Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

/156/

Capo XIV.

Una foresta. — Nella capitale di Ghera. — Abba Tabacco e Abba Aràssabo. — Missioni in Afallo. — Paesaggio. — Un piccolo S. Luigi africano. — Un funerale fra i barbari. — Conversione d’un giovane mussulmano. — Una lotta col principe delle tenebre. — La vittoria.

Tra Goma e Ghera si stende una vasta foresta di altissime piante e fitte che intrecciando i loro rami a vicenda vi formano quasi un verde immenso padiglione attraverso a cui il sole appena può far penetrare di straforo qualche raggio; onde anche nel pieno meriggio e nella stagione estiva più che luce chiara e calore intenso v’è uno sfumato albore e una frescura deliziosa. Un senso di orrore arcano sperimenti a prima vista, quasi entrassi nel regno delle fate, ma poscia di dolce ammirazione e di sublime poesia che t’ammalia e rapisce lo spirito. Una delle belle meraviglie, e son tante, della mano creatrice di Dio!

Traversata in due ore questa foresta, si giunse nel territorio di Ghera, e, continuando la via, alla /156/ capitale Ciala, accolti con grande onore dalla popolazione e dal suo re, abba Magàl. Or mentre il nostro apostolo, coadiuvato da dodici catechisti, stava ivi istruendo quella gente nella fede, aspettando intanto le necessarie protezioni pel proseguimento del viaggio, ecco comparire un certo abba Tabacco, capo dei Bussassi (eretici cristiani d’origine kaffina) il quale supplicava il nostro missionario volesse andar egli o mandare qualcuno dei suoi ad Afallo ad evangelizzare quegli abitanti, perchè non volevano ormai più saperne del loro prete eretico, un cattivo arnese, certo Aràssabo. Questi temendo, e n’aveva ben donde, di perdere ogni credito se i missionarii cattolici si fossero colà stabiliti, mosse loro delle molestie richiamandosi di loro presso il re; ma abbandonato dai suoi, dovette rassegnarsi a lasciar andare le cose pel loro verso, ed egli stesso poi, seguendo miglior consiglio, si convertì al cattolicismo, e, pare, con sincerità.

Per aderire ai desiderio di quel buon signore, il Massaia mandò ad Afallo il padre Hailù e alcuni giovani catechisti, tra cui uno di nome Gabriele, i quali ebbero ben presto a rallegrarsi dell’opera loro; maggiore corrispondenza non avrebbero potuto aspettarsi da quella popolazione. Basti per tutto questo fatto; avendo dovuto il padre Hailù recarsi a Ciala per celebrare la Messa, perchè in Afallo era mancato il vino, tutta quella popolazione volle accompagnarlo. Divisa in tanti drappelli guidati ciascuno da un catechista mosse dietro al padre Hailù da Afallo recitando il S. Rosario e altre preghiere che avea imparate, e in questa guisa, in atteggiamento divoto e pregando, entrò in Ciala fra /157/ l’ammirazione di quel popolo che non aveva mai visto spettacolo sì bello e commovente.

Ma frattanto i giorni passavano e da abba Magàl il nostro missionario invece di aiuto, come s’era aspettato, non riceveva che ostacoli alla sua andata, anzi ebbe ad accorgersi a parecchi segni che si tentava di far cadere anche lui nella rete, come era caduto il povero padre Cesare. Risolse dunque di ricorrere un’altra volta ad abba Baghibo e intanto per non perdere il tempo pensò di dare una corsa ad Afallo dov’era ansiosamente aspettato. Lasciata Ciala, in compagnia di abba Tabacco e di alcuni giovani catechisti, si mise per una via che sale dolcemente ad una catena di montagne, i cui dorsi e vallate, trovò rigogliose di vegetazione e specialmente ricche di cocciò o musa enset, come la chiamano gli Abissini, pianta preziosa da cui ricavano in quei luoghi il pane.

Giunti all’estremo lembo si prese la discesa per dolci pendii che vanno gradatamente a finire in una estesa pianura divisa dal fiume Goggèb, limite di confine tra Ghera e Kaffa. Oltre il fiume il terreno prende nuovamente a salire grado grado fino a portarci sulle alte vette che fan corona a Bonga, capitale del regno di Kaffa. A mezza costa della montagna, in luogo ameno sorge Afallo, meta dei nostri viaggiatori, i quali al loro arrivo furono accolti da quegli abitanti con alte grida di allegrezza e al canto di inni in lingua kaffina. Era poi una gara nel portare ai missionarii ogni ben di Dio; si vedeva con che affetto li aspettavano; e si vide anche meglio con che desiderio di profittare della loro istruzione; poichè nei quindici giorni che si fermarono colà fu un istruire continuo giorno e notte, il giorno le /158/ donne e la notte gli uomini. E quali frutti si raccolsero! circa duecento battesimi, di cui cento di adulti, più di cento cresime, molte comunioni e parecchie benedizioni di matrimonii.

Tosto si diede mano a fabbricare anche la cappella, di paglia s’intende, che il padre Leone des Avanchères convertì poscia in un’altra di muratura aggiungendovi tettoie ed attorno un cimitero, dove avevano poi ad esser deposti lo stesso missionario, padre Leone, e il famoso viaggiatore italiano Giovanni Chiarini che colà per opera della regina di Ghera trovò la prigione e la morte, men felice del suo compagno Cecchi che dalle mani dei barbari potè sottrarsi e nel 1882 rimpatriare (1). Le ossa del Chiarini furono poi trasportate in Italia, alla sua patria, in Chieti, dall’intrepido viaggiatore vercellese, Franzoi, aiutato in quest’opera pietosa da un catechista del Massaia.

Tornando al quale, si era da pochi giorni restituito in Ciala, quando gli giunse da Afallo la notizia che il più zelante dei suoi catechisti s’era gravemente ammalato, notizia che era presto seguita da quella anche più triste della sua morte. Quanto n’avesse a soffrire il cuore del nostro apostolo si comprende di leggeri, quando si sappia che questo giovane, appena quindicenne, molto bene rispecchiava l’angelico S. Luigi. È pregio il dirne qualche cosa.

Gabriele apparteneva ad una famiglia di mercanti di Lagàmara. Abitando vicino alla casa della missione aveva presto fatta conoscenza col prete /159/ bianco e aveva anche presto posto amore alla religione cattolica e al suo ministro, tantoché chiese ai genitori gli permettessero di ritirarsi nella famiglia del missionario; ciò che gli fu concesso con non minore consolazione sua che del missionario, il quale già aveva intraveduto qual tesoro di giovane egli si fosse. Presto Gabriele imparate le verità principali della fede (aveva otto anni), fu ammesso al battesimo, alla cresima e all’eucarestia. Se già prima aveva un’anima buona, un costume puro, da quel momento però apparve un angelo terreno, tanto era il fervore con cui pregava e con cui riceveva la S. Comunione, tale era lo zelo che dispiegava nell’insegnare il catechismo a’ suoi coetanei e a quanti si presentassero alla missione per essere istruiti. Imparati su un manualetto steso dal Massaia alcuni esempi di vite di santi, li andava raccontando ai giovani suoi pari per animarli alla virtù e tirarli sempre più a Dio e, se ancora pagani o eretici, a convertirsi. Nè in questo badava a disagio o a fatica, e volentieri avrebbe lasciato anche il cibo e il sonno per istruire il popolo nella fede. Spirava poi da tutto il contegno, dalle parole, dal tratto, dall’aspetto tale un’aria di purità, che addirittura metteva edificazione in quanti lo mirassero; cosa che avveniva non solo nei cristiani, ma anche negli stessi eretici e nei mussulmani, uno dei quali, per citare un solo esempio, certo Camo di Ciala, guadagnò alla fede. Il Signore inoltre l’aveva anche privilegiato di visioni e di celesti cognizioni, che egli nella sua ingenuità credendo cose naturali andava per edificazione narrando agli altri.

Tenerissimo era il suo amore per l’augustissimo Sacramento dell’altare. Valga per tutto questo /160/ saggio. Una volta il nostro missionario nella Messa celebrata poc’oltre la mezzanotte aveva comunicati parecchi suoi famigliari, tra cui Gabriele. Tutti gli altri dopo alcuni minuti di ringraziamento s’erano addormentati, ma il nostro Gabriele vegliava tuttavia e non credendo d’essere sentito andava ripetendo fra sè e sè: il nostro padre ci dice che noi dobbiamo invidiare gli angeli, perchè essi vedono di continuo la faccia di Dio; ma mi pare che dopo la santa comunione essi debbano invidiare noi, perchè noi possediamo il Signore dentro il nostro stesso cuore. Oh! che piacere! Oh! che piacere!

Tale era il nostro Gabriele, e tale si conservò sempre fino ai quindici anni; e pensare che gli furono tese tante insidie, gli furon giocati tanti tiri per farlo prevaricare!

Ma veniamo alla sua morte. Sentendo esser questa vicina (del resto più volte l’aveva egli predetta) volle ricevere da monsignor Cocino (già padre Felicissimo) che l’assisteva, i sacramenti della Chiesa; con quale fervore non occorre dire. In quei momenti estremi chiese perdono a tutti degli scandali dati (e quali scandali poteva aver dato, angelo di costumi qual era?) e volse anche un pensiero al suo caro abuna che avrebbe tanto desiderato vedersi vicino, ma pazienza! disse, il buon monsignore è occupato in ben altre faccende. Poveretto! quanto soffre per causa del padre Cesare! Ma ditegli che non s’affigga più oltre, che l’apostata si convertirà e riparerà largamente il male fatto e opererà grandi conversioni; predizione che doveva appuntino avverarsi, come vedremo.

Congedatosi così dalla terra, quell’angelo di giovane volava alla patria sua, al cielo. Dire il dolore /161/ di quei d’Afallo che già avevano imparato a conoscerlo, già lo avevano preso in venerazione di santo, non è possibile; ed egual dolore provarono gli abitanti dei villaggi ove era conosciuto, non esclusa la stessa corte di Ciala, benché mussulmana.

Per dare sfogo alla pietà e all’affetto del popolo si dovette, contro l’uso dei Galla che sogliono seppellire i cadaveri tuttora caldi, lasciarlo esposto un giorno nella capanna. Gli s’accostavano piangendo, ne baciavano, riverenti, le mani, i piedi, la bocca, da cui avevano udite tante parole di amor di Dio, e si ritiravan commossi per dar luogo ad altri che si succedevan senza posa ripetendo gli stessi atti. Nella cappella ornata per l’occasione di fiori e di verzura, avente in mezzo il feretro, monsignor Cocino cantò Messa. Quella capanna fiorita, quei canti, quei riti, quei ceri accesi, quei giovani negri in bianca cotta, ginocchiati intorno ad un altro giovane, morto, ma che pareva vivo e solo dormente, oh come commovevano, come intenerivano! Solo dopo il mezzogiorno fra il pianto universale quel cadavere verginale venne deposto nel sepolcro: attorno al quale, come attorno alla tomba di un santo per averlo più vicino e quasi edificarsi al ricordo di tante sue virtù, si alzarono poi diverse capanne! — Com’è vero, o Gabriele, che anche tra i barbari la nostra religione sa formare dei santi, degli angeli!

Tornando al nostro vescovo, qualche giorno dopo ricevette una lettera del padre Leone des Avanchères, con cui lo avvertiva essere finalmente giunto in Lagàmara: cosa che lo consolò oltremodo. Un’altra consolazione ebbe, e si fu che, appianate tutte le difficoltà, poteva finalmente mo- /162/ vere pel Kaffa; anzi abba Magàl avevagli a quest’uopo concesso uno dei suoi servi come corriere e guida.

E questi a sua volta doveva procurare al nostro apostolo una grande consolazione. Padre, gli disse una sera, oh quanto volentieri mi farei anch’io cristiano se la mia vita di corrotto mussulmano me lo permettesse ancora! Dacché voi siete comparso in queste parti sempre ho nutrito un tal desiderio, ma anche da quel punto mi appare davanti un brutto spettro che mi distoglie dal mio proposito. Il buon missionario lo confortò a sperare, lo istruì e quando lo vide sufficientemente disposto, stabilì di dargli il battesimo. Ma ecco nella notte il giovane essere novellamente disturbato, cosicché il missionario fu obbligato a fare gli esorcismi; e allora lo spirito maligno lo lasciò alquanto tranquillo. Ma nell’amministrazione del battesimo un’altra volta ritorna all’assalto.

Mentre egli si avviava alla cappella per la sacra funzione, ecco si vede seguito da una brigata di giovani con aria poco benigna; si volge atterrito al nostro Massaia, il quale, non temere, gli dice; e fatto il segno della croce, i mentiti giovani o meglio i demoni si dileguan per incanto. Ma che? con una ostinazione propria degli spiriti delle tenebre, ritentan da capo la prova. Alla parola, abrenuntio satanae, il povero giovane sentì come una forza interna che violentemente lo tormentasse. Non basta: mentre queste cerimonie si compivano nella cappella, fuori un frastuono di voci adirate e minaccianti morte si facevan udire. Fattosi in sulla soglia il suddiacono Paolo nulla vide e sentì; che era notte fitta e tutti a quell’ora dormivano. /163/ Nell’atto poi di versare l’acqua sul capo, scoppiò una forte risata e una voce risonò che disse: tutto questo per un po’ d’acqua! Non importa; continuerai ad essere mussulmano come prima e ne faremo ciò che ci piacerà. Furono questi gli ultimi sforzi fatti dal demonio per trattenere quell’anima, che fortunatamente però rompeva i suoi lacci e si rivendicava in libertà, nella libertà dei figli di Dio. D’allora in poi il nostro Gabriele (questo il nome preso dal convertito) non ebbe più molestie.

(1a) Perito nel 1897 presso Mogadiscio nella Somalia italiana in un’imboscata tesagli dagli indigeni. [Torna al testo ]