mai veduta festa tanto splendida.

Ma un grave pericolo era per correre la missione. Quei di Celia, villaggio vicino, erano da qualche tempo in guerra con quei di Lagàmara, e questi ultimi avevano toccata una grave sconfitta e s’eran vedute ardere 800 capanne. Or questi avendo dell’abuna Messias un concetto addirittura straordinario furono a pregarlo volesse dare loro vittoria sopra i loro nemici. Ma il torto veramente era dei Lagamaresi. E perciò il nostro missionario li consigliò a domandare la pace; al che, restii da prima, dopo qualche altra scaramuccia perduta, si furono poi indotti. Secondo l’uso del paese pertanto, presa una pecora, e aspersala per l’abba Bukù del sangue di un toro e legatale al collo una nidiata d’uccelletti, si spedi a Celia. Facevano da ambasciatori in quella rischiosa impresa, che unicamente pel bene dei Lagamaresi s’eran addossata, abba Ioannes e il padre Hailù Michele.

Entrati dunque costoro in Celia, già avevan disposto il popolo favorevolmente, quando insorsero alcuni mestatori mussulmani che per odio contro i nostri missionari che vedevano così bene accolti dai Lagamaresi lo distolsero dall’aecettare la pace; cosicché invece di scannare colà la pecora, come sarebbesi dovuto fare se si fosse conclusa la pace, si dovette riportare indietro. I Lagamaresi ne rimasero costernati, onde un’altra volta furono al nostro missionario pregandolo volesse dar loro una medicina che li salvasse dai loro nemici e li rendesse vittoriosi. Il nostro apostolo allora prendendo occasione da ciò disse come desiderando d’essere /133/ aiutati dovessero raccomandarsi non ai feticci, agli idoli loro, ma sì al Dio vero dei cristiani; da parte sua avrebbe poi loro data una medicina molto potente. E questa fu che, fatte fabbricare alcune croci e benedettele con gran solennità, andò accompagnato dal popolo a piantarle sui confini.

Quei di Celia annettendo a quei segni un potere straordinario ne furono sgomenti; a ciò si aggiunse che il figlio di uno di quei mussulmani che avevan dissuasa la pace, cadde mortalmente malato, e andava continuamente gridando che non sarebbe guarito se non si fosse ricorso al prete di Lagàmara. Queste ed altre cose pareva dovessero consigliare quei di Celia ad accordare la pace, ma anche questa volta vollero correre alle armi; ma mal per loro, che da quei di Lagàmara ricevettero tale sconfitta che furono addirittura prostrati; quanti non si diedero alla fuga giacquero morti sul campo rimanendo pasto alle iene e agli avoltoi.

Celia cadde così sotto il dominio dei Lagamaresi; quanto si trovò in essa passò in potere dei vincitori, secondo l’uso di guerra di quei luoghi; i muli cioè se li presero i capitani, i cavalli i soldati che furono primi ad impossessarsene, i terreni coltivi vennero divisi fra i capi (dula) dell’esercito e i loro soldati, e così le masserizie delle case. Queste pòi ed i poderi che le circondavano lasciate agli antichi proprietari, ma mediante un compenso in denaro. Così questa guerra che per lungo tempo era stata sfavorevole a Lagàmara finiva con esserle vantaggiosa, e vantaggiosa pure alla missione, che d’allora in poi fu riguardata come una salvaguardia del paese.

(1) Ecco come si fa il pane in Abissinia. Si pesta il grano fra due sassi, fatica riservata alle donne. Ottenuta la farina, che, secondo i luoghi, è o di tièf, specie di miglio, o di durra, sorta di frumentone rosso, o dagussa, cereale indigeno, e spentala entro acqua calda o fredda, secondo che il clima è caldo o freddo, la si lascia fermentare, indi la si mette a cuocere. Il forno abissino consiste in una specie di tegame piatto, che chiamasi metad, quello galla pure in un tegame, ma fatto a cono rovesciato e dicesi ellè. Lo si mette sopra alcune pietre e vi si accende il fuoco sotto. In men di mezz’ora si ha la tavita, sorta di focaccia, e continuando a metter pasta sul coperchio riscaldato si cavano altre tavite. E così press’a poco si fa col forno galla, salvochè il pane esce di foggia diversa. Il forno scioano si discosta poco dal forno galla. Erigerà, chiamano il pane gli Abissini, gli Scioani dabbo, e i Galla buddena. [Torna al testo ]