Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo XIII.

Notizie d’Europa — Una grande carestia. — Buon cuore dei missionari e riconoscenza dei Lagamaresi. — Il buon Samaritano. Persecuzioni ed esiglio di monsignor De Iacobis e dei suoi fedeli. — Perduto! — A Leka, Nonno Roghiè, Nonno Billò. Missionario e medico. — Bel paesaggio! — La reggia di Abba Baghibo. — Un nuovo vescovo.

Tornando allo scopo del viaggio suddetto, il giovane Paolo potè poi giungere finalmente nel Gudrù per la via di Zemiè festosamente accolto dai missionari. Questo giovane oltre a buon sussidio di denari, di cui il Nostro sentiva estremo bisogno, recava ancora molte preziose notizie. Una lettera da Genova del padre Sturla, dove quel santo sacerdote notificavagli aver lasciato la missione di Aden moltò ben avviata nelle mani del padre Giovenale. Da Torino una necrologia di Silvio Pellico, l’illustre autore delle Mie Prigioni, il quale avevagli lasciato come ricordo un piccolo legato. Una lettera del segretario del ministro francese per gli affari d’Oriente, il signor Faugèr, e insieme colla /146/ lettera molti giornali di Francia in cui si dava al nostro Massaia del profeta per avere nella sua Memoria sull’Opera dei Mussulmani in Oriente scritta a petizione del ministro Lahîte, antiveduta la guerra che questi avrebbero mosso agli Inglesi nelle Indie e nell’Arabia; guerra che in effetto era appunto scoppiata in quell’anno 1856.

Intanto s’avvicinava un terribile flagello. La lunga guerra durata tra Lagàmara e Celia e i conseguenti saccheggi, l’abbandono dei campi seguitone per timore che i raccolti fossero devastati dai nemici, la numerosa immigrazione di Goggiamesi fuggiti quivi dalle rapine e dalle ferocie dei soldati di Kassà, sempre in guerra coi suoi rivali, la sopravvenuta stagione delle pioggie che intercettava tutti i passaggi e l’andata ai mercati per fare provviste, le copiose incette di frumento fatte da ingordi negozianti, tutte queste cause ebbero in breve determinata in Lagàmara e nei dintorni una grave carestia.

In tali frangenti conoscendosi già per prova la bontà dei missionari si prese a ricorrere a loro. Venivano alla spicciolata, a gruppi, uomini, donne, fanciulli, smunti, scheletriti, chiedendo per carità un tozzo di pane, un po’ di grano bollito, di legumi, tanto da non cader di fame. I missionari, non occorre dirlo, diedero tosto mano alle provviste che avevano, con denari provvidenzialmente arrivati fecero altre compere; e così a tutti poterono somministrare qualche cosa, un po’ di carne ai malati, ai fanciulli più bisognosi e ai vecchi grano bollito o minestra, agli altri dei legumi, a tutti insomma qualcosa. Assottigliandosi le provviste ammezzarono la propria razione affine di poter continuare /147/ il soccorso; dato fondo anche a queste, si ricorse alla carità dei ricchi del paese, e si ebbero carichi di grano e di legumi e di carne; e così tra le provvigioni proprie, aumentate per le proprie astinenze, e i sussidi altrui si potè nutrire quella turba numerosa di affamati dal giugno fino al settembre, in cui, passata la stagione delle pioggie e maturate le messi, ebbe fine quella lunga e dolorosa carestia.

Allora ritornando ciascuno a possedere qualche cosa, non è a dire quale gratitudine mostrassero verso i missionari. Tutto il giorno era un arrivare incessante alla casa della missione di persone che recavano chi un uccello preso alla caccia o qualche pesce cavato dal fiume, chi piselli, chi ceci, chi uova o galline, e insieme, ciò che più piaceva e inteneriva, i loro ringraziamenti, le loro calde parole di riconoscenza, in questo mostrandosi molto più civili di certi popoli civili. Al qual proposito il nostro prelato osserva «che la Provvidenza veglia e guarda con occhio di vigilanza e di amore non solo tutte quante le creature nelle loro varie vicende e traversie della vita, ma principalmente quei suoi ministri che con la parola e con l’esempio si fanno apostoli di carità a pro dei miserabili». Quella carestia adunque fu per la missione una difficile prova, ma finì anche con essere una bella vittoria; ormai i missionari presso quelle popolazioni erano diventati padri.

E veramente di padre aveva il nostro Massaia tutte le buone qualità: e altresì quelle di medico pietoso e dotto, per quanto a un profano dell’arte è dato d’essere. E questo s’era già veduto anche prima coll’innesto del vaiuolo e colla cura della febbre gialla e delle febbri malariche e di altre /148/ malattie, quasi sempre seguita da felice risultato; e si vide anche meglio dopo quella terribile carestia del 1857. A cagione dei lunghi patimenti sofferti molti si erano ammalati di dissenteria, ed ecco il nostro missionario trasformato in medico accorrer presso quei poveri infermi e curarli con rimedii che egli provando e riprovando era riuscito a scoprire, e che nei più dei casi ottenevano il loro effetto, onde per questa sua bravura era da molti chiamato il gran mago, perchè presso quei popoli i maghi, come già si è detto, si occupano anche di medicina, con questa diffrenza però che costoro il più delle volte, invece di guarire i loro clienti, o per ignoranza o perchè subornati con denari, se trattasi di ricchi, in vantaggio di terzi, li mandano più presto all’altro mondo.

In questo frattempo giunse in Lagàmara abba Fessah, la cui ordinazione in sacerdote fatta dall’eretico Salama egli aveva alcun tempo prima convalidata. Questi recavagli parecchie lettere, fra cui una del padre Gabriele da Rivalta con cui gli si diceva inviarglisi per abba Fessah trecento talleri, di cui però il nostro Fessah non ne consegnava che cento, dicendo che gli altri li avrebbe portati un suo fratello rimasto indietro nel viaggio; solenne bugia come il Massaia subito sospettò e come poi si vide dall’effetto.

Ma questo era il meno; notizie molto dolorose gli venivano sulla missione di mons. De Iacobis. Questi, lasciato alla costa il coadiutore mons. Biancheri, s’era portato in Gondar con intenzione di assalire l’eresia nella sua cittadella e forse anche colla speranza di trovarvi il martirio. Ma quivi allora era potente l’eretico Salama, il quale di più /149/ avendo favorevole il fortunato conquistatore Teodoro, potè sfogare l’odio suo inveterato contro i cattolici, e specialmente contro il De Iacobis, che insieme con altri cinque sacerdoti indigeni fece chiudere in prigione e assoggettare a ogni sorta di patimenti. Anzi il perfido Salama aveva dato ordine a’ suoi famigliari di uccidere il santo vescovo, ma questi, più umani, gli agevolarono invece la via a fuggire; come gli venne fatto.

Intanto i cattolici così perseguitati da Salama emigrarono in Lagàmara sperando di trovare ospitalità presso il nostro missionario. Il quale si trovò così addossati altri carichi ben gravi; quello di provvedere il vitto a tanta gente e quello non meno noioso, e pieno di sollecitudini, di vegliare all’ordine ed alla quiete loro; cose non tanto facili a mantenersi tra gli Abissini, d’indole generalmente superba e sprezzante, e i Galla che potevan vantarsi di essere in casa loro.

E oltre a tutte queste cure un altro grave pensiero lo teneva afflitto, l’ostinazione del padre Cesare nella sua apostasia. A più riprese gli aveva già per lettera fatta sentire la sua voce, ora amorevole, ora minacciosa, ma a nulla era valsa. Risolse di inviargli un secondo formale monitorio, con cui lo esortava paternamente a ravvedersi. «Io piango amaramente, concludeva, sulla vostra perdizione, ma per salvare l’onore della Chiesa e le anime da voi scandolizzate non esiterò di legarvi al collo la terribile pietra della scomunica e gettarvi in mare». Indi, chiusa la lettera (prosegue nelle sue Memorie), la collocai sotto la pietra sacra dell’altare (il che soleva io sempre fare trattandosi di risoluzioni od atti di grave importanza rispetto /150/ al mio ministero) e vi celebrai Messa tre giorni di seguito, affinchè il corpo e il sangue di G. C. la rendessero salutarmente efficace. Ma neppur questa ebbe miglior esito. Che fare? pensatoci bene su e consultatosi nell’orazione con Dio deliberò di andare egli stesso a trovarlo e a parlargli in persona per vedere di smuoverlo dalla sua funesta aberrazione. Ma non potè così presto movere come avrebbe desiderato; faccende molteplici della missione lo trattennero e d’altra parte occorsero lunghe pratiche per ottenere di entrare nel regno di Kaffa.

Intanto passando il tempo e divulgandosi sempre più la notizia dello scandalo credette suo dovere, dopo tre monitorii riusciti infruttuosi, di colpirlo di scomunica, come fece. Il poveretto al terzo monitorio che gli era stato presentato per mano di abba Iacob aveva melanconicamente risposto: «Forse che i morti possono risorgere?!». Come si vede, sentiva tutta la gravità del suo fallo, ma non aveva il cuore di ripararlo.

S’avvicinava intanto il termine che il nostro vicario apostolico aveva fissato per la partenza, e non volendo lasciare quella sua greggia senza un solenne ricordo, li esortò ai sacramenti; e quasi tutti con grande consolazione dell’animo suo corrisposero all’invito.

Questo fatto e dati altri avvisi pel buon andamento della missione cui lasciava affidata al padre Hailù, il 4 aprile 1859, tre anni dopo la sua entrata in Lagàmara, moveva da questa città verso la capitale dell’Ennèrea, dove da quel re, abba Baghibo, sperava trovare l’appoggio di cui aveva bisogno per entrare in Kaffa. La popolazione di Lagàmara, memore dei singolari benefizi ricevuti /151/ dal nostro apostolo, nol volle lasciar partire senza dargli un attestato della sua riconoscenza; e quella mattina del 4 aprile ben 50 rappresentanti delle più ragguardevoli famiglie sopra superbe cavalcature gli fecero per un buon tratto scorta d’onore, mentre gli altri accorrevano al suo passaggio a dargli un reverente e affettuoso saluto.

La prima fermata del nostro missionario fu a Leka, luogo di gran mercato, dove gli convenne, al solito, inoculare il vaiuolo a un buon numero di persone, ricevendone in compenso molte consolazioni spirituali nel fervore che destò nei cattolici e nelle buone disposizioni che mise negli eretici e nei pagani. Da Leka avanzò verso Nonno Roghiè; anche qui cortesemente accolto ed ospitato e altresì regalato di buoi, pecore, capre, miele, e andate discorrendo.

Da Nonno Roghiè a Nonno Billò si stende una pianura deliziosa coltivata ad ogni sorta di cereali, ombreggiata da piante e qua e là rigata da perenni ruscelli che scendono da leggiere montagne e amene colline che la circondano da ogni parte. E sparse per tutta questa vasta pianura sorgono capanne di pacifici abitatori, che oltre ai copiosi prodotti che ricavano dalla terra nutrono nelle grasse pascioni numerose mandre. Ancora da questi ebbe le stesse oneste accoglienze e doni di burro, capre, miele, e ogni ben di Dio; s’intende col compenso da parte sua dell’inoculazione del vaiuolo.

Così impiegando circa un mese per fare un tragitto per cui sarebbero bastati quattro giorni giunse finalmente in Saka, capitale dell’Ennèrea.

Avvertito abba Baghibo della venuta del prete bianco, a titolo d’onore gli mandò incontro il pro- /152/ prio figlio; la qual cosa mosse naturalmente tutta la popolazione a tenergli dietro. Giunto adunque il nostro vescovo su un mulo riccamente bardato (fornitogli dallo stesso re) in Saka, venne fatto segno alle ovazioni della folla che restava meravigliata di una tale accoglienza fatta a un forestiero che entrava a cavallo nello stesso recinto della reggia; onore che non suol concedersi se non ai principi.

E qui non sarà discaro un cenno sulla reggia di questo re barbaro. Essa si stende alle falde della montagna dell’Ennèrea che dà il nome alla contrada e abbraccia un circuito di circa un chilometro, difesa all’esterno da uno steccato tutto inverdito da piante rampicanti, penziglianti a festoni e intreccìantisi. Nell’interno, diviso quartiere per quartiere secondo la lor qualità, sonvi da trecento capanne, quali per gli ufficiali della corte, quali pei soldati di guardia, quali pei ministri, per gli schiavi addetti ai vari servizi, al governo dei cavalli, alla macina del grano, alle faccende di cucina e andate discorrendo. Nel centro sorge un maestoso palazzo (maestoso s’intende per quei barbari) formato di due muri circolari concentrici, alti l’interno dieci metri e sei l’esterno, e fatti di robusti pali strettamente connessi, rinzaffati, in luogo di gesso e di calce, con bovina impastata con paglia secca. Il vano lasciato dalle due pareti è diviso in quattro grandi tratti formanti altrettante sale bislunghe di cui quella che si trova all’entrata è riservata ai pubblici ricevimenti, e quella che le risponde di fronte è destinata pel trono. Su tutto il recinto si estende un gran padiglione in forma di cono fatto di pertiche ben connesse e rivestite di paglia che a guisa di stecche di ombrello dal centro /153/ vanno stendendosi ai muri del palazzo. Dal vertice del tetto s’eleva come freccia un’asta ricoperta di uova di struzzo, segno di grande ricchezza negli altri luoghi e qui di reale potere. Nella sala del trono poi, su per le pareti, armi, trofei ed, elevato su parecchi gradini, un magnifico seggio dall’alta spalliera rivestita di foglia d’argento (cioè di stagno), e di qua e di là del signore che dà udienza soldati in divisa; il tutto in gran pompa, s’intende sempre tra barbari; ma tra barbari certo abba Baghibo primeggiava per lusso e magnificenza.

A presentarsi dunque degnamente a un sì illustre signore conveniva mettersi in alta tenuta, e così fece il nostro vescovo cucendosi a quest’effetto qualche nastro agli abiti e mettendosi un anello al dito e un gran turbante in capo, e fuori, sul petto, la croce pettorale che sempre teneva nascosta. In questa forma egli si presentò in udienza ad abba Baghibo che lo ricevette seduto sul trono e circondato dai magnati del suo regno. La visita fu improntata alla più schietta cordialità, ma, dettogli poi il nostro in segreto colloquio il motivo del suo viaggio e chiestone il parere, n’ebbe non troppo confortanti parole, dipingendogli quegli la cosa difficile assai.

Pure non ostante queste malaugurose previsioni di abba Baghibo monsignor Massaia era risoluto di partire per il Kaffa; il pensiero della salvezza di un’anima, del ravvedimento di un suo confratello gli faceva mettere in non cale la sicurezza propria. Temendo però che qualcosa di sinistro, chi sa, forse anche la prigionia o la morte, avesse ad accadergli, pensò di premunire la missione col consacrare vescovo, secondochè n’aveva avuto facoltà dalla Santa /154/ Sede, il padre Felicissimo; il quale suo malgrado dovette rassegnarsi ad accettare un tal peso.

La mattina pertanto del 3 maggio 1859 in una capanna convertita in oratorio aveva luogo il solenne pontificale; solenne pel valore di esso, non certo per lo splendore esterno. Figurarsi! invece di una bella cattedrale, una capanna; invece di ricchi paramenti, pianete, piviali, tunicelle, guanti di seta, ecc. ecc., alcune tele colorate tagliate dal vescovo stesso e da’ suoi alunni; in luogo di mitra di damasco anche qui una tela su cartone, e in luogo di bastone pastorale d’argento un bastone con figura di una rivestitura più o meno d’argento, ma che non avrebbe però ingannato nessuno. Pure la funzione non riuscì meno commovente, meno interessante, come lo dimostrarono le lacrime dei due vescovi e la visibile divozione e contentezza dei fedeli assistenti. La domenica seguente poi ordinava anche un sacerdote, cui poneva nome abba Matteos, che quantunque di scarso ingegno ottenne però col suo zelo molto frutto nel ministero.

Fatto questo, monsignor Massaia il 25 maggio lasciava Saka e, varcata la montagna dell’Ennèrea, ed entrato nel regno di Goma, per più ore seguendo a non lunga distanza il corso del fiume Didessa, giunse a Saio capitale di Goma. Quivi si separarono; il nuovo monsignore ritornò alla missione dell’Ennèrea e abba Ioannes a quella di Lagàmara, mentre monsignor Massaia col padre Hailù e co’ suoi alunni tirò innanzi nel suo cammino arrivando la sera ai confini di Goma.