Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo XII.

Ostilità dei maghi verso la missione. — Salutare castigo. — Inquilini molesti. — Fauna di Lagàmara. — Notizie dolorose. — Il gran pianto galla. — Una lacrimevole apostasia. — Una morte preziosa. — Compera di un terreno. — Un’imboscata.

Lagàmara (come suona il suo nome laga fumé e amara cristiano) era una colonia di abissini passati anticamente nel Tibie e qui stanziatisi; come tutti gli altri abissini, erano cristiani eretici, ma a poco a poco pel commercio coi nativi, pagani e mussulmani, ne avevano prese le idee e i costumi. Però allo stabilirsi della missione cattolica fra di loro ricordarono la loro antica religione ed in pochi anni si ridussero la più parte all’ovile di Gesù Cristo, diventando taluni cattolici veramente fervorosi. Quando i missionari vi penetrarono, vi ricevettero, come abbiamo visto, entusiastiche accoglienze, specialmente per opera di quel buon vecchio di abba Gallèt, già altrove da noi ricordato. Tuttavia non è da tacere che trovarono anche /135/ dei nemici, specialmente nei maghi che temevano, e giustamente, pei nuovi venuti avesse a scapitarne il loro prestigio.

I maghi sono una vera piaga di quei poveri popoli barbari. Son ritenuti avere un potere straordinario per guarire dalle malattie, scoprire il futuro, aver sorte favorevole negli affari; onde a loro si ricorre in tutti i casi di qualche importanza, avendosi i loro responsi quali oracoli della divinità. Naturalmente essi non gettano la loro arte gratuitamente, e quindi in breve andare si fanno ricchi e potenti. Uno di questi ciurmatori tenevasi da tanto che uscendo facevasi accompagnare da due servi, uno che tenevagli spiegato sul capo un ricco ombrello, e l’altro che recavagli, ovunque si portasse, un seggiolone su cui sedersi; come convenivasi, diceva il mago, al suo grado.

In Lagàmara e nei dintorni ve n’avevan parecchi e davan non pochi fastidi ai missionari; anzi una notte una mano di faziosi da costoro istigati, diedero improvvisamente l’assalto alle loro capanne; ma essendo sopravvenute le milizie del paese li ebbero costretti a precipitosa fuga. Or fra le tenebre non iscorgendo ove mettessero i piedi, alcuni caddero in un burrone ferendosi malamente. Fra gli altri uno s’era come infilzato in un palo acuto cosicché si udiva mandare lai strazianti. Accorse il Massaia e veduto il poveretto in quello stato, ne lo tolse e lo portò nella sua capanna. Osservata la ferita e constatato che fortunatamente non era grave, prese a curarlo e in breve lo ridusse in buono stato. Il meschino che era stato fra i più caldi nemici dei missionarii al vedersi così da loro trattato, si sentì commuovere e prendendo la mano /136/ di monsignor Massaia e baciandogliela, io, gli disse, era venuto per uccidervi e il Signore mi ha punito. Voi potevate lasciarmi morire dove mi trovava, e invece m’avete usata la carità di salvarmi non altrimenti che se fossi vostro figlio; ah non ho parole per ringraziarvi, nè vorrei più separarmi da voi, perchè insieme colla guarigione del corpo spero per mezzo vostro ottenere anche la guarigione dell’anima.

Questo fatto servì non poco a far conoscere ed apprezzare sempre meglio l’opera disinteressata e caritatevole dei missionarii. Contuttociò i maghi non cessavano dal tendere continuamente insidie contro di loro, e, perchè favorevoli ai missionari, anche ai maggiorenti che li proteggevano. Anzi un di coloro molto potente subornò il figlio di abba Baghibo a ribellarsi al padre. Ma, sventata la trama, i ribelli furono imprigionati, e il mago, segreto istigatore della ribellione, citato a comparire innanzi al re; il quale, fattolo conoscere al pubblico per quel ciurmatore che era, seduta stante, insieme con altri dieci suoi manutengoli o emissari lo fece gettare in un fiume in pasto ai coccodrilli. Questa severa lezione giovò non poco a screditare quei famosi fattucchieri, con grande vantaggio del popolo che così non si spogliava più del proprio per arricchire quei farabutti, e anche con non piccolo vantaggio dei missionari che tal superstizione condannavano.

Intanto rassodandosi le cose monsignor Massaia pensò di fabbricare una cappella e alcune case da servire pei suoi famigliari e pei forestieri che sopravvissero. Ma quando furono fatte, ecco entrarvi una moltitudine spaventosa di serpenti, /137/ talché si ebbe non poco a faticare e per un buon pezzo prima di riuscire a sbrattarne gli ambienti. Un utile servizio in questo gli prestarono le galline e i gatti, che, specialmente quelli di piccola dimensione, riuscirono coi loro morsi ad ucciderli. Passata questa infezione, ne venne un’altra, un esercito di formiche bianche e nere che condotte dalle loro regine (anche le formiche hanno le loro regine, sicuro!) recarono grande guasto alle vettovaglie. Tra le bianche e le nere, come tra due fazioni nemiche, si veniva qualche volta a battaglia, ma le nere, siccome più deboli, quasi sempre rimanevano perdenti. A notarsi, riguardo a queste formiche, che fabbricano certi cunicoli sotterranei così ben condotti, con cellette con sì bell’ordine distribuite, che ne disgradano le api.

Nei dintorni di Lagàmara vi sono anche dei leoni, che però non assaltano mai gli armenti e le persone, se non sono affamati. Così ancora vi sono tre specie di leopardi, più o meno feroci contro le bestie, ma innocui verso le persone, eccettochè abbiano incominciato a gustarne il sangue. Vi albergano pure dei porcospini, e degli hualdeghessa, specie di porci con coda a pennacchio di cui si servono a scavare la terra e i sepolcri per divorarne i cadaveri. Questi, come altri animali, iene, volpi, ecc., sogliono i paesani prendere al covo imboccandone l’entrata con sterco disseccato di bue e dandovi poi fuoco, sicché dal fumo rimangono asfissiati. Il porcospino arreca gravi danni alla terra mangiando le fave, i piselli, i tuberi delle piante, gli ortaggi; ed è appunto per causa di questo animale che il Massaia dovette smettere in Lagàmara la coltivazione delle patate che egli pel primo aveva /138/ seminato in quei luoghi barbari. Gli riuscì però di introdurne la coltivazione nell’Ennèrea ed in altri luoghi, con grande vantaggio di quelle popolazioni.

Tornando all’apostolato del nostro Massaia, dobbiamo dire che, tolte alcune piccole traversie, poteva da qualche tempo dirsi veramente contento; il popolo seguitava a dargli ascolto, e non passava settimana che qualche adulto non venisse alla fede, non solo dei Lagamaresi, ma altresì dei contorni; perchè anche dai contorni si accorreva a sentire il padre bianco tanto buono, che tanto bene faceva al popolo colla sua medicina, e che tante belle verità insegnava non prima udite. Anche dalla missione di Asàndabo, amministrata dal padre Hailù, riceveva notizie consolanti. In questo mezzo gli pervennero varii plichi di lettere. Una della Santa Sede con cui questa accogliendo la sua domanda staccava la stazione di Aden dalla missione galla e autorizzavalo a consacrarsi un coadiutore di sua scelta. Un’altra del padre Sturla con cui questo buon missionario notificavagli che per ragioni di salute era costretto a ritornare a Genova. Un’altra di fra Pasquale da Duno in cui il buon fra laico davagli conto della procura da lui tenuta e di quanto erasi fatto in Aden e insieme che, affranto di salute era costretto a rimpatriare. E ancora altra lettera informavalo come la missione di Aden veniva affidata al padre Giovenale, missionario spagnuolo testé arrivato dalle Indie. Insieme con queste altre notizie, molto dolorose, giungevangli.

Dapprima fu la notizia che una somma di cento talleri (di cui aveva estremo bisogno) speditagli dal De Iacobis era andata perduta; non si sapeva se per /139/ frode del messo o di un capo di villaggio presso il quale costui l’aveva depositata. Poi, anche più dolorosa, la notizia della morte del suo genitore, del padre Giusto, e del protettore dell’Ordine e tenero amico suo, il cardinal Franzoni.

Come si sparse nel popolo la voce di queste morti, fu un accorrere a lui, prima dei Lagamaresi e poi degli abitanti dei dintorni, per esprimergli le loro condoglianze e, come colà si dice, fare il pianto. Per otto giorni continui, dal levar del sole fino alla sera, il nostro Massaia, per secondar l’usanza del luogo, fu costretto starsene seduto su una scranna innanzi alla sua capanna a riceverli. Arrivavano a frotte, uomini e donne, quelli collo sciamma abbandonato a terra, queste colle chiome scarmigliate, e levando grida dolorose e celebrando a modo loro le lodi del defunto, o meglio del missionario cui tale disgrazia era incolta, gli si avvicinavano, gli prendevano le mani o i piedi baciandoglieli con grande affetto. Il che fatto, andavano a sedersi poco discosto in cerchio, quivi rimanendo per lo spazio di un’ora mesti, taciturni, salvo che a quando a quando traevano alti sospiri; e se ne andavan infine ripetendo come nell’arrivo: ani bade! ani bade! son perduto! son perduto!

Finiti questi giorni di duolo (di prammatica per quei luoghi), monsignor Massaia pensò a celebrare un funerale per ciascuna di quelle tre care persone; funerale che si fece con tutta la solennità, come era possibile con la scarsezza, per non dire mancanza, di ogni arredo, e coll’assistenza di due soli preti che sapevano appena storpiare un po’ di latino. Tuttavia il concorso fu numeroso e l’impressione prodotta su quei barbari viva e salutare.

/140/ Dopo i funerali conveniva pure pensare al taskar o pranzo funebre, solito offrirsi in tali circostanze. E non essendovi in questo nulla di contrario alla fede, anzi potendo trarne qualche spirituale vantaggio, deliberò di darlo. Pertanto per alcuni giorni tenne tavola imbandita (cioè tavola per modo di dire) servendo a chiunque si presentasse pane, lesso e brondò o carne cruda. Ma frattanto egli stesso e gli altri missionari venivan facendo delle istruzioni sulla sorte delle anime nostre nell’altra vita, sullo stato delle anime purganti, sulla utilità dei suffragi, e perchè questa salutevole divozione fosse messa in opera si faceva prima e dopo il pranzo recitare loro il così detto rosario dei morti che constava di 150 requiem con un Pater ed Ave per ognuna delle quindici poste.

Non era ancora cessata la commozione per le sopradette sventure, che un’altra, molto più grave, molto più sensibile al suo cuore di religioso e di vescovo, veniva a ferirlo. Ecco un giorno arrivare un corriere con una lettera del padre Felicissimo, che reca la triste, tristissima notizia che un de’ suoi missionari, il padre Cesare, residente in Kaffa, aveva sgraziatamente tradito i suoi doveri e i suoi voti inviluppandosi in una illecita pratica. Fu per restarne accasciato. Ahimè tante fatiche in pericolo di andare a vuoto, tanto bene in procinto di svanire, e la fede de’ suoi nuovi figli messa a sì difficile cimento! Che fare? Ormai lo scandalo non si poteva più tener celato; risolse di ripararvi come meglio gli era possibile. Radunati i suoi cristiani ed esortatili a pregare per la conversione del povero padre Cesare, annunziò in quella sera stessa incomincierebbe una muta di spirituali esercizi, /141/ acciocché da quella caduta, non che prendere occasione di intiepidirsi, imparassero anzi a infervorarsi maggiormente nel servizio di Dio.

Questo quanto ai suoi cristiani di Lagàmara; quanto al disgraziato padre Cesare fecegli tenere paterne lettere in cui l’esortava caritatevolmente a lasciare l’infausta via che aveva presa e a tornare pentito al dover suo. Ma purtroppo quelle lettere rimasero senza effeto: la piaga del povero vescovo si rincrudiva.

Senonchè un fatto veniva in parte a consolare lui di tanta afflizione e a commovere santamente il popolo. Il buon abba Gallèt, che altrove abbiamo nominato e che in Lagàmara e nei dintorni godeva tanta stima quanta può desiderarne un uomo, venuto in fin di vita, aveva voluto con edificante pietà ricevere i santi sacramenti. Or prima di spirare, chiamati attorno al letto i suoi famigliari, caldamente raccomandò loro di rimaner costanti nella fede che avevan ricevuta dal prete di Roma, per nulla scossi dal tristo esempio di uno de’ suoi compagni missionari, perchè l’infelice un giorno o l’altro riconoscerà il suo fallo e tornerà pentito all’ubbidienza dell’abuna Messias. Queste parole risaputesi poi da tutti non è a dire quale salutare effetto producessero.

Il buon vecchio veniva a morte il giorno di Pasqua, e il giorno dopo se ne fece la sepoltura, una sepoltura quale mai s’era veduta in quelle parti. Quella lunghissima fila di fedeli recanti ceri accesi, quella croce levata in alto, quei canti del Miserere così patetici, quei riti delle esequie oh come commossero i cuori, come fecero apparir bella e santa la nostra religione! Alla sepoltura erano /142/ intervenuti non solo quei di Lagàmara, ma quanti dei dintorni ne avevano avuto notizia; tanto il buon Gallèt era stimato e venerato! E veramente se lo meritava. E dopo questa testimonianza di affetto altra se ne ebbe di poi, non meno solenne e numerosa, nel pianto, come colà usasi, e nel relativo taskàr o pranzo mortuario dato dalla famiglia in onore del defunto. E qui ci cade in acconcio di toccare di alcune consuetudini di quei popoli a questo riguardo. Morto un individuo, si atterra un tronco, lo si vuota si da poter contenere il cadavere che vien portato su una barella da quattro parenti ed avvolto in una stuoia coperta da ricco tappeto. Presso i Galla alla morte del capo di famiglia il primogenito immola un animale sulla tomba del padre, e con quest’atto intende affermare il suo diritto al maggiorasco e dichiararsi capo sacerdote della sua famiglia; ciò che praticasi anche da certi Abissini.

Molto era rimasto afflitto il nostro buon vescovo dalla prevaricazione del suo missionario, ma non per questo sfiduciato rimise del suo zelo. Per estendere maggiormente i vantaggi della missione pensò di comperare un certo tratto di terreno e di stabilirvi una colonia di cattolici. Messo dunque l’occhio sopra un fondo che più gli parve adatto all’uopo, fece le pratiche necessarie per la compera. Non avendo gli stranieri fra i Galla (come già fra gli antichi Romani) personalità legale e dovendo per stipulare un atto pubblico farsi adottare da qualche indigeno, il nostro missionario ricorse all’uopo a un certo Nencio Semeter. Coll’assistenza di questo pertanto si portò presso certo Sarda Gadà da cui intendeva fare la compera, e convenutosi /143/ del prezzo, si concluse il contratto; ed ecco con quali formalità. Portatosi egli e il suo tutore, Nencio Semeter, e Sarda Gadà nel fondo di quest’ultimo si piantò in terra un palo e tenendolo tutti e tre fra le mani, pel primo il venditore disse: Io vendo questo terreno a Nencio Semeter per abba Messias al prezzo di 60 talleri (era la somma pattuita). A cui Nencio rispose: e io lo compro da Sarda Gadà per abba Messias al prezzo di 60 talleri. E consegnatogli il nostro il denaro, gli disse: Hai ricevuto il prezzo? — Sì, rispose quegli, l’ho ricevuto; onde il terreno non è più mio, ma tuo. Dopo di che monsignor Massaia fece tagliare da un suo servo un arboscello. Il venditore poi condusse il nostro missionario nelle cinque case coloniche inerenti al fondo e in ciascuna di esse in segno di presa di possesso lo fece sedere alcuni minuti, indi, come tratto di cortesia, servì a lui e ai suoi famigliari un corno di birra.

Qualche giorno dopo la conclusione di questo contratto il nostro Massaia ricevette la notizia che certo giovane Paolo mandato da Aden dal padre Sturla (il quale per ragione di salute aveva dovuto tornare a Genova) era giunto a Egibiè con alcuni carichi di provviste destinate a lui. Deliberò dunque di mandargli il padre Hailù e abba Ioannes incontro. Il padre Hailù tenne la via di Kobbo per visitare quella cristianità, ed il padre Ioannes si diresse per Asandabo. Con questo padre si unì una numerosa carovana di cattolici e di non cattolici di Lagàmara, in tutto circa mille persone, dirette anche esse ad Egibiè per ragioni di commercio. Fino ai confini del Goggiàm procedetter bene, ma giunti di là dal fiume Abbai, dove secondo /144/ l’uso dovevano esser scortati da soldati Goggiamesi, questi si ricusarono di adempiere l’ufficio loro. La carovana però fiduciosa nel proprio numero, tirò lo stesso innanzi, ma quando si fu messa per un sentiero che attraversava un bosco, ecco piombarle addosso quali avvoltoi una squadra di ben quattrocento malandrini, che, presili in mezzo e all’estremità, dopo una debole resistenza, parte li trucidò e parte, le donne e i fanciulli, fece schiavi, portandosi naturalmente seco tutto il bottino.

Di quella disgraziata spedizione non si salvarono se non quelli che ebbero in tempo presa la fuga e abba Ioannes, il quale per essere vestito da monaco abissino essendo stato riconosciuto fu lasciato libero, anzi senza essere disturbato potè raccogliere un giovane ferito e portarlo alla missione dove l’ebbe caritatevolmente curato.

In quella occasione si vide ciò che sia l’umanità fra i pagani; perchè una moglie avendo veduto suo marito gravemente ferito, anziché prestargli soccorso, lo prese e lo gettò in un fosso, e scorto lì accanto un sacco di caffè, questo, come oggetto molto più prezioso, molto più caro, si portò via.

Amore coniugale pagano!